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Autore: Adeia Di Elferas    26/04/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Ma non lo capite?” proseguiva l'uomo arrivato da Firenze: “Quelli vi vogliono rendere schiavi di Milano! Aspetteranno qualche mese, forse, ma poi sarete venduti al Moro!”
 Alcuni contadini di Val di Lamone cominciarono a parlottare tra loro. Non era il primo forestiero che arrivava da loro a dire cose del genere.
 Il giorno prima, un altro aveva assicurato loro che presto anche alcuni faentini, presto o tardi, avrebbero cominciato a inneggiare al Duca di Milano, segnando una volta per tutte la resa della città.
 “E allora – aveva detto lo straniero – da gridare in due o tre 'Duca' a trovarsi sommersi dalle tasse, il passo sarà davvero breve, che la cosa vi garbi o meno!”
 Così, anche quel giorno, il sangue ribolliva nelle vene di quelli che stavano ascoltando il forestiero e ognuno cominciava a guardare male il proprio vicino, come a convincersi che davvero ci fossero dei sostenitori di Milano infiltrati tra i faentini.
 “E non dimenticate – concluse lo straniero, indicando il cielo con l'indice – che a Forlì e a Imola regna la Tigre, che del Moro è la nipote! Quello non ha avuto problemi a lasciare i figli in mano a degli assassini, credete che avrebbe pietà di voi?”
 E così, nella mente di tutti quanti, Milano cominciava a essere vista come una minaccia, molto più pericolosa della peste e molto più temibile di ogni altro tiranno.

 Quella mattina Caterina attendeva la prima visita di Antonio Maria Ordelaffi.
 Non l'aveva voluto vedere nella rocca di Ravaldino, ma nel palazzo in cui aveva vissuto con Girolamo. In fondo era ancora l'edificio di rappresentanza e la sede della vita politica. Inoltre, da quando era riuscita a recuperare la quasi totalità del mobilio, il palazzo era tornato a essere abbastanza accogliente.
 Sua sorella Bianca, in merito, le aveva anche domandato quando sarebbero tornati a vivere là, ma Caterina aveva fatto finta di non essere ancora tranquilla, fuori dalla rocca e cos' aveva archiviato l'argomento.
 Così, seduta sullo scranno appena un po' rovinato che i forlivesi avevano gentilmente restituito, Caterina aspettava l'arrivo del baldo ventiquattrenne che tanto aveva insistito per vederla.
 “Antonio Maria Ordelaffi.” annunciò un maestro di cerimonie improvvisato.
 Era una scocciatura rimpiazzare tutti gli epurati, i fuggiaschi e deceduti e così qualche carica era ancora ballerina, come quella del maestro di cerimonie.
 Caterina ringraziò l'uomo con un cenno del capo e si raddrizzò contro lo schienale mentre nella sala entrava l'Ordelaffi.
 Aveva la figura slanciata e atletica di cui tutti parlavano ed effettivamente il suo viso era molto regolare e i suoi capelli curatissimi, così come i suoi vestiti. Tuttavia, l'antipatia che Caterina provò immediatamente nel vederlo pregiudicò in anticipo la riuscita del suo piano.
 “Mia signora...” disse Antonio Maria, inchinandosi tanto profondamente che per poco non perse l'equilibrio, suscitando l'ilarità della Contessa che, però, trattenne alla perfezione il riso.
 Caterina stava mostrando una delle tante maschere che aveva saputo crearsi nel corso degli anni. Sorrideva, pacata, gentile, apparentemente lieta per quella visita, mentre dentro di sé non vedeva l'ora di cacciare fuori dalla stanza quel bellimbusto e farsi due risate alle sue spalle.
 “Volevo porgervi anche di persona le mie più sentite condoglianze per la prematura e ingiusta dipartita del vostro compianto marito, il beneamato Conte Girolamo Riario. Mi chiedo come possa essere successa una simile tragedia...!” disse Ordelaffi, facendo un paio di passi verso di lei, forse aspettandosi che Caterina allungasse il braccio, permettendogli di esibirsi in un galante baciamano.
 Proprio per metterlo in imbarazzo, Caterina evitò quel semplice gesto di cortesia e commentò: “Vi ringrazio per le condoglianze. Se davvero siete curioso di sapere com'è morto mio marito, vi consiglio di seguire le tracce di sangue che troverete in giro per il palazzo. Vi daranno un'idea abbastanza precisa dell'accaduto.”
