2.Dark Alice
E Alice inseguì il Bian Coniglio. << E’ tardi! E’ tardi! E’ tardi!
>> egli esclamava saltellando, preso da gran fretta. << Aspettate!
Ve ne prego! >> chiamava la fanciulletta,
cercando di raggiungere il bell’animale parlante. Ma
esso fuggiva, saltava veloce. Fino a giungere dinanzi a una porticina. L’aprì e
dietro essa sparì, sempre in gran furia, guardando il suo grande orologio
dorato. E anche Alice giunse a quella porticina, grande pochi metri, così che
solo un nano poteva passarci comodamente. Si fermò a osservare la porticina e
la curiosità la spronava ad aprirla. Ma di lontano, giungeva la voce della
buona sorella << Alice! Dove sei? Alice! >>. Ella la chiamava, ma
Alice, curiosa di natura propria, non avrebbe ascoltato quel saggio richiamo.
Trattenne il respiro, mentre girava la piccola maniglia dorata, aprendo,
infine, piccola porta. Un buio sconfinato si vedeva oltre a essa, dove una lucina splendeva lontana. Si chinò, per passare comodamente
nello stretto passaggio, e si addentrò dentro quel mondo a lei sconosciuto…il
Paese delle Meraviglie…
Alice nel
Paese delle Meraviglie…storia deliziosa, vero? Deliziosa in tutta la sua
fantasiosa semplicità: una ragazzina che incontra il Bian
Coniglio, dalle favolesche forme antropomorfe, e con
tutta la sua ingenuità, lo segue cadendo in un mondo fatto di stramberie e
magie, colorato di allegria e pazzia.
Ricordo
che, quando ero ancora una bambina, era la mia favola preferita: rimanevo
affascinata ogni volta che mi veniva raccontata, nonostante il finale mi fosse,
ormai, ben noto. Ma non era il finale ad attrarmi tanto, bensì il bel Paese
dove Alice cadeva. Sognavo sempre di essere come quella fanciulla, che da un
casuale e strambo incontro, si trovò catapultata in un mondo sconosciuto.
Lo
desideravo…lo desideravo con tutta me stessa, senza sapere che, in un futuro
neanche tanto lontano, la mia storia si sarebbe avvicinata tanto a quella delle
fanciulla di carta e inchiostro.
Un giorno,
infatti, anch’io incontrai il mio Bian Coniglio, e,
come Alice, che da sempre invidiavo, lo seguì, persa nell’ingenuità e nella
curiosità. E infine caddi. Caddi nel Paese delle Meraviglie.
Ma esso
nulla aveva di somigliante a quello della fanciulletta:
non vi erano colori, ne, tanto meno, quell’aria di
festa, che riempiva tutte le strade nel libro.
Il mio, era
un Paese buio, per le strade vi era solo oscurità e…dannazione…eterna
dannazione…
Ma è
inutile accelerare i tempi, o tu, mio povero e buon ascoltatore, ben poco
capirai. E quindi, raccontiamo questa favola dal principio…circa 12 anni or
sono…
Nel
presentarmi usavo ancora il nome di Zaira McGray, che
poi si sarebbe privato del cognome, e a quei tempi non ero altro che una
normale sedicenne che si preoccupava più dei suoi voti a scuola che dei veri
problemi del mondo, che s’agitava come un’oca davanti ai problemi che non
riusciva ad affrontare, che si chiedeva perché a lei capitava tutto quello,
che, senza saperlo, succedeva a tutti i suoi coetanei.
In poche e
semplici parole, ero nel bel mezzo della tormenta del mio ego! Ero contaminata
da quel “virus”, di cui mai si troverà cura, poiché è un nemico dal sapore
troppo dolce per privarcene; quel “virus” che colpisce tutti i giovani che non
sanno se definirsi bambini-cresciuti, o adulti-immaturi...in
una parola, l’adolescenza!
