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Autore: cartacciabianca    08/04/2009    2 recensioni
[…] I due assassini si issarono sui bastioni della fortezza e furono a portata degli arcieri. -Via, via, via!- Altair l’afferrò per il cappuccio e la trascinò di corsa verso l’angolo della fortezza, che culminava con una torre, la quale facciata dava sull’immenso piazzale del distretto nobiliare. -Salta!- Altair la spinse giù e i due assassini, accompagnati dal ruggito di un’aquila, si gettarono nel vuoto. Nel bel mezzo del volo Altair la strinse a sé, ed Elena si avvinghiò a lui che, capovolgendosi in aria, atterrò di schiena nel cesto. Poi fu il silenzio, scortato dal canto delle campane d’allarme, ma almeno le voci dei soldati e le grida degli arcieri erano cessate. […]
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dea tra gli Angeli' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Deserti freddi e caldi









“Gridò con quanto fiato avesse pur di liberarsi di quel peso, e le sue urla s’infransero tra le mura della fortezza, raggiungendo gli alloggi degli Angeli, gli appartamenti delle Dee e il cortile interno nel quale si stavano allenando due assassini.”






Marhim inciampò e cadde in avanti, ai piedi di suo fratello.
Halef lo aiutò ad alzarsi afferrandolo per il cappuccio. –Stai bene?- gli chiese distratto, guardando verso l’ingresso della fortezza.
Marhim si sollevò lentamente, la spada ancora stretta in pugno e la bocca aperta.
-Elena…- mormorò, ed un istante dopo scattò di corsa fuori dall’arena.
-Marhim, aspetta! No!- gridò Halef. –Fermo!- aggiunse, ma il fratellone saltò la staccionata e continuò dritto verso la sala.
Una volta nell’androne, Marhim rinfoderò la spada e proseguì sulle scale che portavano allo studio del Maestro.
Il ragazzo si arrestò nell’ombra delle colonne, non poté credere ai suoi occhi.
C’era un gran silenzio nella stanza, accompagnato dai gemiti continui della giovane Elena, stretta tra le braccia del suo maestro.
Marhim lo riconobbe subito: Altair stringeva la sua allieva a sé mentre Tharidl impiegava le ultime forze per fasciare alla Dea la mano sinistra. Il bendaggio, come vide chiaramente Marhim, correva dal polso allo spazio vuoto tra il dito medio e il mignolo.
Non riuscì a guardare oltre, nascondendosi dietro la colonna. Il respiro gli si faceva irregolare, e il cuore accelerava la sua corsa.
C’era del sangue sul tavolo del Maestro. Il sangue di Elena.
Non poteva starsene lì come un ebete e permettere che accadesse tutto quello. O meglio, era già accaduto, ma non avrebbe tollerato oltre che la sua Elena stesse un minuto di più attaccato a quell’uomo.
Ecco che i sentimenti per quella ragazza si facevano più forti, si disse lanciando un’occhiata. Se provava quel genere di gelosia, doveva essere davvero stracotto, pensò.
Come si era permesso Tharidl di tagliarle un dito? Così inaspettatamente … non era da lui accelerare a tal punto le cose. Ma perché Elena avrebbe dovuto accettare con tanta convinzione? Era stata forse costretta? Le imposizioni della confraternita ponevano limiti assurdi, e pensare che Tharidl non fosse capace di imporle una tale sofferenza gli pareva dannatamente possibile.
La ragazza soffocava i suoi lamenti sulla veste del suo maestro, l’unico braccio libero dal fardello del dolore era avvinghiato al suo collo, e in tutto questo Altair restava impassibilmente severo cercando di consolarla con delle innocue carezze.
Trovò il coraggio per mostrarsi, e nell’istante in cui Marhim emerse dall’ombra comparendo nello studio, Elena si allontanò dal petto del suo maestro.
La ragazza traballò facendo quale passo all’indietro.
-No, tienila ferma!- gridò Tharidl, ma Elena diede una svista al vuoto tra le due dita, ed un secondo più tardi si accasciò prima sulle ginocchia e di seguito completamente distesa a terra.
Marhim scivolò al suo fianco. –Elena!- sibilò non sapendo dove mettere le mani.
