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Autore: Black Angel    24/03/2005    3 recensioni
Sono solo favole, nulla più. Le novelle di coloro che abitano queste lande, le fiabe delle loro vite intrecciate dai fili dell'oscuro peccato: figli della Morte e quelli della Luna, amanti del sangue e amanti della lussuria, animi che sognano la fine eterna ed altri che cercano disperatamente la propria libertà... Solo favole, nulla più. Una fiaba ad ogni capitolo nella speranza che non vi perdiate nella follia di queste lande senza ritorno...
Genere: Dark, Drammatico, Horror, Malinconico, Mistero, Thriller, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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2.Dark Alice

 

E Alice inseguì il Bian Coniglio. << E’ tardi! E’ tardi! E’ tardi! >> egli esclamava saltellando, preso da gran fretta. << Aspettate! Ve ne prego! >> chiamava la fanciulletta, cercando di raggiungere il bell’animale parlante. Ma esso fuggiva, saltava veloce. Fino a giungere dinanzi a una porticina. L’aprì e dietro essa sparì, sempre in gran furia, guardando il suo grande orologio dorato. E anche Alice giunse a quella porticina, grande pochi metri, così che solo un nano poteva passarci comodamente. Si fermò a osservare la porticina e la curiosità la spronava ad aprirla. Ma di lontano, giungeva la voce della buona sorella << Alice! Dove sei? Alice! >>. Ella la chiamava, ma Alice, curiosa di natura propria, non avrebbe ascoltato quel saggio richiamo. Trattenne il respiro, mentre girava la piccola maniglia dorata, aprendo, infine, piccola porta. Un buio sconfinato si vedeva oltre a essa, dove una lucina splendeva lontana. Si chinò, per passare comodamente nello stretto passaggio, e si addentrò dentro quel mondo a lei sconosciuto…il Paese delle Meraviglie…

 

Alice nel Paese delle Meraviglie…storia deliziosa, vero? Deliziosa in tutta la sua fantasiosa semplicità: una ragazzina che incontra il Bian Coniglio, dalle favolesche forme antropomorfe, e con tutta la sua ingenuità, lo segue cadendo in un mondo fatto di stramberie e magie, colorato di allegria e pazzia.

Ricordo che, quando ero ancora una bambina, era la mia favola preferita: rimanevo affascinata ogni volta che mi veniva raccontata, nonostante il finale mi fosse, ormai, ben noto. Ma non era il finale ad attrarmi tanto, bensì il bel Paese dove Alice cadeva. Sognavo sempre di essere come quella fanciulla, che da un casuale e strambo incontro, si trovò catapultata in un mondo sconosciuto.

Lo desideravo…lo desideravo con tutta me stessa, senza sapere che, in un futuro neanche tanto lontano, la mia storia si sarebbe avvicinata tanto a quella delle fanciulla di carta e inchiostro.

Un giorno, infatti, anch’io incontrai il mio Bian Coniglio, e, come Alice, che da sempre invidiavo, lo seguì, persa nell’ingenuità e nella curiosità. E infine caddi. Caddi nel Paese delle Meraviglie.

Ma esso nulla aveva di somigliante a quello della fanciulletta: non vi erano colori, ne, tanto meno, quell’aria di festa, che riempiva tutte le strade nel libro.

Il mio, era un Paese buio, per le strade vi era solo oscurità e…dannazione…eterna dannazione…

Ma è inutile accelerare i tempi, o tu, mio povero e buon ascoltatore, ben poco capirai. E quindi, raccontiamo questa favola dal principio…circa 12 anni or sono…

Nel presentarmi usavo ancora il nome di Zaira McGray, che poi si sarebbe privato del cognome, e a quei tempi non ero altro che una normale sedicenne che si preoccupava più dei suoi voti a scuola che dei veri problemi del mondo, che s’agitava come un’oca davanti ai problemi che non riusciva ad affrontare, che si chiedeva perché a lei capitava tutto quello, che, senza saperlo, succedeva a tutti i suoi coetanei.

