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Autore: Adeia Di Elferas    24/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Giampietro Bergamino era partito subito alla volta di Faenza, accompagnato da un paio di staffette veloci – da usare per contattare Giovanni Bentivoglio – e i soldati migliori di Forlì.
 Si era aspettato di trovare la città in aperta ribellione, visto quello che era successo a Galeotto Manfredi, perciò restò non poco stupito nel vedersi, invece, accogliere con una certa benevolenza.
 La notizia della morte del signore della città era già di dominio pubblico, eppure nessuno sembrava voler mettere in discussione la posizione di Francesca Bentivoglio, madre del nuovo signore di Faenza, Astorre, di soli tre anni.
 Il Bergamino, però, era abbastanza acuto da comprendere che quella situazione era comunque molto precaria. Sarebbe bastata una scintilla o anche solo qualche fuoriuscito per aizzare la popolazione contro la loro signora e a quel punto una guerra civile sarebbe stata pressoché impossibile da evitare.
 Prima di tutto, Bergamino volle incontrare Francesca, come la Contessa Riario gli aveva ordinato di fare, per accertarsi che fosse tutto vero.
 La trovò nelle sue stanze, assieme al figlio e alla balia. Inorridì non poco nel notare come la donna non si fosse data pena di cambiarsi d'abito, restando con indosso solo una camicia per la notte completamente imbrattata di sangue.
 Una strana luce le riempiva gli occhi e, quando vide l'uomo inviatole da Caterina, gli andò subito incontro per ringraziarlo e chiedere notizie del padre.
 “Vostro padre Giovanni era già partito da Forlì, quando avete mandato le vostre lettere – spiegò il Bergamino – ma manderò subito una staffetta veloce per rintracciarlo lungo la strada. La situazione mi pare sotto controllo, ma credo che la presenza del signore di Bologna aiuterà Faenza a mantenere la calma.”
 Francesca annuì, quasi febbrilmente e chiese alla balia di consegnare il necessario per scrivere a Giampietro Bergamino, affinché potesse subito stilare il messaggio per Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna.

 Caterina stava rileggendo la lettera di Francesca Bentivoglio, sempre più convinta che quelle parole nascondessero una sorta di richiesta di approvazione, più che una richiesta di aiuto.
 'E così l'ho ucciso' scriveva la giovane: 'senza badare ad altro, l'ho ucciso con le mie stesse mani'.
 L'inchiostro si mescolava con il sangue, rendendo ogni riga ancora più vera e sconvolgente.
 Caterina aveva pensato più di una volta di uccidere suo marito Girolamo, ma non l'aveva mai fatto. Si era sempre tirata indietro all'ultimo minuto.
 Francesca Bentivoglio, invece, esattamente come Chiara, sua sorella... Loro erano andate fino in fondo.
 Avevano desiderato tanto liberarsi dalle loro catene fino a trasformarsi in fredde e lucide assassine.
 In quel momento Caterina si sentì un'ipocrita. Per tutta la vita non aveva fatto altro che criticare le persone che non agivano con prontezza, dicendo che erano tutti codardi e vigliacchi. Anche lei la era stata...
 “Vostra figlia vi attende nel cortile, mia signora – disse una delle balie, entrando nella stanza della Contessa – per la lezione di cavallo...”
 Caterina annuì e lasciò la lettera sulla scrivania. Aveva promesso a Bianca che sarebbe stata presente alla sua lezione e così avrebbe fatto.
 Ora doveva pensare solo ai suoi figli, senza farsi distrarre da altro. Era difficile, ma era fondamentale.
 Quello che le succedeva attorno era il segno più inequivocabile della precarietà della vita... Se voleva riuscire a restare a galla, doveva essere non solo una buona statista, ma anche ua buona madre, perchè spesso è tra le mura domestiche che nascono e crescono i pericoli peggiori.