Altair aggrottò la fronte. –Cosa ci fai qui?- ruggì.
L’assassino più giovane le cinse le spalle e sollevò seduta il corpo della Dea. –Elena, Elena!- le sussurrò abbracciandola.
Tharidl inarcò un sopracciglio. –Per adesso può bastare, avanti: Altair puoi occuparti tu di riportarla nelle sue stanze?- chiese.
L’uomo annuì. –Se solo…- con un cenno del capo indicò Marhim che pareva non staccarsi da lei.
Tharidl prese fiato. –Marhim, lascia immediatamente questa sala!- ordinò.
Il ragazzo scattò in piedi come una molla, scostandosi dal corpo inerte della sua amica. –Sì, Maestro!- balbettò terrorizzato.
-Bene- fece Tharidl soddisfatto, e Marhim abbandonò lo studio con una smorfia.
Altair si piegò a raccogliere la sua allieva, afferrandola sotto le ginocchia e dietro la testa. Se la caricò in braccio e fece per avviarsi giù dalle scale.
-Assicurati- cominciò Tharidl, e l’assassino si fermò voltandosi.
-Assicurati che non sia sola, quando si risveglierà. Non voglio che tenti di levarsi la fasciatura prima del tempo- sospirò.
Altair annuì e sistemò meglio Elena tra le sue braccia.

D’inverno le desertiche lande egiziane erano una sterminata e compatta chiazza grigiastra che, alla luce del sole oscurato delle nuvole, pareva infinita.
Vi era qualche ciuffo di erba che spuntava dal terreno, ma la sola vegetazione di quei luoghi abbandonati da Dio, erano le pozze salmastre di neve sulle montagne e i cespugli essiccati di erba fredda.
La piana di Fayium era costellata di villaggi contadini e articolata in una serie di strade pietrate che calpestavano il deserto per diversi chilometri, collegando un centro abitato all’altro.
I due Falchi avevano ricevuto ordine di evitare ogni accesso affollato alle cittadelle e astenersi dalle vie più frequentate e meglio rintracciabili; proprio per questo motivo era stato chiesto loro di aggirare le città ove non si trovasse una Dimora e raggiungere le destinazioni percorrendo il deserto.
Su di loro gravava il freddo della notte, e i loro cavalli sfiniti mantenevano l’andatura regolare di una corsa lenta.
Gabriel si strinse nel mantello, nascondendo sotto ad esso le mani che stringevano le briglie.
Il buio inghiottiva la pianura e giocava brutti scherzi, in cielo si agitavano le nuvole di una tempesta di tempesta.
Il suo compagno anziano gli era affianco e puntava le sue veglie attenzioni dritto davanti a sé, pronto e scattante a qualsiasi evenienza.
-Che cos’è?-.
Gabriel seguì il braccio del Falco e fermò il cavallo. –Cosa?- chiese.
-Aguzza la vista, ragazzo! Guarda!- lo rimproverò il vecchio assassino.
C’era un barlume lontano, forse un accampamento nel bel mezzo del nulla. Le luci soffuse di fiaccole, e poi il suono ben distinto di metallo contro metallo.
-Dove siamo? Cos’è, un villaggio?- domandò il ragazzo.
-No- sibilò l’altro Falco. –Siamo nel bel mezzo del deserto! Secondo te cosa può essere?- sbottò furioso, e il suo cavallo parve agitarsi. –Presto, prendiamo un’altra strada!- ruggì facendo voltare l’animale.
Intrapresero una nuova direzione, sparendo avvolti dalle ombre della notte e punti da una gelida ventata che sollevò la polvere e gliela gettò negli occhi.
Giunsero ad un crepaccio roccioso e vi passarono attraverso in uno stretto ed intricato sentiero di pietra, mentre il suono degli zoccoli dei cavalli si diffondeva tra le ruvide pareti.
Gabriel si guardò attorno spaesato, ma costantemente vigile.
Quel posto non gli piaceva, quelle pietre avevano un che di dannatamente sinistro, e le ombre erano troppo immobili e silenziose.
-Perché ho un brutto presentimento?- mormorò.
L’incappucciato davanti a lui si voltò a guardarlo. –Tieni a freno i brividi, siamo al sicuro qui. Ci siamo già passati, ricordi?-.