 Antonio Maria restò congelato da quelle parole, ma cercò di non darsi per vinto.
 Caterina si morse la lingua. Non stava gestendo l'incontro come si era ripromessa di fare. Si impegnò immediatamente per rendere più distesa l'atmosfera e si rimangiò sul nascere tutti i commenti sprezzanti che le erano saltati in mente circa le congiure e le mire dello stesso Ordelaffi che, se portate a termine, avrebbero condotto alla morte non solo Girolamo, ma anche lei.
 “Nella vostra lettera mi avete scritto che vorreste parlare di una questione importante. Vi prego, sono qui apposta per ascoltare quel che avete da dire.” fece Caterina, allargando le braccia in segno di incoraggiamento.
 Antonio Maria Ordelaffi deglutì e per la prima volta ebbe il dubbio che le cose non sarebbero andate come sperato. Quella donna lo aveva messo in soggezione fin da subito, con il suo meraviglioso aspetto. Ordelaffi si era aspettato di vedersi di fronte una donna molto più provata, stanca, imbruttita dal dolore e dalla stanchezza, mentre a fissarlo, in quel momento, c'era una dea.
 A spizzichi e bocconi, l'Ordelaffi riuscì a mettere un po' di carne al fuoco, ma quando Caterina gli fece capire che il suo tempo era scaduto, ancora non era riuscito a toccare l'argomento che veramente gli interessava.
 “Ho il permesso di tornare?” chiese Antonio Maria, mentre raggiungeva la porta, scortato da uno dei servi.
 Caterina avrebbe voluto dire semplicemente 'no', ma più l'Ordelaffi aveva parlato, quella mattina, più a ei era stata chiara una cosa: se quell'uomo era impegnato a sperare che lei alla fine lo avrebbe sposato, non avrebbe avuto né il tempo né le capacità di ordire congiure o tradimenti a suo danno.
 Dunque, sorridendogli amabilmente, gli rispose: “Attendo la vostra prossima visita con ansia.”

 “Mondo boia, ma è vero che hanno visto il figlio dell'Ordelaffi uscire dal palazzo della Contessa?!” chiese uno dei pochi clienti che ancora andavano dal Novacula per farsi radere.
 “Siete il terzo che me lo viene a dire...” fece Andrea Bernardi, cominciando a preparare la lama del rasoio: “Ma ormai dovremmo dire che è l'Ordelaffi, non 'il figlio' dell'Ordelaffi... La nuova generazione, amico mio...!”
 Il cliente sbuffò, agitando una mano nodosa: “Ma sì, ma sì! Nuova generazione dei miei stivali... Sono ragazzini, ecco cosa sono...”
 Il Novacula annuì con gravità, ma già non stava più ascoltando le chiacchiere del cliente, che aveva cominciato a parlare di come anche suo figlio fosse avventato e sconsiderato come tutti i giovani.
 Ciò che premeva a Bernardi era capire come mai Antonio Maria Ordelaffi fosse stato al palazzo della Contessa. Era sempre stato un suo nemico...
 L'unica idea che gli balenò per la testa gli parve tanto assurda che per poco non lo fece sorridere proprio mentre il suo cliente stava elencato le catastrofi in cui era incappata la giovane nuora.
 Così, ben deciso a tenersi buoni almeno quei pochi clienti che ancora aveva, il Novacula lasciò perdere la Contessa e si concentrò sull'uomo che stava radendo.
 “Questi giovani...” stava dicendo il forlivese sbarbato per metà: “Sono capaci di mandare a monte tutta la loro vita solo perchè hanno preso una sbandata per due occhi scuri e un bel faccino...!”

 Passati quattro giorni dalla nomina ufficiale di Astorre Manfredi come nuovo signore di Faenza e di Francesca Bentivoglio come sua unica tutrice, Giovanni Bentivoglio cominciò a sentirsi decisamente rilassato, in merito alla questione faentina.
 Era certo che sarebbero bastate ancora un paio di riunioni con gli Anziani e con il Bergamino per rendere stabile una volta per tutte il governo di suo nipote. Col tempo, avrebbe cominciato a fare pressioni su Francesca, portandola completamente dalla sua parte e trasformando Faenza in un comodo avamposto bolognese.
