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Autore: Adeia Di Elferas    01/05/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Clarice Orsini continuava a tossire da giorni, il suo corpo era sempre più esile e i medici parlavano di consunzione.
 Lorenzo Medici non riusciva a farsene una ragione. Stava al suo capezzale in ogni momento, trascurando anche gli affari di Stato.
 Il signore di Firenze credeva impossibile non poter far nulla per alleviare le pene di sua moglie. Avevano a corte i migliori dottori d'Italia, erano la culla della cultura mondiale eppure davanti alla malattia, nessuno sembrava in grado di fare nulla.
 Clarice, che era stata sempre una donna intelligentissima, dalle conoscenze pressoché illimitate, benché cocciutamente e inspiegabilmente religiosissima, ora languiva tra due guanciali, incapace persino di riconoscere suo marito.
 Lorenzo sentiva una ferita riaprirsi nel petto, quella stessa fenditura che si era formata alla morte del fratello Giuliano e che ora rischiava di tornare a sanguinare, come e più di prima.
 “Non lasciatemi solo...” sussurrava alla moglie, che, con gli occhi socchiusi, riusciva appena a rantola qualche parola senza senso.
 Si erano allontanati così tanto, dopo il matrimonio della loro figlia, Maddalena, con Franceschetto Cybo... Perché non erano riusciti a riconciliarsi, prima di quella che sarebbe stata una drammatica fine del loro matrimonio?
 “Non lasciarmi solo...” ripeteva Lorenzo, stringendo la mano fredda e sudata di Clarice, asciugandole la fronte e ripulendole gli angoli della bocca, quando, dopo aver tossito, compariva qualche rivolo di sangue.

 La notte si stagliava davanti agli strani strumenti dell'astrologo personale di Ludovico Sforza, prodiga di stelle e di intuizioni.
 Quella era una di quelle volte stellate che potevano essere interrogate su qualunque argomento, perché la loro ricchezza di risposte era pressoché infinita. Ecco perché il reggente del Duca di Milano si era recato lì, quella notte: per avere risposte ai suoi dubbi.
 “Ormai i tempi sono maturi – stava dicendo Ludovico, grattandosi la nuca – sono promessi da troppi anni e ormai Gian Galeazzo ha già diciannove anni, non si può più aspettare o Ferdinando d'Aragona penserà che mi sto prendendo gioco di lui...”
 L'astrologo di corte aveva già sentito quella frase troppe volte per credervi davvero, tuttavia quello che Ludovico disse poco dopo lo convinse che forse qualcosa era cambiato.
 “Ho sentito dire troppo spesso, ultimamente, che io mi atteggio come Duca e che mio nipote non è nemmeno libero di sposarsi...” fece Ludovico, schiacciando una zanzara che gli si era appena appoggiata sul dorso della mano: “Da questo a organizzare una congiura contro di me manca molto poco... Se penso a com'è morto mio fratello Galeazzo Maria...”
 L'astrologo rispettò il momento di pensieroso silenzio in cui si era chiuso il reggente del Duca, ma poi chiese: “Cosa volete sapere, esattamente, mio signore?”
 Ludovico sospirò, volgendo lo sguardo alla volta stellata: “Ditemi la data più prossima in cui sia opportuno celebrare le nozze tra mio nipote e Isabella d'Aragona.”
 L'astrologo annuì e cominciò a guardare attraverso le sue lenti. In realtà, non stava dando peso a quel che vedeva in cielo. Era molto più catturato dai propri pensieri. Doveva interpretare non tanto i segni del cielo, quando i segnali del suo signore.
 Aveva imparato che il Moro, come lo chiamavano ormai tutti, apprezzava solo le risposte che ricalcavano precisamente i suoi desideri inespressi. Dato che era lui a pagargli lo stipendio, tanto valeva accontentarlo.