In poche e semplici parole, ero nel bel mezzo della tormenta del mio ego! Ero contaminata da quel “virus”, di cui mai si troverà cura, poiché è un nemico dal sapore troppo dolce per privarcene; quel “virus” che colpisce tutti i giovani che non sanno se definirsi bambini-cresciuti, o adulti-immaturi...in una parola, l’adolescenza!

E’ ben noto, che uno dei sintomi di questa “malattia” sia vedere i propri problemi come fossero montagne insormontabili, mentre in realtà sono poco più che collinette di paglia. Ovviamente, di questo me ne sarei resa conto molto tempo più avanti, quando avrei ricordato questo genere di problemi con un certo rimpianto, confrontandoli a quelli che mi avrebbero assalito! Ma procediamo con calma…

L’inizio di questa favola, come vi dicevo, avvenne in un giorno qualunque della mia vita…almeno quello mi sembrò al mio risveglio…

Come era mia consuetudine, appena sveglia, spalancai la finestra della mia camera, infischiandomene del gelo che entrò prepotente nel mio piccolo rifugio, e che si ostinava a pungermi il corpo ancora intorpidito dal sonno. Mi strofinai gli occhi, per prepararli a quello squarcio del mondo, che ogni volta potevo osservare dall’occhio indiscreto del mio rifugio: il cielo di quella mattina, aveva una tinta grigio-bianca, che sembrava il colore adatto alla malinconia ingiustificata del mio animo; quel colore, che trovavo così intimo nonostante il freddo del suo vento, sovrastava la città ammantata di bianco, come una sposa pronta al grande giorno. Ma che grande giorno poteva esserci per quella città, che da tempi immemori continuava la sua monotona vita?

Pigramente, poggiai i gomiti sul davanzale di marmo, rabbrividendo al contatto della mia pelle nuda con il freddo della pietra. Avrei potuto restare così per tutto il giorno…come sarebbe stato bello! Lontano dai voti che faticavo a tenere su una media decente, lontano da quelle arpie che continuavano a sibilarmi cattiverie, lontano da tutte quelle litigate con mia madre, lontano da quel mondo che mi appariva come un severo giudice di ogni mia piccola azione…lontano…da quella routine che mi stava uccidendo.

Avrei voluto, avrei potuto…non fosse stato per il secco richiamo di mia madre, che mi riportava bruscamente alla normalità

- Zaira, spicciati! Farai tardi a scuola! – si rincorse la sua voce sulle scale. Dopo tutte quelle litigate, che erano state tutt’altro che rare nei giorni precedenti, quella voce quasi nasale, mi irritava terribilmente, arrivando, persino, a nausearmi. Quella stessa voce, che, nei miei ricordi d’infanzia, mi raccontava la mia favola preferita.

- Per quello che m’importa…- sbottai, richiudendomi, controvoglia, la finestra alle spalle e lasciandomi trascinare in quel mondo di cruda realtà. E nulla sembrava potermi convincere del contrario…

Che fossi a scuola o a casa, che fossi in mezzo ai miei amici o ai miei parenti, non mi sentivo più a mio agio, come una volta. Mi sentivo estranea da tutto e tutti. Lontana…

- Ehi, Zaira, stai bene? – mi chiese Kathy, agitandomi davanti agli occhi, una delle sue manine inguantata con una stoffa tappezzata di vivaci bande colorate.

- Eh?! Cosa…? – chiesi frastornata, quasi fossi stata svegliata da una secchiata d’acqua gelida

- Ti chiedevo se va tutto bene…- ripeté pazientemente la mia amica, passandosi una mano tra i corti capelli, tinti di un blu elettrico da qualche settimana, che componevano il suo vivace caschetto – E’ da un paio di giorni che non sembri più sulla terra! –

- E’ solo…- esitai alla ricerca di una buona scusa, che potesse liberarmi dalla preoccupazione della mia amica – E’ solo che non sto più dormendo ultimamente…-