 Così, quel giorno, richiamò a Faenza il Bergamino e lo invitò a pranzare con lui e con i rappresentati degli Anziani, in modo da mettere a punto le ultime cose.
 Quando il Governatore di Forlì varcò il confine della città, trovò più gente del solito ad attenderlo. In molti lo squadravano con sospetto e qualcuno borbottava sommessamente, come se trovasse la sua presenza inaccettabile.
 Il Bergamino non capiva un simile cambiamento in quella popolazione che, dalla morte di Manfredi, altro non aveva fatto se non accettare di buon grado non solo la sua presenza, ma anche quella del Bentivoglio che, sicuramente, era più ingombrante e in un certo senso anche più minacciosa.
 Comunque, l'uomo proseguì per la sua strada, tentando di non badare alle occhiate torve e alle frasi dette a mezza bocca.
 A un certo punto, però, quando ormai non gli mancava molto per arrivare a destinazione, sentì qualcuno tra la gente gridare: “Duca! Duca!” e poco dopo qualche altra voce, dall'altro lato della strada: “Duca! Duca!”
 Il Bergamino si arrabbiò subito per quelle grida. Non sapeva nemmeno lui dire perchè, ma le trovava così fuori luogo e così tendenziose da temere che potessero portare a qualcosa di brutto.
 Prese a gridare di stare zitti e di non ripetere più quel motto, ma più di un faentino aveva cominciato a dirigersi verso la rocca della Porta Valdilamonese, laddove sapevano essere un castellano convinto della veridicità delle voci messe in giro dai forestieri in quei giorni.
 Preoccupato per i movimenti che aveva notato nella folla, il Bergamino mandò uno dei suoi soldati di corsa da Bentivoglio, affinchè si sincerasse che tutto era in ordine.
 Non trovando motivo di preoccupazione, Giovanni Bentivoglio ordinò che il pasto venisse consumato come deciso in precedenza e così trattenne presso di sé il Bergamino fino a sera, per discutere ogni dettaglio del suo ruolo di consigliere di Francesca.
 “Ma che...?” fece Giovanni Bentivoglio, sentendo degli strani rumori provenire da fuori.
 Il Bergamino gli fece segno di attendere e andò personalmente alla finestra per vedere che stesse accadendo.
 Un corteo di contadini aveva raggiunto il palazzo e in molti brandivano falci e torce. L'uomo aprì appena la finestra, per capire cosa stessero gridando e in un attimo la stanza si riempì dell'urlo di centinaia e centinaia di uomini: “Così muoiono i traditori! Così muoiono i traditori!”
 “Restate qui!” fece subito il Bergamino, bloccando tutti i presenti nella sala e accorrendo al portone principale, che cominciava a essere scosso dai pugni dei contadini.
 Era sempre stato il suo più grande pregio e il suo maggior difetto: davanti al pericolo, invece di ragionare, reagiva. Ciò lo rendeva un soldato intrepido ed eroico, ma gli faceva correre rischi spesso inutili ed eccessivi.
 “Che volete?!” chiese, aprendo il portone e trovandosi di fronte una moltitudine di volti inferociti.
 I contadini non lo travolsero subito solo perchè restarono colti di sorpresa nel vederlo così deciso e sicuro di sé.
 Due contadini, spintonando tutti gli altri fino a emergere dalla ressa, si pararono di fronte a lui e uno di loro disse: “Sappiamo chi siete, voi. Vi stimiamo per quello che avete fatto a Forlì e non vogliamo uccidervi. È il vostro signore, quello che vogliamo allontanare da Faenza. Voi non c'entrate nulla, siete un uomo d'onore. Venite con noi, vi scorteremo alla chiesa di San Pietro, dove sarete al sicuro.”
 Il Bergamino non sapeva come reagire. Quell'improvvisa rivolta era del tutto inattesa e completamente assurda. Che senso aveva? Se avessero voluto rovesciare la reggenza di Francesca Bentivoglio, avrebbero dovuto colpirla il giorno stesso della morte del marito...
 Mentre ancora cercava di capire che stesse succedendo, il Bergamino si vide trascinato via dai due contadini che si erano fatti portavoce dei loro compari.
