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Autore: Impossible Prince    28/04/2016    1 recensioni
«Se dovessero mai scrivere una biografia su di me dovrebbero intitolarla "La Bibbia", o meglio, "La Bibbia del Potere". Perché nessuno meglio di me sa cosa sia il vero potere».
Giovanni Silviosi nasce nel 1955, a Smeraldopoli, in una Kanto povera, sconvolta dalla Seconda Guerra Mondiale e dalle dure sanzioni che i Paesi Alleati le hanno imposto a seguito della sua capitolazione. La povertà dilaga, il disagio è una pentola a pressione pronta ad esplodere e il vuoto, lasciato dalla politica, è ricoperto da un’inquietante organizzazione che si fa chiamare Team Rocket.
Per alcuni un criminale la cui potenza va oltre le solite inchieste giornalistiche, per altri un imprenditore brillante. La Bibbia del Potere è la storia dell’uomo che è riuscito a piegare un’intera nazione al suo cospetto.
Storia INCOMPLETA
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Giovanni, N, Nuovo personaggio, Team Rocket
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Nei precedenti capitoli de La Bibbia del Potere: Giovanni vene portato da Christopher a fare un tour della città, venendo così a contatto con persone che avevano un’idea sul Team Rocket decisamente diversa dalla sua. Ai loro occhi il Team Rocket appariva come l’unica ancora di salvezza nel momento in cui tutti gli voltavano le spalle. Decide così di accettare la proposta di James Foster e di partecipare alla manifestazione del 25 aprile contro la Riforma Agraria, con un discorso che infiamma la folla. Il Presidente del Consiglio, però, decide di mandare uno dei suoi uomini nella città per sondare la situazione.

Numeri 2.4 – Oltre i confini
 
«La donna adultera veniva punita mediante un liquido che le provocava ventre gonfio e fianchi avvizziti. Sarebbe interessante mettere allo studio una sostanza simile che induca il franco tiratore a consegnare le proprie gonadi sulla mia scrivania».
 
«Che poi è anche normale che faccia la ribelle, no? Però è anche normale che io come padre mi opponga a questa sua decisione – afferrò con forza il pezzo di pane che aveva sul fianco e raccolse un po’ della minestra che ormai copriva parte del piatto fondo – no?».
Masticava, con la stessa eleganza con cui una capra rumina l’erba. Parte delle briciole finì sulla barba che copriva il mento.
«Già, già. Sono giovani, hanno tutta la vita da vivere davanti a loro. Alla fine fanno anche bene, hanno sedici, diciassette anni hai detto?» rispose l’uomo davanti a lui, prima di prendere in mano il bicchiere di vetro con dentro dell’acqua naturale.
«Sì, sì, sedici anni. E tu Alberto? Sei sposato?».
«Sì, sono sposato da cinque anni».
«Ma non hai bambini?».
«Aspettiamo un bambino. È al quinto mese, nascerà a settembre».
«Sono belli quando sono piccoli... fino ai quattro anni diciamo. Poi diventano delle pesti. Mia moglie, poi, ha avuto la nausea fino al quarto mese di entrambi. Più la pancia le diventava grande e, paradossalmente, meglio andava».
Steven bevve anche lui un sorso d’acqua, si asciugò la bocca e sorrise all’uomo che aveva davanti.
«A me non va il dolce, a te?».
«No, neanche a me, sono a posto così. E penso che sia anche un po’ tardi... Sono già le otto».
Si alzarono in piedi assieme, si infilarono il cappotto, pagarono il conto e uscirono dalla trattoria, costruita sull’autostrada che collegava Zafferanopoli al Percorso 2. Entrarono all’interno del camion e misero in modo la vettura, uscendo così dall’area di servizio rimettendosi nella carreggiata.
Gli alberi si muovevano veloci ai loro fianchi, la luce diventava sempre meno forte e il sole, davanti ai loro volti, si tuffava dietro alle Alpi Argentate.
Steven era alla guida mentre Alberto era seduto accanto a lui, che osservava il panorama che da pianeggiante mutava e si trasformava in montanaro.
«Ci sei mai stato a Smeraldopoli?».
«Una volta, qualche mese fa per un colloquio. Mi avevano proposto un lavoro lì, ma rifiutai...»
«Perché?».
«Paga no buena».
«Ah, capisco...».
Alberto si chinò leggermente in avanti, agguantando la borsa di color verde militare che aveva tra le gambe. La aprì ed estrasse un libro dalla copertina viola, con il titolo scritto in corsivo, color oro: “I deliri del Sognatore di Chimecho”.
«Ti spiace se leggo?».
«No, no, fa pure. Cosa leggi?» chiese Steven lanciando una fugace occhiata sul libro, prima di tornare ad osservare la strada.
«Mia moglie lavora in una scuola media e prima di rimanere a casa per la maternità, ha lasciato da leggere questo libro. E di recente ha costretto pure me...».
Voltò la schiena al proprio finestrino, aprendo il volume in modo che la luce esterna potesse illuminare bene le pagine del volume.
Avrei voluto dire che si fosse appena conclusa una guerra. Quello scenario così pacifico e rilassante, d'altra parte, si scontrava bene con le scene di morte e distruzione proprie della guerra. Passare dal cielo rosso sangue al quell'azzurro quasi irreale è una differenza notevole e piacevole; fornisce una sensazione di pace e tranquillità.
Il sole era appena sorto. Ma l’amarezza era propria di quel giorno, tant’è che anche gli uccellini erano troppo sfiduciati per celebrare il nuovo giorno con il loro canto. Si udiva esclusivamente il rumore del mare che si infrangeva contro la riva in quell'ambiente così strano, così anormale. Nessuna motoretta, nessuna persona. Una sorta di silenzio assoluto se non fosse stato per il dolce rumore del mare che mi garantiva di non aver perso l’udito.