Gabriel scosse la testa e si allungò sul collo del suo cavallo. –Compagno, non mi piace. Ascolta questo silenzio!- gemé.
Amir fece un gesto di stizza e lo azzittì con un sibilo. –Piantala; dei cavalieri si sono accampati lì e questa è l’unica via. Azzittisciti, per favore- digrignò.
Gabriel risedette composto sulla sella e portò una mano dalle redini all’impugnatura della spada al suo fianco. –Stolto vecchiaccio- bofonchiò.
Sopra le loro teste volteggiò un aquila che levò il suo grido, e poi fu il caos.
Dalla parete di roccia emersero una dozzina di figure oscurate dal nero della notte e copertE da lunghe mantelle scure. C’era una croce rossa di una filatura brillante sulle loro tuniche, e non potevano non trattarsi di quell’unica casata che meno si sarebbero aspettati di incontrare in quelle lande desertiche.
Gabriel sfoderò la sua lama. –Diamine!- strillò.
L’uccello del malaugurio andò a stringere i suoi artigli attorno al braccio sinistro di un uomo a cavallo che comparve dal nulla, con grande sorpresa dei due missi dal mantello bianco.
Amir accorciò a tal punto le redini da far indietreggiare la sua cavalcatura, e Gabriel con lui.
-Dateci il Frutto, e la vostra vita sarà risparmiata- ridacchiò il Templare a cavallo.
-Mai!- fu la schietta risposta del ragazzo.
Amir lo riprese mollandogli una pacca in testa, e quasi il cappuccio gli scivolò via dal volto.
-Sta’ calmo, ragazzino! Vuoi farci ammazzare?!- strinse i denti Amir.
Gabriel tentò di darsi un contegno, avvolgendo la presa attorno all’impugnatura della spada con maggior vigore.
Il semicerchio di uomini a piedi si stringeva attorno a loro, ed erano spacciati.
-Siate diplomatici- ridacchiò il Templare. –Perché rischiare inutilmente la vita?- sorrise malizioso.
Senza esitazione, un istante dopo che Gabriel si fu convinto che quella fosse la loro fine, Amir fece scattare in avanti il suo cavallo sguainando la sua spada.
Con un taglio netto, preciso e impeccabile, il vecchio assassino tranciò la testa ad uno dei soldati che li accerchiavano, e l’aquila che il cavaliere aveva sul polso prese il volo spaventata.
-Addosso!- gridò il Templare, e il duello ebbe inizio.
Gabriel smontò dalla sella e raggiunse l’elsa della lama corta. Estrasse la piccola arma e, prima che due soldati potessero colpirlo, scartò in avanti con una capriola e li sorprese alle spalle, pugnalandone prima uno e poi l’altro.
I fiotti di sangue si persero nel buio della notte, le urla di dolore raggiunsero il cielo. La quiete delle stelle era stata turbata, e fin quando il silenzio non avrebbe regnato, nella piana si sarebbe combattuta quella piccola guerra.
Amir toccò terra e trascinò il Templare giù dalla sua cavalcatura, ingaggiando così uno scontro alla pari.
Gabriel tenne a bada la maggior parte degli uomini lì presenti, ma dalla roccia si sporsero improvvisamente un gruppo di arcieri.
Il ragazzo scartò alla sua sinistra evitando un fendente e poi indietro con un balzo, per schivarne un secondo. Dopodiché, corse contro la parete di pietra e si aggrappò alla prima sporgenza. Agile come un gatto, raggiunse il pendio sul quale erano nascosti gli arcieri e, sfilando impercettibilmente i pugnali dallo stivale, ne fece fuori due.
Gli arcieri rimasti gli furono addosso armati di spade,  il combattimento proseguiva agitato anche al pian terreno.
Amir parò un colpo e respinse l’arma dell’avversario che fu costretto ad indietreggiare. Il Templare sembrava in difficoltà di fronte alla maestria del vecchio assassino e a tal punto messo alle strette, che dovette ridursi a schivare piuttosto che contrattaccare.
Gabriel si chinò a raccogliere l’arma di un arciere morto e la scagliò con forza addosso ad un altro, che dal colpo si chinò all’indietro e cadde giù dal pendio.
Con un taglio alla gola, Gabriel eliminò dalla sua portata anche un secondo arciere che gli era sembrato inesperto con la spada, ed in fine si lanciò contro il terzo ed ultimo soldato.