E’ ben
noto, che uno dei sintomi di questa “malattia” sia vedere i propri problemi
come fossero montagne insormontabili, mentre in realtà sono poco più che
collinette di paglia. Ovviamente, di questo me ne sarei resa conto molto tempo
più avanti, quando avrei ricordato questo genere di problemi con un certo
rimpianto, confrontandoli a quelli che mi avrebbero assalito! Ma procediamo con
calma…
L’inizio di
questa favola, come vi dicevo, avvenne in un giorno qualunque della mia
vita…almeno quello mi sembrò al mio risveglio…
Come era
mia consuetudine, appena sveglia, spalancai la finestra della mia camera,
infischiandomene del gelo che entrò prepotente nel mio piccolo rifugio, e che
si ostinava a pungermi il corpo ancora intorpidito dal sonno. Mi strofinai gli
occhi, per prepararli a quello squarcio del mondo, che ogni volta potevo
osservare dall’occhio indiscreto del mio rifugio: il cielo di quella mattina,
aveva una tinta grigio-bianca, che sembrava il colore adatto alla malinconia
ingiustificata del mio animo; quel colore, che trovavo così intimo nonostante
il freddo del suo vento, sovrastava la città ammantata di bianco, come una
sposa pronta al grande giorno. Ma che grande giorno poteva esserci per quella
città, che da tempi immemori continuava la sua monotona vita?
Pigramente,
poggiai i gomiti sul davanzale di marmo, rabbrividendo al contatto della mia
pelle nuda con il freddo della pietra. Avrei potuto restare così per tutto il
giorno…come sarebbe stato bello! Lontano dai voti che faticavo a tenere su una
media decente, lontano da quelle arpie che continuavano a sibilarmi cattiverie,
lontano da tutte quelle litigate con mia madre, lontano da quel mondo che mi
appariva come un severo giudice di ogni mia piccola azione…lontano…da quella
routine che mi stava uccidendo.
Avrei
voluto, avrei potuto…non fosse stato per il secco richiamo di mia madre, che mi
riportava bruscamente alla normalità
- Zaira,
spicciati! Farai tardi a scuola! – si rincorse la sua voce sulle scale. Dopo
tutte quelle litigate, che erano state tutt’altro che
rare nei giorni precedenti, quella voce quasi nasale, mi irritava
terribilmente, arrivando, persino, a nausearmi. Quella stessa voce, che, nei
miei ricordi d’infanzia, mi raccontava la mia favola preferita.
- Per
quello che m’importa…- sbottai, richiudendomi, controvoglia, la finestra alle
spalle e lasciandomi trascinare in quel mondo di cruda realtà. E nulla sembrava
potermi convincere del contrario…
Che fossi a
scuola o a casa, che fossi in mezzo ai miei amici o ai miei parenti, non mi
sentivo più a mio agio, come una volta. Mi sentivo estranea da tutto e tutti.
Lontana…
- Ehi,
Zaira, stai bene? – mi chiese Kathy, agitandomi
davanti agli occhi, una delle sue manine inguantata con una stoffa tappezzata
di vivaci bande colorate.
- Eh?! Cosa…?
– chiesi frastornata, quasi fossi stata svegliata da una secchiata d’acqua
gelida
- Ti
chiedevo se va tutto bene…- ripeté pazientemente la mia amica, passandosi una
mano tra i corti capelli, tinti di un blu elettrico da qualche settimana, che
componevano il suo vivace caschetto – E’ da un paio
di giorni che non sembri più sulla terra! –
- E’ solo…-
esitai alla ricerca di una buona scusa, che potesse liberarmi dalla
preoccupazione della mia amica – E’ solo che non sto più dormendo ultimamente…-
A conti fatti,
questa non era nemmeno una scusa. In realtà, già da un paio settimane,
coltivavo seri problemi con il sonno: dormivo qualche ora a notte, e al mio
risveglio tutte le mie energie sembravano svanire. Non era raro, infatti, che
dovessi stare sdraiata a letto per qualche minuto, prima di tornare in piedi,
se non volevo cadere dopo due passi. Ma di questo, ovviamente, non feci parola
a Kathy…
- Dovresti
prendere qualcosa – mi disse, mentre attraversavamo il cancello della scuola
che delimitava il confine della nostra scuola – O prima o poi ci sverrai in
classe -
- Non
essere assurda! – ribattei, tirando a sforzo un sorriso. Effettivamente
mentirei dicendoti che non nutrivo tale preoccupazione: la mia forza vitale
sembrava estinguersi ogni giorno di più, e la forza per reggermi in piedi,
sembrava sparire con essa.