 “In dicembre, mio signore. Anche per procura, basta che le nozze si consumino entro febbraio.” fece l'astrologo, sperando di aver detto delle date abbastanza vicine e sufficientemente lontane.
 Ludovico annuì, sporgendo in fuori le labbra e poggiandosi le mani sul ventre che principiava a farsi prominente: “E invece...” sospirò: “Per le mie nozze? Cosa dite, per me?”
 L'astrologo si sentì molto più in difficoltà. Sapeva che Ludovico voleva conoscere Beatrice d'Este, la sua futura sposa, ed era anche a conoscenza delle sottili mosse politiche che quel matrimonio avrebbe sottinteso. Tuttavia era stato anche messo a parte di una spiacevole missiva giunta da Ercole d'Este, con cui si pregava – o meglio, si costringeva – Ludovico ad allontanare da corte la sua amante, Cecilia Gallerani, nel momento stesso in cui Beatrice avrebbe messo piede a Milano.
 Il Moro aveva per la sua amante una passione smodata e quel cavillo matrimoniale era il vero freno che gli aveva impedito fino a quel giorno di procedere con le nozze, anche solo con quello per procura.
 “Direi... Gennaio...” iniziò cauto l'astrologo, ma quando vide una smorfia prendere forma sul largo volto del suo signore, aggiustò il tiro: “Gennaio non dell'anno venturo, ma di quello dopo ancora.”
 Il Moro strinse gli occhi verso il cielo e chiese il motivo di quella data. L'astrologo, allora, si esibì in un elenco di pianeti e costellazioni, parlando volutamente con parole complesse e con frasi lunghissime e di difficile interpretazione.
 Alla fine, Ludovico lo fece smettere con un cenno del capo e concluse: “Se è quello che vogliono le stelle...”

 Il 30 luglio, finalmente, arrivarono quasi in contemporanea sia a Forlì sia a Imola i documenti che sancivano definitivamente la legittimità di Ottaviano come nuovo signore di quelle città.
 “Si faccia festa grande!” esultò il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, ordinando subito che per quella sera venisse messo in piedi un banchetto e si permettesse alla città di far festa fino al mattino seguente.
 Era incredibilmente sollevato da quella notizia. Fino a quel giorno si era trattenuto a Imola con i figli del cugino soprattutto perché temeva in qualche rappresaglia nei suoi confronti, se fosse tornato a Roma. Finché il papa non si fosse apertamente dichiarato favorevole al nuovo Conte, Raffaele rischiava di essere tacciato di tradimento, perché aveva appoggiato la parte sbagliata.
 Quei fogli di pergamena cambiavano tutto.
 Appena finiti i festeggiamenti, sarebbe ripartito e sarebbe potuto tornare a vivere servito e riverito alla corte di Roma...!
 Ottaviano prese la notizia con un certo distacco. Per quanto morisse dalla voglia di ricevere il titolo che era di suo padre, temeva il futuro e quello che sua madre avrebbe detto e fatto.
 Lo preoccupava pensare che lei lo avrebbe trovato inadeguato, incapace... Ricordava anche troppo bene le litigate che sua madre faceva con suo padre. Ora era lui al posto di suo padre, dunque quei litigi sarebbero toccati a lui, adesso?
 “Alziamo i calici!” esclamò quel giorno, durante il pranzo, il Cardinale Sansoni Riario: “Festeggiamo tutti il nuovo Conte! Lunga vita al Conte Sforza Riario!”
 La sala del palazzo di Imola scoppiò in grida di gioia e allegria e Ottaviano si lasciò trascinare da quell'aria di festa, pensando che, forse, sua madre lo avrebbe amato di più, se avesse avuto modo di vederlo all'opera.
 Aveva solo nove anni, ma a detta dei suoi precettori era molto sveglio. Non era bravo con la spada né con le altre armi, ma sapeva quel che c'era da sapere sulla matematica e sulla politica.
 'Alla fine sarai fiera di me', pensava, alzando a sua volta il bicchiere e sorridendo alle persone che inneggiavano al suo nome.