Dicevo, avrei voluto dire che si fosse appena conclusa la guerra. Perché avrei potuto imputare la colpa del mio definitivo cambiamento ad un conflitto bellico. Ad uno shock potente, devastante come solo la guerra può essere. Ma purtroppo no. Non si era conclusa nessuna guerra, si era semplicemente chiusa una fase della mia vita. La più bella fase della mia vita. Accettarlo era semplicemente crudele.
Ero solo su quel dannato balcone, mi sedetti sulla sdraio cullato dal sole, dalla sua luce e dal suo calore. In cuor mio desideravo che venisse fuori con me per discutere, per sancire una volta per tutte la fine che ci stava venendo contro in maniera tanto rapida quanto improvvisa. Volevo ormai fermare quell'agonia che sembrava inarrestabile e che ormai durava da troppo tempo. Ma non venne fuori, rimase cullato dalle braccia di Morfeo accanto a qualcun altro.
E fu in quel momento che capii cosa era scattato dentro di me. Una sorta di rabbia, una feroce scontentezza che questa volta non mi aveva permesso di abbassare i toni e modificare i miei atteggiamenti per portarmi ad essere conciliante. Non mi andava più bene quella situazione, non potevo più accettare essere parte in causa di un rapporto asimmetrico. Lo sapevo, ero ben cosciente che io contassi meno di quanto lui lo contasse per me. Ma era una situazione che non potevo e volevo più tollerare. Desideravo esser di più, lo pretendevo. Io volevo esser l'Amico. Il più importante, quello verso cui sarebbe scappato quando stava male, quello che avrebbe cercato quando voleva compagnia, quello a cui non avrebbe mai mentito e avrebbe sempre detto la verità. Non riuscivo più ad accettare di essere uno dei tanti amici considerati nei momenti in cui non si aveva proprio nulla da fare.
No, non potevo accettarlo.
Ma lui non me lo avrebbe permesso, lui non lo avrebbe concesso. Il suo comportamento mi risultò quindi immediatamente tanto chiaro quanto sadico da permettermi di comprendere, senza alcun dubbio, che quella fine non era improvvisa per lui, ma ben studiata, quasi machiavellica. Il mio era un avviso di sfratto esecutivo.
E quindi abbracciai la sua decisione. Combatterla non aveva alcun senso, se non uno spreco di ulteriori energie che mi avrebbe ulteriormente danneggiato. Sarebbe arrivato a rovinare anche il passato e non volevo, volevo lasciarlo com'era. Splendido, superbo. Irraggiungibile.
Così sigillai quei cinque anni dentro il mio cuore, promettendo a me stesso che nessuno avrebbe potuto soggiogarmi in questa maniera. Nessuno avrebbe avuto più un rapporto di superiorità nei miei confronti. Non ero più disposto ad accettare quel ruolo, a ingoiare quando semplicemente avrei voluto gridare e piangere.
Feci di più. Mi rinchiusi in una gabbia, accerchiata da spuntoni velenosi, la mia rabbia. Gli spuntoni erano inoffensivi solo per chi volevo io, solo per chi poteva avvicinarsi, ed erano poche le persone a poter aver questo merito, ed erano ancor meno le persone che non ne venivano trafitte dopo avermi deluso. Ci vollero anni prima che uscii dalla mia prigione e feci molta fatica a riabituarmi al mondo esterno. Anche ora, non posso negare, di nutrire una profonda diffidenza nei confronti delle persone con cui ho a che fare. Eccolo qui, il cambiamento sorto a seguito del conflitto bellico. Ecco qui lo shock potente e devastante. Ma queste, alla fine, sono le conseguenze naturali. Le conseguenze per aver perso quella guerra-non guerra. Per aver perso tutto quello che avevo di più caro.
Per aver perso il mio Amico.
 
Riccardo chiuse il libro con forza, posando sul letto il volume dalla copertina viola con il titolo scritto in corsivo di colore oro.
Scese dal letto, si infilò le ciabatte, aprì la porta della sua camera ed entrò nel corridoio, raggiungendo le scale e scendendo nel salotto. Giovanni era in piedi, indossando un paio di pantaloni neri e un giubbotto di pelle nera, pronto ad uscire di casa.
«Giovanni dobbiamo parlare».
«Dopo, sto per uscire».
«No, Giovanni, ora».
Giovanni si mise a fissare il fratello accigliato. Guardò l’orologio sopra il camino, si sedette sul divano: «Hai cinque minuti di orologio».
Riccardo si sedette dall’altro lato del divano. «Giovanni, sei diventato del Team Rocket?».
«Quattro minuti e cinquanta secondi, Riccardo».
«È una domanda seria. Sei diventato membro del Team Rocket».
«No».
«E allora perché alla manifestazione c’era Christopher sul palco con te?».
«Mi stai chiedendo oggi di un qualcosa che è successo dieci giorni fa?».
«Da quando sei tornato qua non vedo più Christopher. E Mark Foster mi sta evitando. Te la fai con quelli del Team Rocket?».
«Cosa c’entra Mark Foster in tutto questo?».
«Mi ha detto che il padre gli ha proibito di frequentarsi con me e ha tirato in ballo un presunto accordo tra te e suo padre. Giovanni, sei del Team Rocket».
«Se sono salito su quel palco e se ho parlato con Christopher affianco, Riccardo, è anche a causa tua. Se ho dovuto stringere un accordo con i Foster, Riccardo, è anche a causa tua.
Non mi incolpare dei problemi che tu e mamma create e poi io devo risolvere. Vattene a dormire, mi stai solo facendo perdere tempo».