- Insisto
che dovresti farti dare qualcosa, sia anche un sonnifero! – esclamò con
cocciutaggine, la mia amica, mentre intraprendevamo la strada, costeggiata
d’alberi spogli, che ci avrebbe riportato verso casa. Anche per quel giorno la
tortura d’interrogazioni e compiti in classe era finita! E, strano a dirsi, ero
riuscita a garantirmi più di un discreto sei in tutto; e, magari, anche per quell’anno sarei riuscita a passare per pura fortuna o
bontà d’animo dei professori.
I miei
occhi, vacui e perduti, osservarono le scheletriche sagome brune che si
levavano verso il cielo grigio-bianco. Non so come mi trovai a paragonare
quegli alberi privi di bellezza alle anime dannate dell’Inferno dantesco. Anime
perdute che lambivano al Paradiso, che non avevano raggiunto. Anime che
lambivano alla fine di tutto quel tormento, ma che ben sapevano, che nel luogo
nel quale erano cadute non esisteva la parola fine ma solo la parola eternità.
Mentre mi
perdevo in tali grotteschi pensieri, nuovamente Kathy
mi riportò alla realtà, separandomi dal mio mondo fra le nuvole…
- Guardati!
Sei pallida come un lenzuolo. Non penso che sia un buon segno! – mi fece
osservare, scalciando un grumo bianco, che s’infranse contro la punta
arrotondata dei suoi anfibi neri
- Oh, è
questo freddo – trovai una nuova scusa – Vedrai che quando arriverò a casa
assumerò un colore più umano –
- Se lo
dici tu –. Con un’alzata di spalle, si rassegnò al mio desiderio di non dirle
nulla di quello che realmente m’affliggeva. Sapeva che ero depressa per quanto
riguardava la scuola, ma sapeva anche che non era l’unica cosa che mi stava
distruggendo in modo così evidente.
Kathy non
era una stupida e, soprattutto, mi conosceva da una vita! Aveva capito immediatamente
che dietro ai miei sorrisi, alla mia allegria, alle mie parole di scusa,
nascondevo qualcosa di molto più profondo che i stupidi voti scolastici. Ma
anche se mi chiedeva di parlargliene, io mi rifiutavo di confidarglielo, e tutt’ora credo, che questo, le lasciasse un po’ d’amaro in
bocca. In fondo era comprensibile. Probabilmente credeva che non mi fidassi di
lei
In realtà,
però, io mi fidavo ciecamente della mia stramba amica dai capelli colorati. Le
avrei dato in mano anche la mia stessa vita, se fosse stato possibile. Insomma,
la mia ritrosia nel confidarle le mie pene, non era data da una questione di
fiducia. Temevo, più che altro, d’infastidirla con le mie stupide lagne
infantili, che, a dire la verità, erano veramente tante: non c’era solo il
sonno a togliermi la forza vitale, ma anche le furiose litigate che scattavano
con mia madre erano abbastanza stancanti per il mio corpo e, soprattutto, per
la mia mente. Senza parlare del fatto che mio padre era completamente sparito
dalla mia vita da circa un paio di mesi, ma in fondo questo era solo l’ultimo
dei problemi che affligevano il mia anima. Oltre i
problemi con i voti scolastici, sempre troppo bassi, persistevano, anche, anche
i problemi con il mio fisico: invidiavo tutto delle ragazze che mi
circondavano! Le vedevo tutte più belle di me, più magre, più formose, più
alte…insomma, nessuna cosa del mio aspetto esteriore aveva, secondo me, motivo
d’esser lodato. Odiavo tutto di me stessa…e questo mi portò a pensare spesso al
suicidio. Troppo spesso…
Ma amavo
troppo la vita per fare una sciocchezza del genere! Non volevo fuggire dai miei
problemi, io volevo risolverli!