Questo, prima di attaccarlo, gli scagliò contro una freccia e Gabriel non riuscì ad anticiparla.
Il dardo penetrò nella carne all’altezza della spalla, andando a lesionare anche le ossa. Sul mantello bianco si disegnò ben presto una spaventosa chiazza nera che sudava sangue e bruciava intensamente.
Il ragazzo aprì bocca ma dalle sue labbra non venne altro che un gemito. Atterrito, col cuore che pompava troppo velocemente, toccò con mano l’asticella della freccia. Fece qualche passo indietro, fin quando il suo piede non scivolò sul bordo del crepaccio e la terra scivolò via dalle sue scarpe.
Gabriel precipitò verso terra e l’impatto col suolo gli strappò via i sensi, consegnandogli le chiavi di una stanza eternamente oscura.

“…Riaversi è fonte costante di dolore. Aprire gli occhi, anche solo per un istante, può essere a tal punto difficile da sembrare un’impresa impossibile. Ma delle volte siamo spinti da una sensazione, un presentimento, una forte richiesta di alzarci e combattere pur di vedere, piuttosto che immaginare il cambiamento del mondo dietro le nostre palpebre chiuse…”

{Dal diario di Alice}

Elena trovò la sue dita strette nella mano calda di qualcuno che era steso al suo fianco; qualcuno che le dormiva severamente accanto, un qualcuno che la stringeva dolcemente a sé e l’avvolgeva in un soave abbraccio. Sul viso della giovane Dea comparve un sorriso gioioso nell’avvertire il profumo di Marhim arrivarle nei polmoni, mentre tutto attorno al letto della sua stanza prendeva forma e colore. Le tende erano schiuse e lasciavano travedere un lembo della valle imbiancata dalla neve; le finestre erano chiuse, le ombre dei mobili si allungavano sul pavimento pulito della camera traversando i decori dei tappeti.
Improvvisamente ricordò ogni cosa, ma ciascun ricordo fu presto sostituito dalla smaniosa avidità di vedere, e quindi il suo sguardo cadde sulla mano sinistra, ancora fasciata da una benda candida.
C’era un sottile spazio vuoto tra il medio e il mignolo, dove alle sue cinque dita era stata sottratta quella simmetria tanto perfetta che Dio le aveva donato. Era una sensazione fastidiosa quella di non poter controllare uno dei cinque arti della mano, ma presto si sarebbe abituata e a quel punto non se ne sarebbe manco più accorta. Non riuscì a non guardare ai lati belli e solari della sua scelta: sarebbe stato il suo pugno a colpire Corrado. Tutto ciò le bastava.
L’altra sua mano era intrecciata a quella di Marhim, che vegliava dormiente alle sue spalle abbracciandola.
Chissà che non fosse mattina, si chiese la Dea sbadigliando.
La luce soffusa, il tepore del sonno come si fosse appena svegliata da un lungo sonno e rinvenuta da un magnifico sogno. Pensò che dovesse trattarsi delle prime ore dopo l’alba.
Lentamente, scivolò via dalle braccia di Marhim e si sollevò seduta sul letto. Voltandosi, poté notare come il ragazzo sonnecchiava spensierato con la bocca semi aperta; il corpo rilassato e la schiena contro la fredda parete della stanza.
Si chinò per osservarlo più da vicino, e subito ebbe un tuffo nel cuore. Le era restato affianco per tutto quel tempo, le aveva dormito vicino vegliando che non le accadesse nulla di male, ed Elena dubitò fortemente che si fosse trattato di un ordine di Tharidl. Le balzò addirittura alla mente che l’avesse portata lui stesso in braccio fino all’ultimo piano della fortezza, ma poi si ricordò delle carenti competenze fisiche del suo amico.
Amico…
Dopo quello che avevano passato, Marhim aveva varcato la soglia dell’amicizia fin da troppo. Eppure, forse per i suoi continui rifiuti, Elena non riusciva a considerarlo il “suo” Marhim. Forse mancava quell’ultimo passo; quell’ultimo “osare” che nessuno dei due aveva mai passato. Sì, doveva trattarsi proprio di quel modo assurdo di concepire le cose, perché non c’era altra spiegazione logica. Però… una volta aveva tentato, e una volta le era bastata come rifiuto. Non avrebbe riprovato alla cieca, sarebbe stato da stupidi farsi dire ancora e ancora un chiaro no in faccia per poi vedersi sgretolare tutto davanti al naso.