A conti fatti, questa non era nemmeno una scusa. In realtà, già da un paio settimane, coltivavo seri problemi con il sonno: dormivo qualche ora a notte, e al mio risveglio tutte le mie energie sembravano svanire. Non era raro, infatti, che dovessi stare sdraiata a letto per qualche minuto, prima di tornare in piedi, se non volevo cadere dopo due passi. Ma di questo, ovviamente, non feci parola a Kathy

- Dovresti prendere qualcosa – mi disse, mentre attraversavamo il cancello della scuola che delimitava il confine della nostra scuola – O prima o poi ci sverrai in classe -

- Non essere assurda! – ribattei, tirando a sforzo un sorriso. Effettivamente mentirei dicendoti che non nutrivo tale preoccupazione: la mia forza vitale sembrava estinguersi ogni giorno di più, e la forza per reggermi in piedi, sembrava sparire con essa.

- Insisto che dovresti farti dare qualcosa, sia anche un sonnifero! – esclamò con cocciutaggine, la mia amica, mentre intraprendevamo la strada, costeggiata d’alberi spogli, che ci avrebbe riportato verso casa. Anche per quel giorno la tortura d’interrogazioni e compiti in classe era finita! E, strano a dirsi, ero riuscita a garantirmi più di un discreto sei in tutto; e, magari, anche per quell’anno sarei riuscita a passare per pura fortuna o bontà d’animo dei professori.

I miei occhi, vacui e perduti, osservarono le scheletriche sagome brune che si levavano verso il cielo grigio-bianco. Non so come mi trovai a paragonare quegli alberi privi di bellezza alle anime dannate dell’Inferno dantesco. Anime perdute che lambivano al Paradiso, che non avevano raggiunto. Anime che lambivano alla fine di tutto quel tormento, ma che ben sapevano, che nel luogo nel quale erano cadute non esisteva la parola fine ma solo la parola eternità.

Mentre mi perdevo in tali grotteschi pensieri, nuovamente Kathy mi riportò alla realtà, separandomi dal mio mondo fra le nuvole…

- Guardati! Sei pallida come un lenzuolo. Non penso che sia un buon segno! – mi fece osservare, scalciando un grumo bianco, che s’infranse contro la punta arrotondata dei suoi anfibi neri

- Oh, è questo freddo – trovai una nuova scusa – Vedrai che quando arriverò a casa assumerò un colore più umano –

- Se lo dici tu –. Con un’alzata di spalle, si rassegnò al mio desiderio di non dirle nulla di quello che realmente m’affliggeva. Sapeva che ero depressa per quanto riguardava la scuola, ma sapeva anche che non era l’unica cosa che mi stava distruggendo in modo così evidente.

Kathy non era una stupida e, soprattutto, mi conosceva da una vita! Aveva capito immediatamente che dietro ai miei sorrisi, alla mia allegria, alle mie parole di scusa, nascondevo qualcosa di molto più profondo che i stupidi voti scolastici. Ma anche se mi chiedeva di parlargliene, io mi rifiutavo di confidarglielo, e tutt’ora credo, che questo, le lasciasse un po’ d’amaro in bocca. In fondo era comprensibile. Probabilmente credeva che non mi fidassi di lei

In realtà, però, io mi fidavo ciecamente della mia stramba amica dai capelli colorati. Le avrei dato in mano anche la mia stessa vita, se fosse stato possibile. Insomma, la mia ritrosia nel confidarle le mie pene, non era data da una questione di fiducia. Temevo, più che altro, d’infastidirla con le mie stupide lagne infantili, che, a dire la verità, erano veramente tante: non c’era solo il sonno a togliermi la forza vitale, ma anche le furiose litigate che scattavano con mia madre erano abbastanza stancanti per il mio corpo e, soprattutto, per la mia mente. Senza parlare del fatto che mio padre era completamente sparito dalla mia vita da circa un paio di mesi, ma in fondo questo era solo l’ultimo dei problemi che affligevano il mia anima. Oltre i problemi con i voti scolastici, sempre troppo bassi, persistevano, anche, anche i problemi con il mio fisico: invidiavo tutto delle ragazze che mi circondavano! Le vedevo tutte più belle di me, più magre, più formose, più alte…insomma, nessuna cosa del mio aspetto esteriore aveva, secondo me, motivo d’esser lodato. Odiavo tutto di me stessa…e questo mi portò a pensare spesso al suicidio. Troppo spesso…

Ma amavo troppo la vita per fare una sciocchezza del genere! Non volevo fuggire dai miei problemi, io volevo risolverli!