 La staffetta del Bergamino raggiunse Giovanni Bentivoglio molto rapidamente.
 L'uomo lesse attentamente quello che il suo vecchio amico gli aveva scritto e, dapprima, trovò tutta quella faccendo una vera assurdità.
 Bergamino aveva scritto che Francesca aveva ucciso di sua mano il marito Galeotto, e che ora attendeva la sua presenza per portare il figlio Astorre davanti al Consiglio degli Anziani, in modo da legittimarlo a tutti gli effetti.
 Faenza, per di più, era rimasta del tutto impassibile di fronte alla notizia della morte del loro signore e anzi, pareva ben disposta ad accettare un treenne come nuovo padrone.
 Giovanni rilesse molte volte la lettera, poi si rivolse alla staffetta: “Ma è vero che la città non dà segni di inquietudine?”
 Il giovane alzò le spalle e confermò: “Siamo entrati in città senza problemi e anzi... Qualcuno addirittura ci applaudiva lungo la strada...”
 Giovanni si grattò la fronte e si alzò dallo sgabello da campo su cui si era accomodato per leggere con più attenzione.
 “Qui Giampiero scrive che non è necessario entrare in città con un esercito, che basta la mia guardia personale. Credete sia davvero così?” domandò al messaggero.
 Questi, un po' in difficoltà per essere stato interpellato su un argomento tanto importante, annuì appena, mentre rispondeva: “Sono d'accordo con Giampiero Bergamino, mio signore. Un esercito sarebbe inutile, se non dannoso.”
 Giovanni, a quel punto, decise di intervenire nella questione di Faenza. Non condivideva l'azione della figlia, né l'avrebbe perdonata per aver corso un rischio tanto grande, ma se era vero che tutto stava andando per il meglio, tanto valeva mostrarsi brillanti.
 “Ripartiremo subito, non c'è bisogno che torniate a Faenza da solo a riferire. Seguirete noi.” concluse Giovanni, dando una sonora pacca sulla spalla alla staffetta, che incassò con un sorriso.

 Giacomo Feo aveva notato che la Contessa lo stava evitando di proposito, in quegli ultimi giorni.
 Gli dispiaceva vederla cambiare repentinamente strada, quando lo intravedeva in lontananza e ancora di più lo addolorava notare come non cercasse più il suo sguardo quando proprio non poteva evitare di passargli accanto.
 Negli anni trascorsi a servizio di suo fratello Tommaso, Giacomo non aveva mai avuto modo di conoscerla. L'aveva sempre e solo vista da lontano, senza mai potersi avvicinare a lei o parlarle.
 La prima volta che aveva avuto un'occasione così preziosa era stato nelle stalle, alla fine di aprile, appena prima che venisse dichiarata la vittoria.
 L'aveva sempre ammirata per la sua bellezza, ma nel momento in cui i loro occhi si erano incrociati per la prima volta, aveva provato qualcosa di travolgente sconvolgergli l'anima.
 Non era mai stato innamorato, prima. Certo, era giovane, ma molti alla sua età erano già sposati, a volte addirittura già padri, mentre lui non aveva mai avuto una donna tutta per sé.
 La Contessa gli aveva acceso una fiamma nel petto, qualcosa che non si poteva più spegnere e lui era certo che nemmeno lei fosse rimasta del tutto indifferente a quel loro primo incontro.
 Tuttavia, anche quella mattina, mentre lui raggiungeva le stalle, aveva intravisto la Contessa dall'altro lato del cortile e aveva notato, soffrendone, che lei l'aveva scorto e aveva subito cambiato direzione per non doverlo incontrare.
 “Oh!” la voce di Tommaso risvegliò Giacomo dai suoi pensieri: “Hai deciso di dormire invece di lavorare?!” esclamò il castellano, dando un colpetto alla nuca del fratello minore.
 “No, stavo solo...” cominciò a dire Giacomo, che teneva qualche ferro di cavallo in mano.
 “Dai, datti una mossa! Devi finire di strigliare i cavalli!” fece Tommaso, scuotendo il capo: “Se non ti dai una svegliata, non duri fino all'estate, come stalliere!”
 Giacomo non ribatté, come sempre sentendosi un sottoposto del fratello maggiore e perciò obbligato al rispetto e all'ubbidienza, e si diresse verso i cavalli che ancora non erano stati strigliati, mentre la sua mente tornava agli occhi verdi e ai capelli dorati della sua signora.