Ma, è
inutile continuare ad appesantire il mio racconto con tutte le problematiche
che mi ero creata in più di tre anni. In realtà, questo mio narrare, è puntato
a presentarti colui che mi portò nel mio
Paese delle Meraviglie: il mio Bian Coniglio…
Dopo aver
salutato Kathy, la quale era venuta a casa mia per
studiare le lunghe pagine che componevano il capitolo di storia dedicato al
‘700 (gli anni della luce che dovevo studiare nel mio periodo buio, ironia
della sorte), rimasi in casa, sola con mia madre. Da un paio di giorni,
l’atmosfera che si respirava, quando eravamo sole, era molto più che tesa.
Sembrava che ogni minima cosa ci potesse portare a un litigio, e quella sera
non fu un’eccezione.
Non ricordo
neanche cosa fece scattare la scintilla, talmente era banale come causa, ma
ricordo ancora le sprezzanti parole che rivolgemmo l’una all’altra, cattive
come mai, le nostre urla che aumentavano man mano di volume, e, infine, la
porta che si sbatteva dietro le mie spalle. Mi appoggiai qualche secondo alla
porta, per sentire, dall’interno, mia madre che scoppiava in lacrime. E, per la
prima volta in vita mia, non ebbi alcuna pena per lei…
A ridirlo,
ora, mi vengono i brividi. Non posso credere che una semplice litigata avesse
tirato fuori la parte più crudele di me, che un semplice scambio di battute,
per quanto cattive, avesse nascosto il mio cuore in una teca ghiacciata…
Fatto sta, che
allora, non vi diedi peso. Affondai le mani nelle tasche dei miei pantaloni a
vita bassa e scesi in strada, immergendomi nel buio, costellato di luci
artificiali, della città. Solitamente avrei avuto il timore di aggirarmi da
sola per le strade buie (chissà chi mai potevo incontrare?), ma quel giorno non
sembrava importarmi. Mentre camminavo, il ricordo della litigata si faceva vivo
nella mia mente.
“ Perché
tutto a me?” mi trovai a chiedermi, mentre le lacrime iniziarono a pungermi gli
angoli degli occhi, prima che le cacciassi cocciutamente indietro. Eppure un
bel pianto liberatore mi avrebbe fatto bene. Da quanto non ne facevo uno? Da
tanto, troppo tempo per essere ricordato…
Mi lasciai
cadere sulla prima panchina che trovai libera, stingendomi le ginocchia al
petto e cercando un po’ di calore in quel freddo secco d’inverno. Nella foga
della rabbia non avevo preso neanche il giaccone, e ora mi ritrovavo per strada
con indosso un semplice maglioncino blu a collo alto,
un paio di pantaloni neri a vita eccessivamente bassa, e un paio di scarpe da
ginnastica. Non mi sarei stupita se la gente iniziasse a pensare che ero una
“fuggitiva” (una scappata di casa, tanto per intenderci). Ma in fondo non ero
quello?
Ma, a
quanto pare, non tutti dovevano aver avuto questa impressione. Meno tra tutti
il mio Bian
Coniglio.
Non so
quanto tempo passò da quando ero uscita da casa mia sbattendo la porta, fatto
stava che ora la luna brillava alta nel cielo, con la sua pallida falce
giallognola quando qualcuno si adagiò sulla mia stessa panchina: lui! Il suo
aspetto era tra i migliori che avessi mai visto: era un giovane sulla ventina,
corte ciocche nere (almeno quello sembravano al buio) cadevano morbidamente
l’une sopra le altre, lasciando immacolato quel volto imberbe e incredibilmente
liscio, dove s’erano incastonati due gemme ammaliatrici. Solo dopo, quando si
sarebbe accostato maggiormente a me, avrei notato il loro colore verde scuro.