E lei, cautamente si avvicinava sempre più, quasi sentiva il suo respiro regolare e tranquillo.
D’un tratto Marhim aprì un solo occhio facendola sobbalzare.
Prima che Elena potesse scattare in piedi, il ragazzo le afferrò il polso inchiodandola dov’era. -Elena- mormorò sollevandosi.
I capelli arruffati gli cadevano sul viso, e la sua era un’espressione mista tra sconforto e gioia, impossibile da definire.
La Dea sorrise mesta, ma un istante dopo abbassò lo sguardo.
Marhim tacque alcuni secondi speranzoso che Elena tornasse a guardarlo, ma niente. La ragazza sembrava completamente assorta nelle sue tristezze, e lui cosa poteva fare per consolarla?
L’assassino si sedette a gambe incrociate dietro di lei e le cinse le spalle. –Sei stata tu?- le sussurrò all’orecchio, e istintivamente Elena strinse il pugno della mano sinistra.
La fitta di dolore le salì lungo tutto il braccio, arrivando alla nuca sottoforma di una scossa gelata. Nonostante ciò, rimase in silenzio.
Marhim non parve sconcertato, anzi. Lasciò che la ragazza si appoggiasse a lui che a sua volta finì delicatamente con la schiena alla parete. –Sei stata tu a volerlo?- chiese ancora.
Elena non seppe che rispondere, e il suo mutismo proseguiva indisturbato.
-In questo modo non migliorerai le cose- ridacchiò lui.
-Peggio di così non potrebbe andare- finalmente parlò, stupendosi di una voce tanto stanca come se tutta quella notte non avesse chiuso occhio. E con stesso fare sfinito, Elena si adagiò completamente contro il suo petto.
-Che ore sono?- domandò flebile lei.
-Presto, è ancora presto-.
-Cosa…- s’interruppe, nascondendo la mano fasciata sotto il gomito del braccio destro. –Cosa è successo poi? Non ricordo-.
-Non molto- sospirò Marhim poggiando la testa al muro. –Sei svenuta poco dopo che… ecco- indugiò.
-Sì, va bene. Ho capito- brontolò. –Ma adesso? Come sei arrivato qui?- lo interrogò voltandosi a guardarlo.
Marhim sbadigliò. –Dalla finestra-.
-È chiusa- sbottò lei.
-Come vuoi che sia arrivato? Credi che solo perché non ho il rango alto non sappia muovermi furtivamente? Ti sbagli! Leila aveva il sonno profondo, sai. Spero piuttosto che non ci senta ora…- si guardò attorno.
-Grazie- sorrise.
Marhim aggrottò la fronte. –E di cosa?- fece confuso.
-Di essere qui, adesso- adagiò la guancia sulla sua spalla e la punta del suo naso era solleticata dagli accenni di barba che lui aveva sul mento.
-È il minimo, per come mi sono comportato, intendo- parlottò.
Elena inarcò un sopracciglio. –Perché? Come ti sei comportato?- arrise maliziosa.
-Ah, io non ho fatto assolutamente niente di male!- dichiarò. –Qui sei tu il problema, non lo capisci?-.
Elena si raddrizzò tornando seduta. –Che intendi?- balbettò sconvolta.
Marhim distolse lo sguardo.
-Tu non provi niente?- insisté lei. –Non provi niente mentre quella che sta al gioco da sola sono io?-.
-Non capisci, io…- provò a dire, ma Elena lo interruppe.
-Perché sei qui, allora?!- ruggì. –Che cosa ci fai qui se il solo vedermi e sentirmi troppo vicina a te ti fa così male?!- aggiunse, e avvertì il pizzico delle lacrime salirle agli occhi.
-Non mi fa “male”!- ribatté lui.
-E allora qual è il problema? Marhim, non sono cieca! Non ancora, ma mi manca solo quello e sto apposto!- ironizzò alludendo al suo dito ora mancante. –Lo so che ti piaccio- arrossì per averlo detto così schiettamente.