 Francesca Bentivoglio era stata fatta spogliare e lavare e infine rivestire, in modo da renderla presentabile per l'arrivo del padre.
 Faenza era rimasta un po' scossa nel vedere arrivare il signore di Bologna in città e solo dopo una buona mezza giornata qualcuno aveva cominciato a riflettere sul fatto che, in fondo, era comunque il padre della loro signora ed era legittimo che partecipasse all'elevazione del nipote a titolo di signore della città.
 Quando Giovanni incontrò la figlia, al primo sguardo non la riconobbe. L'aveva rivista nemmeno un anno prima, quando ella era scappata dal tetto coniugale salvo poi farvi ritorno su consiglio di Lorenzo Medici, ma in quei pochi mesi era cambiata davvero moltissimo.
 Soprattutto la sua espressione era diversa. Nelle sue pupille brillava una luce accesa e prepotente. Difficile dire se fosse dovuta alla ritrovata libertà o alla follia.
 Giovanni scambiò con lei solo poche parole, tutte di circostanza e fece pressioni affinché ci si sbrigasse con le formalità.
 Assieme al Bergamino e alla figlia, Giovanni portò Astorre fino alla chiesa di San Pietro, dove il Consiglio degli Anziani fece formalmente atto di sottomissione a nome di tutta la città.
 “Bene, ora comincia la vostra reggenza.” disse piano Giovanni alla figlia Francesca, quando fu il momento di congedarsi: “Ho pregato Giampietro Bergamino di vegliare sul tuo governo. So che la Contessa Sforza Riario non avrà nulla da recriminare in merito, visto che ha subito inviato le sue truppe in tua difesa.”
 Francesca ascoltava con un sorriso statico dipinto in volto. Era il momento che tanto aveva atteso, ma quell'ultimo dettaglio non le andava giù. Non aveva bisogno di un uomo come il Bergamino, per mantenere il suo governo. Faenza aveva giurato fedeltà ad Astorre senza problemi. Non c'era motivo di avere tra i piedi un uomo di Caterina Sforza...
 “Io resterò in zona per qualche giorno ancora, ma non credo ci sarà bisogno di nuovo del mio intervento...” soppesò Giovanni.
 Dopodiché diede alla figlia un goffo buffetto sulla guancia e si congedò con un saluto estremamente impersonale e freddo.

 “Come sarebbe a dire che avete mandato il Governatore di Forlì a Faenza a combattere per la Bentivoglio?!” chiese Raffaele Sansoni Riario, spalancando gli occhi.
 Caterina lo aveva invitato alla rocca di Ravaldino per discutere ancora una volta sul da farsi.
 Raffaele, anche se non per suo merito, era incredibilmente facoltoso e un po' di denaro avrebbe fatto comodo a Caterina, dal momento che aveva deciso di ridurre drasticamente le tasse della sua città.
 “Non l'ho mandato a combattere...!” sottilizzò Caterina: “Dubito che Faenza si solleverà senza motivo contro Francesca Bentivoglio. Galeotto era un inetto e in molti lo detestavano. Bergamino dovrà solo mantenere gli animi tranquilli quel tanto che basterà per far eleggere Francesca reggente e poi non avrà più nulla a che fare con Faenza.”
 Raffaele alzò un sopracciglio e sorbì un sorso di vino: “Se è questo che credete...”
 Caterina cominciava a innervosirsi. Quell'uomo, che nella sua vita non aveva ancora combinato nulla di buono, osava insinuare dubbi su questioni che non conosceva, mettendola in difficoltà senza motivo.
 “Parliamo piuttosto di Ottaviano.” riprese Caterina, lasciando perdere la questione di Faenza: “Quanto tempo passerà prima che il papa renda ufficiale la sua carica?”
 Raffaele ci pensò su, poi fu costretto a rispondere: “Finché Monsignor Savelli continua a languire nelle vostre celle, dubito che Innocenzo VIII sarà disposto a firmare delle carte in favore di Ottaviano.”
 Caterina si morse il labbro e si abbandonò contro lo schienale della sedia con uno sbuffo. Raffaele aveva ragione, ma non poteva cedere così in fretta. Savelli, ai suoi occhi, era colpevole tanto quanto gli Orsi, dunque era già tanto se non aveva ordinato a Babone di appenderlo per i piedi al rivellino di Porta San Pietro.
 