Se il suo volto poteva essere talmente delicato, da farlo apparire un moccioso,
il suo fisico, modellato da chissà quali sport, cancellava subito quest’ipotesi: le spalle erano ampie, e la maglia che
portava fasciava fin troppo bene i suoi pettorali, per poi cadere larga su una
parte dei jeans scuri, che costituivano il suo abito. Il tutto, poi, era
coperto da un lungo soprabito nero.
Dopo aver
notato tutta questa sua bellezza, tornai a osservare la volta celeste, per far
sì che non si accorgesse del mio sguardo, troppo indagatore, su di lui. Ma, a
quanto pare, il danno era fatto: lui mi aveva notata!
- Che ci fa
una ragazzina sola per queste strade? – mi chiese, mentre poggiava, cautamente,
la schiena contro lo schienale di legno
- Evita
casa sua – risposi evasivamente, continuando a guardare il cielo
- Beh, ma
le strade a quest’ora sono pericolose. Non si sa mai
che incontri potresti fare – mi disse, pronunciando con una certa malizia
l’ultima frase. Ma anche di quella malizia non m’accorsi, e fu un altro dei
miei errori.
- Non
m’importa. Ormai tutto ha perso importanza per me – mormorai tristemente,
abbassando il capo sul petto.
E’ strano
come ci è più facile parlare dei nostri tormenti a perfetti sconosciuti,
piuttosto che a persone che ci conoscono da una vita. E’ strano, eppure
succede…
- Neppure
la tua vita? –
Rialzai, di
scatto, il volto su di lui, trovandomelo molto più vicino di quanto ricordassi.
- La…mia
vita?! – ripetei dubbiosa
- La
monotonia, tutta questa routine con cui gira la tua vita, ha ancora importanza
per te? –
Lo osservai
cercando di comprendere ciò che passava nella sua mente: nulla...assolutamente
nulla…
- No –
risposi sincera, distogliendo i miei occhi su di lui – Non più -. Per la prima
volta, davanti a uno sconosciuto, avevo risposto negativamente a quella domanda
che molte e molte volte mi ero fatta.
E’ strano
che, ogni volta che siamo depressi, nulla sembra avere più il suo effettivo
valore. E’ strano, eppure succede…
Due delle
sue dita s’insinuarono, delicate, sotto il mio mento, costringendomi a portare
nuovamente il mio sguardo sul suo
- Lo dici
davvero? – mi chiese, a un soffio dal mio volto. Annui…ed avevo aperto il mio
contratto con il Diavolo
- Vorresti
che tutto questo non fosse più ciò che fa ruotare la tua vita? E’ vorresti
cambiare tutto questo?-
Non puoi
immaginare, buon straniero attento, quanto furono seducenti quelle semplici
parole per me.
Erano come
l’acqua, per colui che non l’ha assaporata da giorni; erano come la vista, per
colui che l’aveva persa; erano come il ritorno alla vita, per colui che è
caduto nel baratro della morte…
Annui.
E’ strano
il fatto che quando siamo sconfitti non temiamo nulla di quello che ci sta
intorno. E’ strano, eppure succede…
- Io ti
posso dare ciò che desideri, se tu realmente lo vuoi – mormorò, facendo
scendere, con lentezza estenuante, il suo profilo sul mio collo,
eccezionalmente tirato. – Lo vuoi? -
- Sì –
sussurrai decisa. E il mio contratto fu firmato.
- Bene –
sussurrò conto la mia vena, che pulsava rabbiosa tra le sue labbra.
Quello che
successe dopo è, tutt’ora, confuso nella mia mente,
appannato da una grigia nebbia che mi offre solo piccoli flash, leggere
sensazioni…
Riesco a
ricordare due piccole punture di spillo, alla base del mio collo, punture
insignificanti che erano in grado di succhiare avidamente la mia forza vitale.