Ma, è inutile continuare ad appesantire il mio racconto con tutte le problematiche che mi ero creata in più di tre anni. In realtà, questo mio narrare, è puntato a presentarti colui che mi portò nel mio Paese delle Meraviglie: il mio Bian Coniglio…

Dopo aver salutato Kathy, la quale era venuta a casa mia per studiare le lunghe pagine che componevano il capitolo di storia dedicato al ‘700 (gli anni della luce che dovevo studiare nel mio periodo buio, ironia della sorte), rimasi in casa, sola con mia madre. Da un paio di giorni, l’atmosfera che si respirava, quando eravamo sole, era molto più che tesa. Sembrava che ogni minima cosa ci potesse portare a un litigio, e quella sera non fu un’eccezione.

Non ricordo neanche cosa fece scattare la scintilla, talmente era banale come causa, ma ricordo ancora le sprezzanti parole che rivolgemmo l’una all’altra, cattive come mai, le nostre urla che aumentavano man mano di volume, e, infine, la porta che si sbatteva dietro le mie spalle. Mi appoggiai qualche secondo alla porta, per sentire, dall’interno, mia madre che scoppiava in lacrime. E, per la prima volta in vita mia, non ebbi alcuna pena per lei…

A ridirlo, ora, mi vengono i brividi. Non posso credere che una semplice litigata avesse tirato fuori la parte più crudele di me, che un semplice scambio di battute, per quanto cattive, avesse nascosto il mio cuore in una teca ghiacciata…

Fatto sta, che allora, non vi diedi peso. Affondai le mani nelle tasche dei miei pantaloni a vita bassa e scesi in strada, immergendomi nel buio, costellato di luci artificiali, della città. Solitamente avrei avuto il timore di aggirarmi da sola per le strade buie (chissà chi mai potevo incontrare?), ma quel giorno non sembrava importarmi. Mentre camminavo, il ricordo della litigata si faceva vivo nella mia mente. 

“ Perché tutto a me?” mi trovai a chiedermi, mentre le lacrime iniziarono a pungermi gli angoli degli occhi, prima che le cacciassi cocciutamente indietro. Eppure un bel pianto liberatore mi avrebbe fatto bene. Da quanto non ne facevo uno? Da tanto, troppo tempo per essere ricordato…

Mi lasciai cadere sulla prima panchina che trovai libera, stingendomi le ginocchia al petto e cercando un po’ di calore in quel freddo secco d’inverno. Nella foga della rabbia non avevo preso neanche il giaccone, e ora mi ritrovavo per strada con indosso un semplice maglioncino blu a collo alto, un paio di pantaloni neri a vita eccessivamente bassa, e un paio di scarpe da ginnastica. Non mi sarei stupita se la gente iniziasse a pensare che ero una “fuggitiva” (una scappata di casa, tanto per intenderci). Ma in fondo non ero quello?

Ma, a quanto pare, non tutti dovevano aver avuto questa impressione. Meno tra tutti il mio Bian Coniglio.