Giovanni si alzò dal divano e raggiunse la porta, girando la maniglia e aprendola.
«Hai tredici anni, due in più di me. Non sei mio padre ed essere Campione della Lega Pokémon non ti fa un uomo».
Giovanni chiuse la porta con un calcio, raggiungendo Riccardo che nel frattempo si era alzato. Erano lì, uno di fronte all’altro, fronte contro fronte. Con il respiro dei due che finiva sul volto dell’altro.
«Ho rinunciato ad un Charmander per te. Ho rinunciato alla mia carriera di allenatore, per te. Ho subito attacchi di bullismo per te. Quindi ora mi fai la cazzo di cortesia di non rompermi i coglioni se salgo sul palco con Christopher e se per proteggerti ti impedisco di frequentare il capo del Team Rocket. Sono del Team Rocket, Riccardo? No. E se lo insinui un’altra volta posso garantirti che ti faccio saltare tutti i denti. Ci siamo intesi?» pronunciò quasi a denti stretti.
Lo spinse, allontanandolo leggermente, poi si voltò raggiungendo nuovamente la porta d’ingresso per uscire di casa.
«È da quando sei tornato che mi tratti come se fossi una persona superiore. Sono stufo».
Non rispose, si chiuse la porta alle spalle, voltando a sinistra e raggiungendo una berlina di color marrone, su cui salì dalla portiera posteriore sinistra.
«Sei in ritardo» pronunciò Christopher, nel posto del conducente.
«Il tuo amico mi ha fatto perdere tempo... Mark» fece con un cenno del capo.
«Giovanni» rispose il figlio di James con il medesimo gesto.
«Riccardo dici? Cosa voleva?».
«Rompere le palle, come al suo solito».
«Allora parto» disse Christopher, mettendo in moto l’automobile.
Quella sera il cielo era coperto di nuvole. Nessuna stella era visibile e neanche la luna, riempita quasi nella sua metà, si poteva osservare. Un’immensa e indistricabile massa nuvolosa portata dalle correnti fredde dei venti dell’Ovest che avevano generato una leggera nebbia fuori da Smeraldopoli. La macchina procedeva verso Nord, raggiungendo in poco tempo il Percorso 2. Quando i cartelli di color verde segnalarono che gli svincoli autostradali erano a circa cinquanta metri, Christopher accostò ed entrò all’interno di un prato che costeggiava la stradina. Spense il motore e le luci, immergendo le quattro persone all’interno della nebbia che diventava sempre più fitta con il passare dei minuti.
 
Steven e Alberto entrarono all’interno Centro Medico per Pokémon di Smeraldopoli. L’intera città era deserta e si percepiva una sorta di elettricità nell’aria. Tutte le persone che erano state impiegate nel ritirare i pokémon erano state accolte da manifestazioni e proteste, anche violente al fine di impedire che entrasse in vigore l’applicazione dell’articolo numero sette della Riforma Agraria. Sebbene però, l’articolo prevedesse che il termine ultimo per la consegna dei pokémon fosse il 30 maggio, il Governo aveva dato disposizione affinché venissero prelevati dai Centri Pokémon con cadenze settimanali, in modo da ridurre al minimo il rischio di attacchi per liberarli o restituirli ai legittimi proprietari. Tutto avvenne con un telegramma cui si comunicarono ai Centri le date in cui sarebbe avvenuto il prelievo. Ma quello che pareva un semplice atto burocratico si trasformò nell’ennesima grana per l’esecutivo kantese: le date vennero rivelate da una fonte non precisata ai giornali che le pubblicarono per diversi giorni a venire, creando le contestazioni e le manifestazioni. Alberto Minfi, quando lesse le date sui giornali, si infuriò così tanto che chiamò immediatamente il Segretario del Partito Socialista di Kanto, accusando il Sottosegretario alla Ministero dell’Agricoltura, esponente del suo partito, di aver rivelato le date con il chiaro obiettivo di indebolire il Governo e l’attuazione della legge, a cui erano contrari sin dal principio. Il sottosegretario si dimise, venendo sostituito da un esponente del Partito Liberale, che da tempo faceva pressioni affinché potesse aumentare la sua presenza all’interno della compagine di governo, ma questo non fece che deteriorare ulteriormente i rapporti tra Unione Pokémon Repubblicani e il Partito Socialista.
 
«Buonasera, siamo del Ministero dell’Agricoltura» disse Steven mostrando il tesserino all’infermiera. La stessa cosa fece Alberto, strisciandolo sul bancone colorato di viola.
I suoi occhi erano azzurri e solo una piccola ciocca di capelli, rossa, sfuggiva alla retina bianca che le fasciava la testa. Il suo camice era bianco, immacolato, la pelle era olivastra, caratterizzata da molte rughe sia sul viso e sia sulle mani. Aveva una macchia sotto l’occhio destro, e un rossetto dal color rosso intenso.