-Tu non capisci, non vuoi capire. Rischiamo la morte! Tutti e due! E sarebbe meglio… credi che non sia doloroso anche per me?!- i loro toni di voce si facevano troppo alti, pensò Elena.
La ragazza non fu in grado di rispondere: Marhim era distaccato solo per… proteggerla?
-Tu…- mormorò lei.
-Io cosa?!- sbottò contenendo a stento la rabbia.
-Tu…- deglutì a fatica. –Tu mi ami?-.
Marhim perse colore, sbiancando improvvisamente e diventando freddo, un tutt’uno con i muri della stanza. Aprì bocca, ma non ne venne nessun suono, almeno prima che Elena gliela serrasse con un bacio.
Premette dolcemente le labbra sulle sue, e la risposta di Marhim si fece attendere uno, due, cinque secondi. Poi dovette staccarsi per prendere fiato, ma temeva di doverlo guardare in volto e tenne gli occhi chiusi.
-Al diavolo la setta- assentì lui.
Elena s’irrigidì e aprì gli occhi il tempo necessario per cogliere il volto del ragazzo riavvicinarsi al suo, e il fiato caldo di Marhim le s’infranse sul palato.
L’assassina scivolò giù, e Marhim l’accompagnò con la testa sul cuscino senza interrompere il bacio. Lui assaggiò smanioso ogni centimetro della sua bocca mentre, impacciato, veniva accolto tra le gambe di lei.
-Aspetta- disse ad un tratto, e la magia finì.
Elena avvertì il suo cuore rallentare i battiti di secondo in secondo. –Cosa?- trovò la forza di chiedere.
I capelli di Marhim le solleticavano la fronte, e poteva ancora sentire il respiro affannato di lui caderle sulle labbra arrossate.
Marhim le accarezzò il braccio fino a raggiungere il bendaggio sulla mano. Quando le dita di lui s’intrecciarono alle sue, un brivido percorse la schiena della giovane Dea.
-Aspettiamo che sia passato- le sussurrò soave.
-Che sia passato cosa?- domandò lei.
Marhim strinse con più forza la sua mano, e questo le procurò una fitta che risalì i muscoli dell’avambraccio. Il volto le si contorse in una brutale smorfia di dolore. –Perché l’hai fatto?- digrignò.
Marhim capovolse i loro corpi e la Dea si ritrovò in un istante sopra di lui, che la stringeva per i fianchi. -Ammetti che ne hai passate troppe negli ultimi mesi. Non posso rischiare di farti del male- pronunciò sorridente.
Elena si addolcì, nonostante la sprezzante avidità che folgorava il suo animo in quel momento. –Non mi serve la mano sinistra per…- Marhim interruppe le sue parole baciandola improvvisamente, ed Elena, interdetta, si tese tra le sue braccia.
Il ragazzo si staccò da lei che lo fissò negli occhi con rabbia.
-Aspettiamo che sia passato- ripeté Marhim.
La ragazza annuì, poggiò la guancia sul suo petto e, forte nella convinzione di aver ottenuto quello che desiderava, si abbandonò al sonno.
 
Una ventata gelida spazzò via le sabbie del deserto e le rovesciò sul suo corpo inerte al suolo, mentre il suo mantello bianco ondeggiava al respiro degli Dei e sulla sua pelle si disegnava il colore della vita.
Sopra di lui andava stagliarsi un cielo immensamente azzurro, punteggiato da poche nuvole bianche e gonfie. La tormenta fioriva nonostante le spesse pareti di roccia, e il vento s’insinuava nei cunicoli del crepaccio e soffiava tra sangue e dolore.
Gabriel tossì uno, due colpi di tosse prima di riuscire a girarsi su un fianco. La polvere della terra gli era entrata in gola, poiché la bocca gli fosse rimasta aperta durante tutta la sua convalescenza.
Si gettò nuovamente al suolo non tollerando l’immenso dolore che lo colpì alla spalla, e i muscoli lacerati di quella zona tornarono a chiedere sangue che, nella maggioranza, si era essiccato sulla parte alta del mantello. Sul tessuto candido si stagliava ora una chiazza di sangue secco e parte della ferita si era fortunatamente rimarginata da sé, senza l’uso di medicinali e impedendo maggior spargimento di liquidi. Quello che si chiese Gabriel fu, dopotutto, che fine avesse fatto la freccia che gli aveva perforato la tunica.