Non so quanto tempo passò da quando ero uscita da casa mia sbattendo la porta, fatto stava che ora la luna brillava alta nel cielo, con la sua pallida falce giallognola quando qualcuno si adagiò sulla mia stessa panchina: lui! Il suo aspetto era tra i migliori che avessi mai visto: era un giovane sulla ventina, corte ciocche nere (almeno quello sembravano al buio) cadevano morbidamente l’une sopra le altre, lasciando immacolato quel volto imberbe e incredibilmente liscio, dove s’erano incastonati due gemme ammaliatrici. Solo dopo, quando si sarebbe accostato maggiormente a me, avrei notato il loro colore verde scuro. Se il suo volto poteva essere talmente delicato, da farlo apparire un moccioso, il suo fisico, modellato da chissà quali sport, cancellava subito quest’ipotesi: le spalle erano ampie, e la maglia che portava fasciava fin troppo bene i suoi pettorali, per poi cadere larga su una parte dei jeans scuri, che costituivano il suo abito. Il tutto, poi, era coperto da un lungo soprabito nero.

Dopo aver notato tutta questa sua bellezza, tornai a osservare la volta celeste, per far sì che non si accorgesse del mio sguardo, troppo indagatore, su di lui. Ma, a quanto pare, il danno era fatto: lui mi aveva notata!

- Che ci fa una ragazzina sola per queste strade? – mi chiese, mentre poggiava, cautamente, la schiena contro lo schienale di legno

- Evita casa sua – risposi evasivamente, continuando a guardare il cielo

- Beh, ma le strade a quest’ora sono pericolose. Non si sa mai che incontri potresti fare – mi disse, pronunciando con una certa malizia l’ultima frase. Ma anche di quella malizia non m’accorsi, e fu un altro dei miei errori.

- Non m’importa. Ormai tutto ha perso importanza per me – mormorai tristemente, abbassando il capo sul petto.

 

E’ strano come ci è più facile parlare dei nostri tormenti a perfetti sconosciuti, piuttosto che a persone che ci conoscono da una vita. E’ strano, eppure succede…

 

- Neppure la tua vita? –

Rialzai, di scatto, il volto su di lui, trovandomelo molto più vicino di quanto ricordassi.

- La…mia vita?! – ripetei dubbiosa

- La monotonia, tutta questa routine con cui gira la tua vita, ha ancora importanza per te? –

Lo osservai cercando di comprendere ciò che passava nella sua mente: nulla...assolutamente nulla…

- No – risposi sincera, distogliendo i miei occhi su di lui – Non più -. Per la prima volta, davanti a uno sconosciuto, avevo risposto negativamente a quella domanda che molte e molte volte mi ero fatta.

 

E’ strano che, ogni volta che siamo depressi, nulla sembra avere più il suo effettivo valore. E’ strano, eppure succede…

 

Due delle sue dita s’insinuarono, delicate, sotto il mio mento, costringendomi a portare nuovamente il mio sguardo sul suo

- Lo dici davvero? – mi chiese, a un soffio dal mio volto. Annui…ed avevo aperto il mio contratto con il Diavolo

- Vorresti che tutto questo non fosse più ciò che fa ruotare la tua vita? E’ vorresti cambiare tutto questo?-

Non puoi immaginare, buon straniero attento, quanto furono seducenti quelle semplici parole per me.

Erano come l’acqua, per colui che non l’ha assaporata da giorni; erano come la vista, per colui che l’aveva persa; erano come il ritorno alla vita, per colui che è caduto nel baratro della morte…

Annui.

 

E’ strano il fatto che quando siamo sconfitti non temiamo nulla di quello che ci sta intorno. E’ strano, eppure succede…

 

- Io ti posso dare ciò che desideri, se tu realmente lo vuoi – mormorò, facendo scendere, con lentezza estenuante, il suo profilo sul mio collo, eccezionalmente tirato. – Lo vuoi? -

- Sì – sussurrai decisa. E il mio contratto fu firmato.

- Bene – sussurrò conto la mia vena, che pulsava rabbiosa tra le sue labbra.

Quello che successe dopo è, tutt’ora, confuso nella mia mente, appannato da una grigia nebbia che mi offre solo piccoli flash, leggere sensazioni…

Riesco a ricordare due piccole punture di spillo, alla base del mio collo, punture insignificanti che erano in grado di succhiare avidamente la mia forza vitale. Ma, stranamente, non vi era in me alcuna forma di stanchezza, anzi, sembrava che mi venisse iniettata dell’adrenalina, che circolava tra le mie vene con una velocità impressionante, raggiungendo il cuore e facendolo battere follemente tra le mie ossa…TU-TUM TU-TUM TU-TUM TU…fino a farlo fermare.