La dottoressa annuì serrando la mascella e osservando turbata i due uomini. Lasciò il locale, dirigendosi nella porta posteriore. Camminò per un corridoio lungo, illuminato dalle luci al neon, arrivando davanti ad una porta di color verde pistacchio su cui era presente una targhetta in ottone con inciso “Sala Deposito”. Premette l’interruttore alla sua destra e poi girò la maniglia, entrando in una stanza dalle pareti coperte da tante mattonelle di color bianco, reso ancora più intenso dalla luce del neon. La stanza era di forma rettangolare, sul lato sinistro una scrivania di color bianco sporco e appoggiata al muro, al suo fianco, una dispensa dello stesso colore con all’interno medicinali vari. Dal lato opposto, al contrario, vi erano alcuni macchinari caratterizzati da tanti spazi incavi in cui era possibile inserire le pokeball. L’infermiera raggiunse la scrivania, si inginocchio e con una piccola chiave, tirata fuori dalla tasca sinistra del camice, aprì il primo dei due cassetti. Tirò via, successivamente, un pannello che dava l’illusione di essere completamente vuoto ed estrasse una valigetta di color nero, lunga circa trenta centimetri e alta quindici, posandola sul tavolo, richiudendo il cassetto. Fece la medesima cosa con il secondo cassetto e una volta estratta un’altra valigetta, sempre di color nero, uscì dalla stanza, tornando nello stretto corridoio che l’avrebbe condotta nella hall del Centro Medico. Dentro di sé provava una sorta di tristezza, amareggiamento nell’essere lei la prescelta per compiere l’ingrato compito di dover fornire al governo quei pokémon; proprio lei che sosteneva che si trattasse di un furto legalizzato da una norma che aveva ammesso, in varie occasioni, di odiare con tutta se stessa.
Non a caso, non ci pensò due volte a partecipare alla manifestazione del 25 aprile quando ne venne a conoscenza, ed era una delle passionarie a gridare “Cambiamento” ed “Abrogazione” e tutti gli altri slogan che uno ad uno erano stati pronunciati quel pomeriggio a Smeraldopoli. Senza dubbio c’era una sorta di sottile ironia in quel passaggio di valigette che stava per mettere in atto.
Arrivò nel salone d’ingresso e le posò sul bancone, con la maniglia rivolta ai due uomini. Alberto si voltò un attimo, perplesso da un uomo che pareva essersi addormentato su uno dei divanetti di pelle marrone affianco ad una delle grandi vetrate che davano sull’esterno.
La dottoressa prese un foglio posto nella scrivania e una penna, portandola all’attenzione dei due: «Nome e cognome in stampatello e poi la firma» pronunciò con la stessa risolutezza con cui parlerebbe un generale militare davanti a dei nemici catturati. Controfirmò inserendo anche la data: 5 maggio 1968.
I due lasciarono l’edificio, dirigendosi con passo rapido verso il camion. Il portellone posteriore aveva due serrature. Steven mise la sua chiave in quella di sinistra, Alberto in quella di destra. Entrambi girarono lo strumento, il primo verso sinistro, il secondo verso destro e la porta del camion si aprì, rivelando una serie di misura di sicurezza assolutamente fuori dal comune, come tubi d’acciaio spessi diversi centimentri che ne impedivano l’apertura se non mediante l’utilizzo di quelle chiavi. Inserirono le due valigette all’interno di un’altra valigia, questa volta molto più grande, larga esattamente come il camion, che avrebbe impedito di farle muovere in caso di curve o frenate che avrebbero potuto danneggiare le pokéball.
Chiusero il portellone con le chiavi e poi salirono sul mezzo, mettendolo in moto e partendo.
Fu in quel momento che l’uomo, alla finestra, aprì gli occhi e tirò fuori dalla tasca interna sinistra della sua giacca di pelle un walkie talkie. Lo accese e cominciò a selezionare la frequenza della polizia, che risultava sorprendentemente silenziosa quella sera.
«Ci siete?» pronunciò all’interno del microfono.
Giovanni balzò seduto e Christopher afferrò il suo ricetrasmettitore dal cruscotto, su cui era stato appoggiato, e rispose: «Qui Christopher. Siamo al nostro posto».
«Qui Friedrich. Anche noi siamo in posizione».
«Hanno appena lasciato il Centro Medico. Sono saliti sul camion e hanno messo in moto ora».
«Sono partiti, Mario?» chiese Christopher.
«Sì».
«Okay, appena ci passano affianco vi faccio sapere. In bocca al lupo» pronunciò Friedrich.
E come si accese, in quel momento il walkie talkie tornò ad essere silenzioso, buttando nuovamente Giovanni e gli altri tre in mezzo al buio e a quell’impenetrabile nebbia che caratterizzava quella serata del Percorso 2.
«Christopher, ma tu chi voti?» chiese il Campione, sprofondando dentro il sedile per la noia.
«Perché me lo chiedi? Non lo sai che il voto è segreto?».
«Come preferisci...» rispose Giovanni.
«È inutile che ci provi, Chris, non ti dà soddisfazioni».
«No, non me le dà. Non si arrabbia, non si infuria. Neanche ti supplica, non ti fa sentire desiderato. Al massimo risponde in maniera acida, ma non ti fa tornare a casa contento e soddisfatto. Voto i repubblicani, Giovanni».
«Ti facevo più da Azione Sociale».
«Gli azionisti hanno smesso di rappresentarmi quando avevo diciassette anni. I comunisti vogliono portarsi via la casa, i socialisti sono degli ipocriti, che stanno al Governo solo per le poltrone mentre i liberali non ho capito che cazzo vogliano».
«E se voti per i repubblicani perché hai fatto una manifestazione contro il governo?».
«Beh, non significa che io sia d’accordo con qualsiasi cosa facciano. E poi insomma, hai capito come funziona... Voglio dire, è sempre una questione di tattica».
«Stai dicendo che hai fatto la manifestazione per tattica? Sei così importante?».
Mark strabuzzò gli occhi e anche Aaron rimase sorpreso per quella risposta.
Christopher rise: «Giovanni, se la metti in questi termini sei decisamente ingenuo...».
 
La mano picchiò sulla porta una, due, tre, quattro volte. In rapida successione, battendo con forza sul legno.
«Arrivo» pronunciò una donna dall’interno dell’abitazione.
«No tesoro, vado io» rispose un uomo. Un’istante dopo la porta si aprì.
«Gilbert Modoin, che piacere vederla» disse James sorridendo.
