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Autore: Lala96    30/04/2016    2 recensioni
Lalage, giovanissima promessa della musica classica, a seguito di una serie di eventi dolorosi e di fallimenti professionali si trasferisce dalla capitale francese a Aix en Provence, dove si ritrova a vivere con la bislacca zia materna. Tormentata da dolorosi ricordi ma tenace, troverà ad attenderla persone, ragazzi giovani come lei, che l’aiuteranno a ritrovare l’amore mai scomparso per la musica. E le daranno il coraggio di affacciarsi investigando negli abissi della Storia, alla ricerca dell’amore perduto di sua nonna…
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Castiel rimase in silenzio, per qualche minuto, poi aprì bocca e riuscì solo a dire “Ah” “Già”. Rimasero in silenzio, poi lui si voltò ancora. “Beh, è scema, scusami il termine. Eri perfetta…”. Lalage disse una cosa, allora. Una cosa che gli fece gelare il sangue nelle vene.
“Dieci bacchettate” “Come?”. Lalage smise di sorridere. “Mi dava dieci bacchettate, sulle dita. Aveva un righello di legno, e per ogni errore mi faceva mettere avanti le mani, un colpo ogni sbaglio. A volte erano errori infinitesimali, che il pubblico non coglieva. Se suonavo “come una qualsiasi esecutrice”, dieci bacchettate. Quel giorno, non ero stata abbastanza brava per lei, non l’avevo convinta. Sfuggii alla punizione perché aveva lasciato il righello a Parigi. E una volta tornate se ne dimenticò”. Castiel sbiancò, mentre un moto di rabbia stupita gli sgorgava dal cuore. Ringhiò. “E’ folle” “Poteva andare peggio. Quando i giudici non mi davano il massimo, diventava impietosa. Non aveva bisogno nemmeno di sfiorarmi. Semplicemente, non mi rivolgeva la parola, e io sapevo, sapevo di aver sbagliato qualcosa. Che era arrabbiata con me. Il giorno dopo, intensificava le esercitazioni. Se era necessario, mi teneva a casa. Una volta passai un mese intero a perfezionarmi. Non era mai abbastanza. Una volta non ce la feci più e mi sedetti per terra, distrutta. Si arrabbiò moltissimo, fece quasi cenno di tirarmi uno schiaffo. Disse che se avevo tempo per starmene seduta, avevo anche tempo per diventare perfetta”. Aveva chinato il capo, sconfitta. “A volte urlava, e mi lanciava addosso leggio e spartiti, o mi afferrava per i capelli per costringermi a stare più dritta. Ma non esagerava mai, e comunque era raro: odiava le scenate, e aveva paura di guastare “ la sua preziosa creatura”, così mi chiamava. Se esplodeva così, era per un errore molto grave. A volte mi guardava gelida e con voce ferma ma implacabile mi umiliava. Io la ascoltavo, anche un’ora intera, mentre mi vomitava addosso, con tono basso e velenoso, il suo disprezzo. Non so dire quale modalità fosse peggio. Il repertorio era sempre lo stesso. “Sei una piccola fallita, una stupida piccola fallita!!” “Pensi che al mondo importerà, se una nullità come te se ne andrà dalle scene? Non gliene importerebbe nemmeno se tu non esistessi” “Sei una delusione, non meriti nemmeno di mettere le mani su un oggetto così sacro”. Cose così. Una volta mi disse che, per come pasticciavo su quello strumento, tanto valeva che fossi nata senza mani”. Le sue spalle tremavano. Castiel avrebbe voluto andare lì e stringerla, istintivamente. Ma era come se avesse paura di romperla, solo guardandola. “E tu non le hai mai risposto?”. Lei alzò gli occhi e lo guardò, stupita “E come potevo? Mio papà era spesso all’estero per lavoro. La mamma…anche lei era spesso via. E comunque era molto succube della nonna” “Sì, ma lasciare che ti trattasse così...” “Non credere che esagerasse troppo con le botte. Una volta mi diede un colpo sulle mani così forte che il mignolo si gonfiò un poco. Non l’ho mai vista così terrorizzata come quel giorno. Mi fece portare di corsa all’ospedale, e si occupò personalmente della mia guarigione- due giorni, nulla di che. Aveva una paura esagerata, che la attanagliava fin nelle viscere. Non di aver colpito troppo forte la sua unica nipote, no: di avermi compromesso irrimediabilmente la mano. Non riusciva a non impazzire al pensiero di aver forse compromesso la mia carriera”. Lalage alzò gli occhi al cielo. Odiava piangere. Se vuoi piangere, piangi per la tua incapacità, diceva la nonna. “Più di tutto, si divertiva a tormentarmi a parole. O con i gesti. Te l’ho detto, non allungava quasi mai le mani, se non per fatti estremamente gravi. Ma se una mia esibizione non le piaceva, non importava quanto entusiasta fosse il pubblico, lei si alzava e se ne andava. Era orribile, vederla allontanarsi e uscire dalla sala. Era la prova inconfutabile che avevo fallito. Di nuovo”. Rise amaramente. Anche si sforzava, sentiva che le lacrime sarebbe emerse presto, insieme a tutto quel dolore nascosto. “Eppure amavo il violino. Amavo la musica. Anche se era lo strumento del mio supplizio, non potevo fare a meno di accarezzarlo con gli occhi. Lo trovavo semplicemente meraviglioso. E la sensazione che mi dava tenerlo fra mento e clavicola, adagiato sulla mia spalla…è indescrivibile”. Ormai piangeva a dirotto. Castiel si decise. Si alzò si avvicinò a lei e la abbracciò da dietro, curvandosi sulla poltrona, senza dire una parola. Fu come se non se ne fosse accorta.  “Poi, iniziò a stare male, un tumore. Peggiorò molto rapidamente. Forse, se guardi meglio, noterai che ha una maschera sulla bocca. Sotto i vestiti ha anche delle flebo. A volte, in casa, doveva respirare con l’ossigeno. Non usciva più molto spesso. Prendeva tonnellate di farmaci. Io ero quasi contenta. Potevo suonare senza di lei. Non mi faceva più lezione. Mi sentivo libera, e non riuscivo a crederci. Morì ad aprile dell’anno scorso. Quasi non me ne accorsi. Ricordo solo che pioveva, quando la accompagnammo al cimitero. Era tutto sospeso nel nulla. Poi, qualcosa si spezzò. Mi resi conto che nel bene o nel male, contavo su di lei. Mi identificavo in lei. Io ero Lalage, la nipote promettente della virtuosista Camille Chevalier, violinista di fama internazionale, vera e propria dea della musica. Ora che era morta, io chi ero? Cos’ero? Nulla”