Ero entrate nel Paese delle Meraviglie.

E il benvenuto non mi fu dato dal rubicondo gatto parlante, bensì da un bacio intinto del mio sangue. E non provai alcun ribrezzo. Io che, da sempre, svenivo davanti a una goccia di sangue, provavo piacere immenso per quel bacio bagnato del mio rosso liquido di vita.

- Benvenuta nel mondo della notte, Zaira – mi disse il Bian Coniglio, prima di allontanarsi lungo la strada e confondersi con l’oscurità che era l’essenza del suo essere e…anche del mio…

Son passati 12 anni da quel giorno. Dodici lunghi anni da creatura della notte, che non sono nulla di fronte ai 100 anni di Matheus. Chi è Matheus? Oh, già, non ti ho detto il suo nome, prima, oh acuto ascoltatore. Lui era colui che ho definito “il mio Bian Coniglio”.

Dopo avermi abbandonato su quella panchina, con tutti i dubbi e le incertezze che mi affliggevano, lo incontrai tre notti successive, in quella strada dove avevo trovato rifugio ai raggi del sole, che ora erano terribilmente dannosi per il mio corpo. Lì, lungo quella strada, dove mi ero rannicchiata, ci rincontrammo nuovamente, e lui mi diede una nuova casa, poiché la mia l’avevo persa.

Da quella notte fatale, infatti, non rimisi mai più piede in casa mia… 

- Non rimpiangi nulla della tua vita passata? – mi chiese improvvisamente, qualche giorno fa, mentre ci beavamo dello spettacolo del cielo estivo, cullati dalla fresca brezza

- Rimpiangere?! – ho ripetuto, quasi ricordassi improvvisamente una parola da me a lungo obliata – Dovrei, forse? -

- Beh, se rimpiangi qualcosa di quello che hai lascito, significa che una parte della tua anima umana è rimasta in te…- mi ha spiegato, mentre il volto si piegava in un sorriso malinconico -…e questo, credo sia un bene – ha concluso, passando affettuosamente una mano tra i miei capelli. E’ solito regalarmi queste dolcezze, che, in fondo, sembra volere donare a qualcun altro, ormai lontano…forse alla sua defunta sorella, che, dice, io tanto gli ricordo…

Ma torniamo al nostro discorso, prima che mi perda per altri sentieri…

- In realtà…c’è qualcosa che rimpiango…- ho ammesso, timidamente, mentre un nodo mi stringeva la gola

- Ah sì?! E che cosa? –

- Le mie ultime parole dette a mia madre…- ho sussurrato.

Lacrime sono scese dai miei occhi, ignorando il comando di tornarsene indietro. Lacrime fredde come la morte, che solcarono le mie guancie, che accarezzarono la linea della mia mascella, cadendo poi sulle mie mani. Ho pianto. Ho lasciato libere tutte quelle lacrime che da tempo immemore custodivo.

- Ti odio…quella è stata la mia ultima parola. E, ormai, non potrò mai dirle il contrario…mai…-

 

Free Talk

Salve e benvenuti nelle mie personali lande degli incubi ^^ Allora, questa one-shot ha preso ispirazione da Alice nel Paese delle Meraviglie (ma dai! Non l’avrei mai detto -.- NdWhite), favola che adoro ^^ Spero possa piacervi il personale adattamento della mia mente malata.

Grazie mille a Mia e Samira che hanno gentilmente commentato i capitoli precedenti */me inchin*

Alla prossima favola ^^ (oh oh, mi sento tanto una nonnina ^^ - I tuoi nipoti s’ammazzerebbero piuttosto che ascoltare le tue favole NdWhite – Questo è proprio il modo migliore per presentarsi, White -.- NdBlack)

 

  
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