Gilbert Modoin era un uomo sulla quarantina. Capelli medio lunghi, proprio come li portavano i ragazzi, occhiali da sole a goccia e pelle liscia, chiara: «Non posso dire lo stesso di lei, signor Foster».
«Roma, nun fa’ la stupida stasera...» fece Foster, intonando ironicamente la canzone di Manfredi e Massari. Modoin si voltò, alzandò la testa verso l’alto: «Sono le nove di mattina».
«E lei non è certamente Roma, ma il consiglio alla fine è lo stesso. Prego – disse mettendosi di lato e indicando con la mano destra l’interno dell’abitazione – da questa parte».
«Conosco la strada» rispose, inserendosi all’interno del corridoio e poi entrando direttamente nell’ufficio di Foster, sedendosi su una poltrona che dimostrava di conoscere bene.
«Cosa posso fare per il mio capolista Repubblicano preferito? Sa, mi ha piuttosto sorpreso ricevere la sua chiamata ieri sera» disse James, sedendosi sulla sua poltrona, dopo aver chiuso di consueto le porte scorrevoli di legno.
Modoin sorrise: «Non è vero».
Foster alzò le spalle in segno di noncuranza.
«Foster, la vostra manifestazione non è stata presa molto bene a Zafferanopoli».
«Il Presidente del Consiglio non apprezza le espressioni di democrazia?».
«Foster non faccia il finto tonto, per cortesia. Il problema non è la manifestazione, o meglio, in via teorica lo sarebbe anche. Ma...».
«Arrivi al punto, Modoin».
«Il problema è la tempistica. Ci sono problemi con i socialisti e il governo potrebbe andare in crisi. Il Presidente si sta chiedendo se il nostro patto sia venuto meno».
«Può tranquillamente dire che il nostro patto è tutt’ora in vigore».
«E per quale motivo avete fatto una manifestazione contro una legge voluta dal mio partito».
«Modoin, siete sempre così vittimisti voi Repubblicani. Qualsiasi cosa accada in questo Paese secondo voi è contro il Partito e contro il governo. – James si alzò in piedi e cominciò a camminare lentamente, sedendosi sul bracciolo sinistro della sedia su cui era seduto – Avanti! Governate questo Paese dal ’45, siete le solide fondamenta di questo Paese, una montagna. Avete davvero paura di una manifestazione?».
«State aiutando i socialisti?».
«Oh, santo cielo, no!» esclamò Foster, saltando in piedi. Si mise a ridere.
«Signor Foster allora sono piuttosto confuso. La manifestazione non era diretta all’Unione e non avete fatto un patto con i Socialisti. State camminando su una linea pericolosa, Foster. Molto pericolosa».
«Gilbert Modoin, se non ho ancora risposto alle sue domande è semplicemente perché voglio proteggere la sua carriera da politico» disse voltandosi e guardando l’uomo dritto negli occhi.
«Questa è l’unica abitazione in cui non si incorre in nessun rischio parlando. Il Presidente vuole sapere».
«I contadini».
«Cosa c’entrano i contadini?».
«Come fai a costruire un solido governo senza assicurarti che tutte le fasce della popolazione siano con te?» gesticolando con la mano destra facendo pressione con il pollice destro sulla nocca dell’indice.
«Volete governare questa città?».
«Siamo il Team Rocket, abbiamo delle attività da mandare avanti».
«Solo per farvi sentire vicini ai contadini? Avete causato una quasi crisi di governo solo per i contadini?».
«Suvvia, onorevole rappresentante, non sia così disgustato da chi, per campare, si mette a lavorare la terra».
«Nessun accordo con i Socialisti?».
«Gliel’ho già detto».
«Comunisti?».
«No».
«Fascisti?».
«Non li ho aiutati in guerra, figuriamoci alle elezioni».
«In sostanza si tratta di una guerra per le influenze».
«Ottima capacità riassuntiva».
«La ringrazio – fece Modoin alzandosi in piedi per poi sistemarsi la giacca – il Presidente sarà molto entusiasta di sentire questo» e portò avanti la mano destra.
Ma James non la strinse. Anzi, portò le mani dietro alla schiena e le unì.
«Era comoda la poltrona?».
«Sì...» fece accigliato.
«Allora, mi deve un favore per aver preso in affitto un posto lì sopra».
«Un altro favore? Foster, lo vuole capire quanto rischia il mio Partito a chiedere alla polizia di questa città di far finta di niente ogni qual volta facciate le vostre malefatte? Non possiamo fare niente contro la Procura, i magistrati sono indipendenti! Se faranno delle indagini non potremo fare assolutamente nulla. Dovreste abbassare le vostre pretese. Siamo politici, non dei».
«Modoin, lei e il Commissario siete amici – Continuò James, ignorando le proteste di Gilbert – Gli ricordi di spegnere le radio quando glielo chiederemo».
«Siamo arrivati a questo?».
«Siamo arrivati solo a questo? Buona giornata, Modoin. E buon ritorno in Parlamento».
 
«Ma qualcuno ha capito perché portano via i pokémon?» chiese Aaron, seduto come passeggero anteriore.
«Te lo avrò spiegato venti volte, Aaron. Ancora non capisci?» disse Christopher, lanciando indietro la testa e colpendo il poggiatesta
«E non me lo ricordo!».
«Sostanzialmente ti costringono a diventare un’impresa. Al contempo ti tolgono i pokémon, così hai meno forza lavoro ma al contempo hai le tasse da pagare. Ed ecco che arriva il trucchetto, tac! Ti incentivano a fonderti con altri contadini, che hanno pure loro fondato imprese e perso pokémon, in modo da fare delle imprese via via sempre più grandi che in questo modo aiutano il settore agricolo a migliorarsi e a diventare competitivo verso l’estero. Questo è quanto».