Si guardò attorno con la vista ancora appannata, ma riconobbe solo parte del paesaggio che lo circondava, ovvero le rocce calde dell’alto sole di mezzogiorno e una massa di cadaveri abbandonati in un angolo dello spiazzo.
Erano i corpi di coloro, Templari, che avevano combattuto il Frutto la notte prima, quando tutto era diventato improvvisamente buio.
Dello scontro con le forze Crociate ricordava poco e niente e, nel tirarsi su, Gabriel si trattenne dal ricadere giù afflitto da una nuova insopportabile manciata di scosse doloranti.
Finalmente riuscì a tirarsi in piedi.
Se n’erano andati, tutti quanti. Nella piazza tra le rocce del crepaccio restava solo la puzza di morti e sangue dipinto a schizzi sulle pietre, ma nient’altro.
I Templari si erano portati via il Frutto, i cavalli e le armi vinte in duello, poiché Gabriel si accorse di essere stato completamente depravato delle sue lame, compreso il meccanismo sotto il guanto sinistro.
Nel tentativo di tener sottocontrollo il taglio, si portò una mano alla profonda ferita sulla spalla e mosse i primi passi avanti.
Nord, sud, est o ovest? Il sole era alto nel firmamento, impreciso definirne l’ora attraverso le ombre delle pietre e ben presto Gabriel si trovò circondato dall’immenso ed infinito nulla del deserto.
Trascinava i piedi sulla sabbia alzando cumuli di polvere; era stanco, assetato, debole e privo di forze.
Camminò per pochi minuti prima di crollare di nuovo a terra, tra gli arbusti rinsecchiti e la vegetazione assente di quella vasta landa desolata.
In ginocchio sul selciato, gli occhi gli si chiudevano, quando una voce chiamò il suo nome.
-Gabriel!-.
Piuttosto che innalzarsi, il ragazzo cadde ancora più giù, finendo con la faccia tra la sabbia.
-Gabriel, presto!- disse Amir sollevandolo di peso e trascinandolo verso il crepaccio.
-Che succede?…- brontolò Gabriel incosciente e Amir lo adagiò seduto con la schiena poggiata sulla roccia.
Il suo compagno sembrava integro, chissà da dove veniva si chiese Gabriel, ma il solo alzare gli occhi richiedeva troppe energie.
Amir si accovacciò al suo fianco -Tieniti!- gridò.
Non ci fu tempo di aggiungere nulla più che un boato assordante riecheggiò nella gola di pietra, traversando e facendo tremare il deserto e le sue sabbie.
Istintivamente si coprì il volto e, al dolore per l’improvviso movimento del braccio, si sostituì presto un’ondata calda assurda che travolse la piana di Fayium nascondendo la valle in un bagliore intenso e accecante di una sfumatura giallastra mielata.
-Che succede?- strillò il giovane Falco terrorizzato.
Amir aveva il volto celato sotto il cappuccio, ma neppure quel riparo bastava. –Hanno trovato il Frutto! Un altro Frutto, Gabriel! Dobbiamo andarcene, ora!- ordinò Amir tirandolo in piedi.
La luce intensa andò ad affievolirsi, mentre il mondo si riappropriava dei suoi naturali colori.
Il cielo tornò azzurro, le nuvole bianche, ma quando i due Falchi intrapresero una corsa sfrenata ed estenuante verso l’ultima salvezza, un nuovo boato e una nuova vampata bollente di energia magica li travolse, e furono costretti a ripararsi in un dosso stretto del terreno.
-Corri, ragazzo! Corri!- lo incitò Amir calando il braccio del giovane sulle sue spalle e aiutandolo a correre.
Ripresero la loro fuga.
A intervalli regolari la piana veniva investita da lampi accecanti e improvvisi, provenienti da un piccolo accampamento dietro di loro, nella direzione opposta. Quando la luce gli abbagliava, era impossibile scorgere dove mettere i piedi, così si affidavano ai loro istinti per quei pochi secondi in cui durava il lampo. Quella luce bruciava sulla pelle, corrodeva i tessuti e scottava sotto i vestiti.