 Stavano attraversando la piazza e, più avanzava tra i faentini, più il Bergamino capiva che ben pochi di loro erano convinti di quella ribellione. Se solo fossero scesi subito in strada i soldati della Bentivoglio, tutta quella storia si sarebbe conclusa con un niente di fatto.
 Colto da una speranza improvvisa, Bergamino si voltò verso il palazzo, come sperando di vedere alla finestra il signore di Bologna e di sentirlo dare ordini ai soldati di Faenza per fermare quella follia.
 Ovviamente le sue speranze vennero subito disattese, e così si costrinse a guardare di nuovo davanti a sé, pensando a come fare per convincere Giovanni Bentivoglio a sedare con fermezza quella rivolta di poveracci.
 Dopo un paio di passi, però, il suo tragitto venne bruscamente interrotto da un uomo tra la folla che gli gridò: “Io ero un mulattiere al servizio di Galeotto Manfredi! Morto lui, ora tocca a me morire di fame, che nessuno più mi vuole, perchè ora è la bolognese a comandare!”
 Bergamino non capiva perchè quel mulattiere stesse facendo quell'invettiva davanti a lui, perciò restò ancora più stupito quando gli sentì dire: “Tutta colpa di voi milanesi!”
 E con quelle parole, mosse con rapidità un forcone verso il Bergamino, trafiggendogli l'addome da una parte all'altra.
 I due contadini che l'avevano preso a scorta non si resero nemmeno conto di quello che stava accadendo e così il Bergamino cadde a terra privo di vita prima ancora che qualcuno potesse anche solo muovere un dito per difenderlo.

 Caterina ascoltò la notizia con il cuore che le batteva tanto rapidamente da farle dolere il petto.
 Al suo fianco c'era il castellano, Tommaso Feo, anche lui senza parole, teso come la corda di un arco.
 “Giovanni Bentivoglio è stato catturato e ora è a Modigliana, sorvegliato dai fiorentini. Per il momento sembrerebbe che il Consiglio degli Anziani, su consiglio di Firenze, abbia preso in custodia Astorre Manfredi e ci si aspetta che Innocenzo VIII nomini proprio il Consiglio come reggente ufficiale del piccolo, estromettendo Francesca Bentivoglio Manfredi.” concluse la staffetta, un ginocchio a terra e gli occhi ancora pieni del trambusto visto a Faenza.
 Caterina rimase in silenzio a lungo, dopo che il messaggero ebbe finito di parlare. Bergamino era morto. E in un modo tanto stupido...
 “Forse dovremmo...” prese a dire Tommaso Feo, con tono incerto.
 “Dovremmo niente.” lo interruppe subito Caterina: “Faenza adesso è sotto il governo del Consiglio degli Anziani e presto il papa deciderà il da farsi. Noi non dobbiamo fare niente. Anzi, non dovevamo fare niente dall'inizio.”
 Tommaso aprì la bocca, per ribattere in qualche modo, ma la Contessa lo anticipò: “Firenze ha sfruttato la mia ingerenza per aizzare i faentini contro mia cugina, possibile che non lo capisci? Da questo momento, noi ci disinteresseremo delle sorti di Faenza e di Astorre Manfredi. Potete andare.” aggiunse, rivolta alla staffetta.
 Rimasto solo con la sua signora, Tommaso Feo si decise a parlare, anche a costo di sembrare sfacciato: “E invece credo che dovremmo reagire. Se il papa mettesse come reggente di Astorre qualcuno in grado di metterci in pericolo? Io dico di mandare subito il nostro esercito al completo a riprendersi Faenza!”
 Caterina lo guardò con gli occhi di brace e, alzando contro di lui l'indice, gli intimò: “Badate bene, Tommaso, in questi giorni ho sopportato anche troppo le libertà che vi siete preso con me. Esprimere questo genere di opinioni personali esula di gran lunga quello che è il vostro compito.”
 “Ma...” ricominciò Tommaso, per nulla intimidito dal tono autoritario della Contessa: “Voi dovreste...”
 “Io non devo fare proprio niente!” lo contraddisse Caterina, con rabbia: “Io sono libera di fare quello che preferisco, perchè sono io la signora di Forlì, non voi. Io voglio essere libera di mandare il mio esercito dove mi pare, così come di lasciarlo di stanza alla rocca. Io voglio essere libera di decidere con chi allearmi e contro chi combattere. Io voglio essere libera di levare e mettere i castellani come più mi aggrada!”