 Lorenzo Medici fissava il suo cancelliere con perplessità. Quel giorno era pieno di dolori in tutto il corpo e non avrebbe avuto nessuna voglia di occuparsi di affari di Stato, ma si trattava di cose molto urgenti.
 Non gli piaceva il fatto che Giovanni Bentivoglio si fosse presentato a Faenza per legittimare il nipote Astorre. L'alleanza – o meglio, la non belligeranza – con Bologna gli stava molto a cuore, ma non voleva certo che Faenza diventasse un satellite di Bentivoglio...
 Il suo cancelliere continuava a parlare, descrivendo con dovizia di particolare il come e il quando il tale aveva detto o fatto la tal cosa, ma a Lorenzo non interessavano tutte quelle chiacchiere. La sostanza era solo quella: Faenza si sarebbe trasformata in un dominio di Bologna.
 Conosceva abbastanza bene Francesca Bentivoglio per sapere che quella determinazione che aveva esibito nell'uccidere il marito si sarebbe in fretta spenta e avrebbe lasciato di nuovo il posto alla sua indole rancorosa, certo, ma estremamente remissiva.
 Nel giro di un anno, massimo due, era certo che quella donna avrebbe mollato le redini, lasciando che fosse suo padre a gestire il governo di Faenza come reggente del piccolo Astorre.
 “E sua madre è pure una Sforza...” sussurrò Lorenzo, coperto dalle ciance del cancelliere.
 “Come, scusate?” chiese l'uomo, guardando il suo signore come se si accorgesse solo in quel momento della sua presenza.
 “Niente, niente...” tagliò corto Lorenzo, massaggiandosi un po' un ginocchio.
 Gli era appena sovvenuto il legame indissolubile tra Francesca Bentivoglio e la casa degli Sforza. Faenza non rischiava solo di diventare un satellite di Bologna, ma anche un appoggio di Milano.
 La stessa Caterina Sforza non aveva indugiato e aveva immediatamente spedito degli aiuti alla cugina...!
 L'unica soluzione era estromettere Francesca dal governo e fare in modo che fosse direttamente il Consiglio degli Anziani a fare da reggente per Astorre. Non sarebbe stato difficile, a quel punto, infiltrare qualcuno nel Consiglio e pilotare le mosse di Faenza a uso e consumo di Firenze.
 “Il Bergamino – stava dicendo a quel punto il cancelliere – oltre a essere Governatore di Forlì si trova anche a essere supervisore dell'operato di Madonna Francesca...”
 Ecco, quella era la prima cosa da fare: togliere di mezzo il Bergamino, simbolo in egual modo di Bologna e di Milano.
 Mettere paura nella popolazione, far loro credere che con la morte di Galeotto la loro libertà era finita.
 “E state zitto, per amor del cielo!” sbottò improvvisamente Lorenzo, mettendo a tacere il cancelliere: “Ho cose importanti da fare, lasciatemi solo!”
 Mentre il cancelliere stava per lasciare la stanza, Lorenzo aggiunse: “E chiamate i miei dottori! Che mi portino qualcosa per il dolore alle giunture!”
 