«Christopher, sono appena passati. Gli siamo dietro».
«Ok» rispose il ragazzo.
Friedrich si era posto all’inizio del Percorso 2, in un tratto di strada che sicuramente il camion con a bordo Steven e Alberto dovevano attraversare.
Tutti si misero i passamontagna. Poi, Christopher accese la macchina e posò le mani entrambe sul volante. Giovanni prese in mano la pokéball contenente Alakazam, continuando a cambiare la forza con cui la teneva in mano.
«Non dovevi venire. Sei troppo nervoso, rischi di mandare tutto a puttane» fece Mark, osservando la mano di Giovanni.
«Mark, se tuo padre scopre che hai detto parolacce in mia presenza poi la lingua la taglia a me. Eddai, fa’ il bravo» lo riprese Christopher, che continuava a puntare gli occhi sul finestrino al suo fianco, in attesa di vedere i due fanali del camion in mezzo a tutta quella nebbia.
«Io sono il Campione, Mark. Io non sbaglio mai».
Mark sbuffò nel sentire quelle parole piene di arroganza.
«Christopher, mancano centocinquanta metri allo svincolo autostradale» disse Friedrich.
«Perfetto» rispose Aaron.
Il cuore di Giovanni ora cominciò a palpitare forte. Tra poco sarebbe toccato a lui.
«Cento metri».
Christopher cominciò a sgasare.
«Cinquanta metri».
«Perché sto stronzo non si mette sulla destra?» disse un altro uomo all’interno del walkie talkie.
«Friedrich, rimane sulla destra, non sta rallentando».
«Ragazzi, cosa succede?» chiese Aaron guardando perplesso Christopher. Giovanni e Mark si lanciarono in avanti con la schiena, per sentire meglio quello che proveniva dall’altra automobile.
«Lo svincolo, lo svincolo! Lo ha evitato!».
In quel momento, dai finestrini di sinistra dell’automobile, si vide un camion, seguito da una macchina, procedere dritto, evitando di entrare nello svincolo per il collegamento in autostrada.
 
«Camion 14014, mi sentite?»
«Sì, la sentiamo» disse Steven, prendendo in mano la trasmittente, collegata al ricevitore posto sul lato sinistro del cruscotto.
«Causa incidente, non siete autorizzati ad entrare in autostrada. Ripeto: non siete autorizzati ad entrare in autostrada. Rientrare a Zafferanopoli dal Percorso 6».
 
Christopher accelerò, lanciando Giovanni e Mark contro i sedili posteriori: «Friedrich, ‘sti stronzi entrano a Plumbeopoli. Appena si addentrano in una via stretta, li prendiamo da davanti e da dietro».
«Chris, e il Team Pewter? Come la mettiamo con loro?».
«Non si accorgeranno neanche che siamo in città. Non mollateli, vi siamo dietro».
L’inseguimento andò avanti per un quarto d’ora. Seguivano il camion senza dare nell’occhio, senza far capire che quello fosse un pedinamento. Entrarono così in città, passando per le vie centrali. Non c’era nessuno in giro a quell’ora, nessuna anima viva. Nessun pedone, nessun pokémon. Plumbeopoli pareva una città deserta ed emanava una sorta di aria malinconica, proprio come la prima volta che Giovanni l’aveva visitata anni prima.
«Dannazione! Aaron, passa quel coso – disse Christopher porgendo la mano destra – Friedrich, qui non ci sono vicoli o vie strette. Son tutti dei viali del cazzo, come facciamo?».
«Lo vedi il cinema sulla sinistra?».
«Sì».
«Dietro a quel cinema c’è un parcheggio. Spingiamogli lì».
«E come facciamo?».
«Mi metto affianco, e poi li tampono per far in modo che girino lì, sulla sinistra. Il problema è la loro ricetrasmittente: potrebbero chiamare la polizia».
«Senti, non c’è tempo per stare a discutere di questo, facciamolo e basta».
La macchina rossa di Friedrich accelerò e si mise al fianco destro del camion, mentre Christopher riduceva le distanze.
«Giovanni, non puoi chiedere ad Alakazam di bloccare quella radio?».
«La macchina è troppo bassa, Alakazam non ci starebbe. Ora che lo faccio sedere sarà troppo tardi».
«Ok, cambio di programma allora. Quando scendiamo dalla macchina non dovrai più utilizzare Flash ma bensì impegnati a spegnere tutte le luci dei lampioni nei dintorni. Al resto ci pensiamo noi».
La tensione non fece altro che aumentare e il cinema si avvicinava ogni secondo che passava, finché lo vide, al suo fianco: “Cinema Peltro”. Mentre leggeva l’insegna sentì un rumore di lamiere strisciare tra loro e piegarsi. Si voltò in tempo per vedere il camion girare rapidamente a sinistra ed entrare in quello che doveva essere un parcheggio ma che in realtà sembrava più un vicoletto. La macchina dei loro compagni si posizionò, di traverso, davanti all’autocarro, mentre Christopher si fermò dietro.
Scesero dalla macchina in una frazione di secondo. Giovanni evocò dalla sfera Alakazam: «Alakazam, spegni tutte le luci dei lampioni».
Tutte le luci del vicinato, si spensero all’improvviso. Anche il lampione appeso tra i due palazzi che illuminava la zona in cui si era posizionato Giovanni. Quella fascio color giallo venne a mancare, proprio come tutte le altre. Si sentì caricare delle armi da fuoco e gli uomini del Team Rocket gridare: «Fermi o vi facciamo saltare le cervella. Avete capito? Mani in vista o spariamo».
Christopher e Aaron si avvicinarono al portellone e tirarono le maniglie per aprirlo, senza successo: «Mark, il piede di porco presto».