 Capendo che l'ultima stoccata era direttamente rivolta a lui, Tommaso finalmente si ammutolì, senza più cercare di recriminare alcunché.
 Quella notte, nella sua stanza, Caterina pianse senza sosta per ore, incapace di fermarsi. La morte di Bergamino, che pure conosceva ancora così poco, l'aveva straziata. Si sentiva in colpa, perchè era stata tanto superficiale da non pensare a quel possibile risvolto.
 Se quell'uomo eccezionale, quel soldato così valoroso era caduto per mano di un misero mulattiere, la colpa era solo sua. Sua e della sua inesperienza.
 Con Bergamino se n'era andata la sicurezza che aveva cercato per il suo Stato. Il Governatore, in cui aveva così tanto sperato, era morto. Il tutore dei suoi figli. L'uomo che tanto aveva sperato di poter avere al fianco per l'intera durata del suo regno come reggente...
 Avrebbe voluto provare a placare il suo dolore sterminando tutti quelli che avevano preso parte a quella scellerata rivolta, ma sapeva che almeno quell'errore non lo doveva commettere. Era il momento di lasciar correre, di permettere a Firenze di prendersi quella piccola vittoria che, tanto, non avrebbe portato a nulla.
 Sentendosi ancor più sola di quanto non si sentisse di solito, Caterina trovò il sonno solo un paio d'ore prima dell'alba.
 
 Ludovico Sforza era stato svegliato nel cuore della notte per una notizia che – a detta della staffetta – avrebbe voluto ricevere immediatamente e non la mattina seguente.
 Scettico a riguardo, il reggente del Duca di Milano raggiunse la saletta di rappresentanza con ancora indosso la vestaglia da notte. Se era davvero una cosa urgente, poco importava l'etichetta! E poi c'era buio. A quell'ora nemmeno tutte le candele del mondo sarebbero bastate per far intendere alla staffetta quali fossero esattamente i vestiti di Ludovico.
 Il messaggero che, aveva detto, arrivava da Faenza, aveva cambiato una marea di cavalli, pur di arrivare in fretta a Milano per riferire quella terribile nuova.
 “E allora parlate! Tanto correre, per poi perdervi in questi convenevoli...!” lo rimproverò Ludovico, chiedendosi che novità potessero mai esserci da Faenza.
 Prima che la staffetta ricominciasse a parlare, per un lungo e interminabile momento, Ludovico fu convinto che la notizia riguardasse quella pazza furiosa di sua nipote. Conoscendola, poteva benissimo essere che avesse deciso di conquistare Faenza con le armi tanto per unificare le sue due città...!
 “Giampietro Carminati di Brambilla – fece il messaggero, inchinandosi davanti al reggente del Duca di Milano – è stato ucciso durante una rivolta popolare nella piazza centrale di Faenza e ora Giovanni Bentivoglio e sua figlia sono temporaneamente trattenuti a Modigliana.”
 “Giampietro...?” fece Ludovico, senza fiato.
 Il Bergamino era morto? Quello stesso Bergamino che era stato suo amico fin da ragazzino?
 Ludovico allungò una mano, sentendosi mancare e fu la staffetta a offrirsi prontamente come appoggio.
 “Giampietro...?” balbettò di nuovo Ludovico, senza riuscire a capacitarsene.
 “Pare sia stato un mulattiere che era fedele al defunto Galeotto Manfredi, mio signore.” provò a dire il messaggero, tanto per rompere il silenzio.
 Ludovico ci mise qualche momento per ritrovare la capacità di starsene in piedi da solo, poi disse, con voce bassa e roca: “Capisco... A Forlì servirà un nuovo Governatore, dunque...”
 La staffetta non disse più nulla, congedandosi non appena un paio di servi arrivarono a sostituirlo come appoggio per il Moro.
 Piangendo sommessamente per la perdita del carissimo amico, Ludovico tornò nella sua stanza, certo che non sarebbe più riuscito a dormire, per quella notte.
 Giampietro era un soldato, era vero, e ai soldati capita di morire, ma non così...

   
 
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