Ma, stranamente, non vi era in me alcuna forma di stanchezza, anzi, sembrava
che mi venisse iniettata dell’adrenalina, che circolava tra le mie vene con una
velocità impressionante, raggiungendo il cuore e facendolo battere follemente
tra le mie ossa…TU-TUM TU-TUM TU-TUM TU…fino a farlo
fermare.
Ero entrate
nel Paese delle Meraviglie.
E il
benvenuto non mi fu dato dal rubicondo gatto parlante, bensì da un bacio
intinto del mio sangue. E non provai alcun ribrezzo. Io che, da sempre, svenivo
davanti a una goccia di sangue, provavo piacere immenso per quel bacio bagnato
del mio rosso liquido di vita.
- Benvenuta
nel mondo della notte, Zaira – mi disse il Bian
Coniglio, prima di allontanarsi lungo la strada e confondersi con l’oscurità
che era l’essenza del suo essere e…anche del mio…
Son
passati 12 anni da quel giorno. Dodici lunghi anni da creatura della notte, che
non sono nulla di fronte ai 100 anni di Matheus. Chi
è Matheus? Oh, già, non ti ho detto il suo nome,
prima, oh acuto ascoltatore. Lui era colui che ho definito “il mio Bian Coniglio”.
Dopo avermi
abbandonato su quella panchina, con tutti i dubbi e le incertezze che mi
affliggevano, lo incontrai tre notti successive, in quella strada dove avevo
trovato rifugio ai raggi del sole, che ora erano terribilmente dannosi per il
mio corpo. Lì, lungo quella strada, dove mi ero rannicchiata, ci rincontrammo
nuovamente, e lui mi diede una nuova casa, poiché la mia l’avevo persa.
Da quella
notte fatale, infatti, non rimisi mai più piede in casa mia…
- Non
rimpiangi nulla della tua vita passata? – mi chiese improvvisamente, qualche
giorno fa, mentre ci beavamo dello spettacolo del cielo estivo, cullati dalla
fresca brezza
-
Rimpiangere?! – ho ripetuto, quasi ricordassi improvvisamente una parola da me
a lungo obliata – Dovrei, forse? -
- Beh, se
rimpiangi qualcosa di quello che hai lascito, significa che una parte della tua
anima umana è rimasta in te…- mi ha spiegato, mentre il volto si piegava in un
sorriso malinconico -…e questo, credo sia un bene – ha concluso, passando
affettuosamente una mano tra i miei capelli. E’ solito regalarmi queste
dolcezze, che, in fondo, sembra volere donare a qualcun altro, ormai
lontano…forse alla sua defunta sorella, che, dice, io tanto gli ricordo…
Ma torniamo
al nostro discorso, prima che mi perda per altri sentieri…
- In
realtà…c’è qualcosa che rimpiango…- ho ammesso, timidamente, mentre un nodo mi
stringeva la gola
- Ah sì?! E
che cosa? –
- Le mie
ultime parole dette a mia madre…- ho sussurrato.
Lacrime
sono scese dai miei occhi, ignorando il comando di tornarsene indietro. Lacrime
fredde come la morte, che solcarono le mie guancie,
che accarezzarono la linea della mia mascella, cadendo poi sulle mie mani. Ho
pianto. Ho lasciato libere tutte quelle lacrime che da tempo immemore
custodivo.
- Ti odio…quella
è stata la mia ultima parola. E, ormai, non potrò mai dirle il contrario…mai…-
Free Talk
Salve e
benvenuti nelle mie personali lande degli incubi ^^ Allora, questa one-shot ha preso ispirazione da Alice nel Paese delle
Meraviglie (ma dai! Non l’avrei mai detto -.- NdWhite),
favola che adoro ^^ Spero possa piacervi il personale adattamento della mia
mente malata.
Grazie
mille a Mia e Samira che hanno gentilmente
commentato i capitoli precedenti */me inchin*
Alla
prossima favola ^^ (oh oh, mi sento tanto una nonnina
^^ - I tuoi nipoti s’ammazzerebbero piuttosto che ascoltare le tue favole NdWhite – Questo è proprio il modo migliore per
presentarsi, White -.- NdBlack)