“Inizio ad andare tutto storto. Non riuscivo quasi a prendere in mano il violino, dovevo forzarmi. Ogni volta che mi esercitavo, dopo andavo in bagno a vomitare. Era come se suonare mi desse la nausea, e un istintivo senso di smarrimento e paura. Era frustrante. Persi molto peso, ed ero già magra. I miei compagni di classe mi odiavano, perché per darmi la possibilità di sostenere tutti i miei impegni musicali gli insegnanti chiudevano un occhio su quelli scolastici. Mi lasciarono sola. Solo Laety e Kentin mi sostennero, ma non bastava più, mi sentivo comunque sola, completamente sola”
“Dovevo presentarmi a un concerto, un concorso prestigioso per giovani virtuosi. Ero l’ospite più attesa. Non chiusi occhio tutta la notte, mi buttai sullo strumento, anche se stavo male come un cane. Quando salii sul palco, anche i giudici si accorsero che qualcosa non andava. Suonai mezza pagina, poi svenni. Ricordo che Laety cacciò un urlo spaventato e corse verso il palco, mentre mio padre insieme a un direttore di sala mi portava dietro le quinte. Poi, più nulla”

“Mi risvegliai all’ospedale. I medici dissero ai miei genitori che ero pericolosamente sottopeso, e chiaramente sotto shock. Dissero che il diffuso malessere di quei mesi era un disturbo psicosomatico grave. Consigliarono di farmi cambiare aria”

“Non c’era più nulla a Parigi, per me. La notizia finì sui giornali. Le mie compagne erano esultanti, perché avevo dimostrato di poter fallire anch’io. Al Conservatorio erano imbarazzati. Non per me, DI me. Non mi ammisero nemmeno all’esame di passaggio. Sapevo che mi giudicavano. Per loro, era tutta colpa MIA”

“I miei allora decisero di mandarmi al Sud, da mia zia. Presero un appartamento, ma non potevano restare con me per il lavoro. Ci vivo con Zia Agatha, che si è temporaneamente trasferita. Che io sappia, torneranno tra sei mesi. Ma dopo anni che non ci sono mai, a casa, ho smesso di sperare e me ne faccio una ragione”.

Poi scoppiò. Castiel la strinse più forte, Lalage urlava, con tutto il fiato che aveva in corpo, afferrando con le mani i braccioli della poltrona.
“BRAVA? BRAVA?? BRAVA COSA?! NON SAPEVATE CHE FARE QUESTO, BATTERE LE MANI ALLA FINE, MA L’INFERNO CHE PASSAVO, QUELLO NON VI INTERESSAVA, VERO?? NON VE N’E' MAI IMPORTATO NIENTE, DI COME FOSSI ARRIVATA AD ESSERE COSI’. TUTTI VEDONO LA VIOLINISTA. MA LO SANNO COSA VUOL DIRE DOVER ESSERE LA MIGLIORE?? PERFETTA, PERFETTA, PERFETTA!! SONO STUFA DI DOVER ESSERE PERFETTA!! SONO STUFA, IPOCRITI SCHIFOSI!! SONO UNA NULLITA’, E ALLORA? PERCHE’ NON AVETE FATTO NIENTE, QUANDO ERO AL LIMITE?? PERCHE’ ?!?”. E scoppiò in singhiozzi, soffocandosi nelle lacrime. Castiel si chinò fino a che le loro guance si sfiorarono. Sentiva in quei singhiozzi i battiti di un cuore sfinito dal dolore. “Shhhhh” le disse, piano “piangi quanto vuoi. Va tutto bene ora. Nessuno vuole che tu sia perfetta”. Lei scosse la testa, ma Castiel la sentì adagiarsi più pesantemente a lui, cercando conforto. Avrebbe voluto fare qualcosa. Ma com’era lontano il mondo delle sue lacrime…

Fuori dalla finestra, le nuvole, sferzate dal Mistral, si erano nel frattempo sciolte in pianto.
   
 
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