Raggiunsero un oasi vicino alla quale era issata una tenda scura e vi si gettarono all’interno, rifugiandosi da una medesima ondata di calore.
Gabriel atterrò di schiena sul tappeto e spalancò le braccia prendendo fiato. Ormai tutti i dolori del suo corpo si mescolavano in un unico grande desiderio di farla finita.
-Ieri notte, quando sei stato ferito non pensavo fossi ancora vivo- lo informò Amir aggirandosi per la tenda in cerca di cibo, acqua. Sembrava il ristoro di qualche pastore ma era abbandonato da quelli che potevano trattarsi di anni.
-Sei caduto da parecchio, fratello- si stupì Amir rovistando tra le dispense di alcune casse ammucchiate vicino a dei barili.
Amir strappò del tessuto dai cuscini che ornavano la tenda e ne ricavò un bendaggio improvvisato per il taglio di Gabriel che aveva ripreso a perdere sangue.
Il suono costante, ripetitivo del potere del Frutto dell’Eden che guaiva nella valle era segno che avevano fallito la loro missione.
-Stanno usando la nostra Sfera per trovare quell’altra, che non so come, hanno scoperto si trovi nei paraggi. C’è un accampamento Templare a nord, che non è un vero e proprio accampamento, ma siti archeologici che Corrado stesso ha richiesto riprendessero le loro attività. Non ho idea di come abbia fatto quel bastardo a sapere dove si trova un’altra di quelle lampadine!- sbottò amir fasciandogli la spalla.
Gabriel gettò la testa all’indietro stringendo i denti. –Dove sei stato fino ad ora?-.
-Mi hanno lasciato andare loro- confessò il Falco. –Gli ero solo d’impiccio e volevano che portassi la notizia a Tharidl affinché le glorie dei Templari prendessero piede nelle nostre terre. Subdoli maledetti…- digrignò stringendo il nodo.
-Cosa…- mormorò debole Gabriel. –Cosa facciamo… adesso?-.
-Torniamo alla Dimora più vicina; ma è bene aspettare che abbiano lasciato questi confini. Quando si muoveranno con i Frutti dell’Eden e abbandoneranno la pianura, saremo liberi di muoverci- dichiarò serio.
Quella notte i boati proseguirono in eterno, ma fortunatamente la corrente calda di energia che veniva dagli scavi portava fin nella tenda il suo calore.
I soldati di Corrado si apprestavano a picconare la terra e la pietra del sottosuolo in cerca dell’Immenso.
-Due frutti…- pensò ad alta voce Gabriel prima di prendere sonno.
-Dio aveva fame, si vede- ridacchiò Amir sprimacciando il cuscino.
Sulle labbra del giovane comparve un sorriso mesto, infastidito da tanto sarcasmo.
-Prima la spia… ed ora questo- bofonchiò girandosi su un fianco, dando le spalle al compagno.
-Tharidl non ne sarà molto contento-.
-Al diavolo Tharidl! Non pensare alla setta, per una volta, ma piuttosto ai centinaia di morti che il Frutto nelle loro mani saprà causare! Coma abbiamo potuto permetterlo?!- gridò rabbioso.
Amir sospirò. –Qualunque tono arrogante tu assuma adesso, Gabriel, sappi che non otterrai nulla in cambio. Tanto vale aspettare che le cose si calmino e affrontare la realtà. Forse non è destino che la setta tenga quegli artefatti- mormorò assorto.
-Destino? È questo il nostro destino… respiro a mala pena, questo può essere chiamato destino?-.
-Stai forse delirando, ragazzo?- domandò scherzoso.
Gabriel ignorò le sue parole e chiuse gli occhi.
-Domani saremo a Nazla prima del tempo. Da lì manderemo una colomba a Masyaf e vi faremo ritorno solo quando ti sarai ripreso. Non fare la vittima, che ce ne sono già abbastanza- lo rimproverò severo.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, e la collana scivolò da sotto la coperta andando a poggiarsi a terra, di fronte al suo naso.
La pietra grigia delle grotte del lago riluceva alla luce dei poteri dell’Eden, assumendo una sfumatura argentata magnifica.
Strinse il ciondolo tra le dita tremanti ed infreddolite della mano destra e cercò di addormentarsi senza il costante pensiero della ragazza cui l’aveva vista al collo dopo tanti anni.
   
 
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