Mark lo passò a Christopher che lo infilò tra la fessura e provò a far leva, senza riuscirci.
La tensione continuava a salire. Ci stavano mettendo troppo eppure erano passati a dir tanto cinque minuti.
«Friedrich – gridò Christopher – falli scendere! Non riesco ad aprirlo!».
Il ragazzo fece cenno con il capo al suo compagno, Andrew, e aprirono contemporaneamente le portiere del conducente e del passeggero, tirando giù con forza Steven e Alberto, talmente scossi da avere delle movenze rigide, di pietra. Poi, spingendo la punta dei fucili contro la loro schiena, li portarono davanti al portellone.
«Apritelo!» fece Christopher a squarciagola.
«No!» disse Steven, chiudendo gli occhi, ormai vicino ad un pianto.
Friedrich prese il fucile e gli tirò una botta in testa, facendolo cadere a terra stordito.
«Muoviti!» continuò Christopher, questa volta rivolto ad Alberto.
«Non posso».
Gli occhi del ragazzo tornarono su Friedrich che diede un colpo anche all’altro ragazzo.
«Ora, al prossimo “no” non ci limiteremo ad una semplice botta in testa ma anche ad un bel proiettile dritto in quel cazzo di cervello. Muovetevi e aprite questo sportellone».
Christopher guardò l’orologio. Ci stavano davvero mettendo troppo. Ogni secondo che passava, il rischio di essere arrestati si decuplicava. Il rischio che il Team Pewter finisse in quella zona, invece, centuplicava. Stavano rischiando tutto e forse non ne valeva la pena.
«Friedrich, falli fuori».
«Aspettate» fece Giovanni, fino a quel momento paralizzato ad osservare la scena. Stava pentendosi di trovarsi lì. Chissà cosa avrebbe detto suo padre nel sapere che il figlio avrebbe assistito all’uccisione di due uomini.
«Giovanni non c’è tempo».
«Zitto» pronunciò ferocemente il Campione. «Alakazam, fa’ quello che devi».
Steven e Alberto si alzarono così in aria, fluttuando sempre più in alto e ancora più in alto. Avevano ormai superato l’altezza degli edifici che circondavano il Team Rocket. Si fermarono e ruotarono su loro stessi. Ora il loro volti guardavano il basso.
«Giovanni cosa cazzo stai facendo!» fece Christopher ormai fuori di sé. Ma Giovanni non lo ascoltava. I suoi occhi continuavano ad osservare i due uomini sospesi a decine di metri sopra di lui.
Non provava paura e neppure ansia. Tutt’altro, si sentiva invaso da una situazione di onnipotenza, percepiva il potere circolare nelle sue vene, entrare nel cuore e venire pompato in altre parti del corpo. Aveva la vita di quegli uomini e la riuscita della missione nelle sue mani e nella sua testa, dove Alakazam leggeva i suoi pensieri. Sapeva esattamente cosa e come doveva fare. Doveva solo aspettare il segnale.
Che arrivò.
«Ora».
Caddero.
Caddero come cade una matita lanciata da un grattacielo. L’aria si schiantava contro il loro viso, spostandola, insinuandosi nel naso, negli occhi che a malapena stavano aperti. Si infilò anche tra le braccia e le gambe che vennero aperte. Alberto riuscì ad aprire per un istante gli occhi prima di vedere l’asfalto. Ormai si poteva riconoscere i vari sassolini che lo componevano, tenuti assieme da quel collante grigio scuro che era il bitume. Chiuse gli occhi prima di morire.
 
Era febbraio. Giovanni vestiva un pesante giubbotto, cappellino di lana e dei guanti di vari colori, anch’essi di lana.
Aveva quattro anni e camminava, dando la mano, a suo padre, Erik, che nell’altra, invece, teneva un sacchetto di stoffa con dentro un po’ di pane e una bottiglia, di vetro, contenente del latte.
«Papà, andiamo a vedere la Palestra?» aveva chiesto usciti dal panettiere. Aveva sempre amato quell’edificio. Imponente, misterioso ma al contempo dotato di un’aura quasi sacra. Era una delle sue mete preferite.
«Va bene» gli era stato risposto. Ed ecco che girarono l’angolo per entrare nel grande vialone con grossi alberi, secchi, posti su entrambi i lati. La loro attenzione venne immediatamente attirata da un gran numero di persone poste proprio davanti alla Palestra.
«Papà, che cosa fanno?».
«Andiamo a vedere?».
Annuì e assieme si avvicinarono.
Erik notò due persone sul cornicione. Davanti vi era una donna con gli occhi chiusi. La brezza di vento gelida, spostò all’indietro i suoi capelli ricci. Piangeva e la bocca era semi-aperta. Dava la mano sinistra ad un uomo, inginocchiato poco dietro.
Gli occhi di Erik guardarono per un istante un signore davanti a lui: «Scusi, cosa sta succedendo?» e in quel momento la donna lasciò la mano, alzò le braccia in modo che formassero novanta gradi con il resto del corpo e si gettò giù, volando con il volto rivolto verso il basso. Si sentirono delle grida di puro orrore. Alcuni scapparono, altri si avvicinarono e in quel caos eccola lì, raggomitolata in maniera scomposta a terra.
 
Steven e Alberto riaprirono gli occhi. Erano salvi o quantomeno erano vivi. Il loro volo si era interrotto a circa cinque centimetri da terra. Caddero per lo spazio rimanente. Giovanni gli si avvicinò guardando negli occhi un po’ l’uno e un po’ l’altro: «Ora voi aprirete quel portellone o vi posso giurare che la prossima volta il volo non si interromperà. Muovetevi».
 
Entrarono in macchina e sfrecciarono verso casa, togliendosi il passamontagna una volta entrati sul Percorso 2.