 Il Bergamino era tornato a Forlì con i suoi soldati, riferendo che tutto era andato per il meglio e che Giovanni Bentivoglio sarebbe rimasto in zona un paio di settimane, tanto per sicurezza, per poi ripartire alla volta di Bologna.
 “Come stava Francesca?” chiese Caterina, quando il Bergamino ebbe concluso il suo resoconto.
 “Meglio di quanto mi aspettassi.” confessò l'uomo: “Forse solo un tantino scossa, ma direi che è il minimo, dopo quello che... Che è successo.”
 Stava per dire 'che ha combinato', ma gli era parso irrispettoso, dato che la Bentivoglio era pur sempre una cugina della Contessa.
 Caterina lo aveva allora congedato e aveva trascorso il resto della serata con i suoi figli e con sua sorella.
 Si era resa conto che sia quest'ultima, sia Cesare non facevano altro che parlare di Tommaso Feo. La prima lo faceva con fin troppo trasporto, mentre il secondo ne ammirava la bravura con la spada e a cavallo.
 Ottaviano, invece, citava spesso Giacomo Feo e raccontava di questo o quel gioco che aveva fatto con lui nel cortile di addestramento, tra un tiro di spada e l'altro.
 Da un lato, era un bene che Ottaviano avesse trovato una figura di riferimento nei fratelli Feo, perchè almeno così non si tormentava più nel ricordo del padre, che, per quanto fosse da lui amatissimo, gli aveva lasciato ricordi contrastanti e spesso dolorosi. Però, Caterina avrebbe comunque voluto zittire il suo primogenito, perchè stava cercando con tutta se stessa di non pensare al fratello del castellano.
 Aveva diciassette anni, accidenti, ed era un ragazzo senza arte né parte. Non aveva un passato e probabilmente nemmeno un futuro...
 Eppure non riusciva a levarselo dalla mente.
 “E così Messer Giacomo mi ha detto – stava proseguendo Ottaviano, catturando l'attenzione sia del fratello Cesare sia della sorellina Bianca – che diventerò un grande cavaliere, perchè so come si combatte!”
 Caterina gli dedicò un breve sorriso, ma ancora una volta desiderò di poterlo far smettere immediatamente, perchè ogni volta che diceva quel nome, la ripiombava in un gorgo di congetture e pensieri in cui non voleva restare intrappolata per nessun motivo.
 Quella sera, quando restò sola nella sua stanza, Caterina si mise davanti al suo piccolo specchio e cominciò a passarsi uno dei suoi unguenti sul viso e poi sulle mani. Dalla morte di Girolamo aveva un po' interrotto quei rituali di bellezza a cui era stata così dedita per anni.
 Era il momento di ricominciare. Fin da bambina aveva inseguito il mito della bellezza e della giovinezza eterne, ma, se all'epoca lo faceva solo per curiosità alchemica, crescendo l'aveva fatto per un motivo molto più terreno.
 Aveva capito che la bellezza era un'arma, né più né meno pericolosa che un qualsiasi pezzo di artiglieria. Troppe volte le sorti di una donna erano legate alla sua avvenenza e così si era decisa a sfruttare la preziosa dote ricevuta da sua madre, assecondando ciò che la natura aveva voluto per lei.
 Così aveva inventato e scoperto creme ed estratti per rendere le mani bianche e lisce, morbide malgrado la pratica con la spada e con l'arco, il viso privo di rughe e i capelli soffici e lucenti.
 A breve avrebbe dovuto usare quell'arma anche con Antonio Maria Ordelaffi, la cui visita era ormai molto vicina. Lo avrebbe intimidito, mettendosi nei suoi confronti in una posizione di forza.
 Finito quel rituale, si guardò un momento nella superficie irregolare dello specchio e si trovò ad arrossire da sola, mentre, in un eccesso di onestà con se stessa, si trovava a pensare che quel ritrovato entusiasmo per i trattamenti di bellezza era dovuto anche a un altro motivo, decisamente meno politico e insensatamente più importante ai suoi occhi.

   
 
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