«Giovanni, ti sei bevuto il cervello?» gridò Christopher.
Giovanni non rispose, rimanendo in silenzio ad osservare la strada. La nebbia era scomparsa.
Erano tutti sudati, non tanto per il caldo del passamontagna quanto per l’ansia di quella serata.
«Ve l’ho detto che non doveva venire e che avrebbe mandato tutto a puttane» pronunciò Mark, alzando le spalle.
«In realtà vi ho salvato. Avreste ucciso quegli uomini e avreste sulla coscienza due persone e probabilmente due famiglie. Abbiamo compiuto la missione senza spargimento di sangue. Non mi aspetto che mi ringraziate, ovviamente. A quello ci penserà Don Foster».
Nello stesso momento, a diversi chilometri più a Sud, al primo piano di una villetta a Smeraldopoli, un ragazzino di undici anni era seduto con la schiena posata verso il capo del letto e con in mano un libro. L’abat-jour illuminava le pagine del volume che aveva consumato per tutta la serata, da quando aveva litigato pesantemente con il fratello. Lo aveva catturato, intrappolato. Le parole stampate erano le sue grate: «Una sera andai in un bar in una zona che non ero solito frequentare. Il nuovo anno era scoccato da qualche giorno e la neve scendeva lenta e candida su Milano. Mi è sempre piaciuta la neve, ho sempre apprezzato la sua caduta sull'asfalto che riduce a zero il rumore delle macchine. C'era una band che suonava in quel locale, musica folk o country, non sono mai stato in grado di distinguerla a dire il vero. Cantavano di due persone che si erano divertite e che ora però non erano più assieme. Erano stati sulla cresta dell'onda, sulla cima del mondo, ne avevano addirittura fermato la traiettoria, la sua rotazione. Eppure di quella coppia non rimaneva nient'altro tanto da portare il cantante a chiedere tra il disperato e il malinconico se non si fossero divertiti, quasi se questo potesse in qualche modo riportare indietro il tempo e far cambiare idea all’altra persona. Tornai a casa quella sera e non riuscii ad addormentarmi. Sarà perché avevo passato la serata anche con una persona che mi piaceva parecchio, ma il mio pensiero rimaneva lì, su quelle due persone che non avevano fatto altro che conquistare il mondo e poi separarsi, miseramente. Trovai una triste analogia. Se quella band mi avesse conosciuto, avrei potuto addirittura affermare che senz'altro, senza alcun dubbio, ero io il protagonista di quella canzone. In un altro momento avrei lasciato la mia penna divagare su come siano comuni, banali e uguali le nostre vite, tanto da poter venir vissute da altre persone. Quasi come se Dio fosse troppo pigro per scrivere miliardi di storie diverse per ognuno di noi. Ma in quel momento la nostalgia era troppo forte per poter permettere alla mia penna biforcuta di colpire a fondo la miseria della vita umana. Presi un foglio di carta e una penna e cominciai a scrivere una lettera. In rari momenti di complimenti, aveva detto che me la cavavo a scrivere, questo non faceva altro che incoraggiarmi a comporre quello che stavo scrivendo. Poi la ultimai e mi resi conto che non ero in grado di dire nulla di quello che in realtà volevo. Se c'era una cosa che mi mandava in bestia, era la sua capacità di farmi sentire sempre inferiore, involontario, certamente, un mio problema, non lo metto in dubbio, eppure, in sua presenza o quando si parlava di lui, io mi sentivo sempre come qualcuno che non era un grado di competere con lui o di vivere sul suo stesso livello in nessun campo per nessuna ragione. Anche in quel momento, mentre la penna scivolava sulla carta e l'inchiostro segnava le volontà della mia mente, mi pareva che quella lettera potesse andar bene per qualsiasi altra persona ma non per lui. La ultimai pur sapendo che non l'avrei mai consegnata. No, non avevo alcuna ragione per farlo. Non perché non sentissi la necessità di sentirmi mediocre (anzi, mi avrebbe sicuramente stimolato a migliorarmi) ma perché non ne potevo semplicemente più di rimanere aggrappato ad un'ancora che mi impedisse di volare. Sì, senza di lui forse mi sarei schiantato, anzi, sicuramente. Ma almeno ci avrei provato, avrei preso una decisione da me, senza chiedere consigli e pareri a nessuno. Con lui affianco non lo avrei mai potuto fare. Non lo avrei mai permesso io in primis. La mia solida roccia si era rivelata essere un parassita che assorbiva la mia linfa vitale. E in quel momento realizzai che stavo provando odio. Per la prima volta, lo sentivo crescere potente, come il magma all'interno di un vulcano. E anche adesso, anni dopo, ripensandoci, sento il magma gonfiarsi dentro, ribollire, pronto a cominciare la sua salita verso l'esterno. Sì, l'odio. Sì, lo odio, mi odio. E solo in questo momento mi è chiaro il significato di una frase che sentii qualche anno fa alla televisione. Mi è chiaro perché anche io mi ritrovo in quella posizione: “Odio quanto avessi bisogno di noi”».
E mentre i suoi occhi scorrevano sulla carta, a Plumbeopoli, una donna aveva appena bussato alle porte di una casa. Capelli biondi, a caschetto, un volto pesantemente truccato, con un ombretto viola che copriva le palpebre superiori degli occhi, un rossetto scarlatto.
«Brigitte, che cosa ci fai qua?» disse un uomo sulla soglia della porta, sorpreso per quella visita inaspettata.
Arricciò le labbra, per poi decidersi a parlare: «Piuttosto cosa ci faceva il Team Rocket qui, a Plumbeopoli».
E il volto dell’uomo diventò immediatamente scuro.
   
 
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