 Lorenzo Medici sentì il polso della moglie farsi sempre più debole e il suo respiro rantolante perdere di ritmo.
 Non voleva crederci. In quel meraviglioso giorno di fine luglio, il 30, se non aveva del tutto perso il senso del tempo, non si poteva morire...
 Il sole era ancora alto, malgrado la sera si stesse avvicinando e di certo l'Arno stava luccicando come un lastricato d'argento. Quanto avrebbe voluto portare Clarice sulle sponde del fiume per farle vedere quello spettacolo che tanto l'aveva incantata la prima volta che era stata a Firenze...
 Il dottore di corte e il prete che era giunto quella mattina per l'estrema unzione stavano in un angolo della stanza, muti e mesti, decisi a non disturbare Lorenzo in quel momento tanto delicato.
 Non lo avevano mai visto così, tutto gobbo, dolorante, preda di un pianto silenzioso che lo scuoteva senza tregua ormai da ore.
 Lo chiamavano tutti 'il Magnifico', ma se lo avessero visto in quel momento...
 La mano di Clarice ebbe un piccolo spasmo e il suo respiro si fermò inaspettatamente, i suoi occhi si aprirono un istante e poi il suo corpo si rilassò tutto d'un colpo.
 Lorenzo capì subito quel che era accaduto, ma la realtà era così terribile che per qualche minuto ancora restò chino su di lei, stringendole la mano e scuotendo il capo.
 Quando finalmente il dottore e il prete gli si avvicinarono e lo convinsero a lasciare andare il corpo senza vita di Clarice, Lorenzo si sentì invecchiato di vent'anni in un istante e si chiese a cosa mai servisse vivere, se bastava tanto poco per morire.

 A Forlì i festeggiamenti continuarono per tutto il giorno, senza tregua. Per le strade della città venivano intonati canti e motti in favore non solo di Ottaviano, ma anche della Contessa, perché per molti quella era una vittoria della Tigre, più che del piccolo Conte.
 Caterina aveva predisposto affinché Savelli venisse rilasciato e allontanato subito da Forlì, con l'ordine di non farsi mai più vedere in città.
 Non l'aveva voluto incontrare, certa che rivederlo le avrebbe solo fatto tornare la voglia di metterlo in cella e buttare la chiave.
 Nel corso della giornata erano giunte in città altre due notizie che sembravano segni in favore degli Sforza. Prima di tutto l'ambasciatore milanese aveva informato Caterina della capitolazione di Genova.
 “Restano solo poche famiglie a opporsi, ma di fatto Genova è caduta sotto il dominio di Milano.” aveva spiegato l'ambasciatore, senza nascondere la propria gioia.
 “Quali famiglie sono rimaste contro Milano?” aveva chiesto Caterina.
 “I Fieschi, gli Adorno e i Fregoso.” aveva risposto subito l'uomo, che non vedeva l'ora di dare anche l'altra buona notizia.
 “Anche i Fregoso?” aveva domandato la Contessa, con il pensiero che correva a sua sorella Chiara.
 L'ambasciatore annuì, ma lasciò cadere l'argomento, passando oltre: “E poi sono finalmente state fissate le date delle nozze di vostro fratello Gian Galeazzo. Avverranno per procura in dicembre e poi la cerimonia ufficiale sarà a Milano, in febbraio.”
 Caterina si era detto felice per suo fratello, ma in realtà stava ancora pensando a sua sorella Chiara, chiedendosi come stesse affrontando quel momento così difficile che la vedeva tra l'incudine e il martello. Chi avrebbe scelto? Il marito o lo zio?
 In serata si erano tenuti banchetti un po' ovunque, con tavolate improvvisate in mezzo alle strade e saltimbanchi e musici che si esibivano a ogni angolo.
 I giochi con il fuoco e quelli di giocoleria avevano riempito la serata e anche alla rocca il clima era elettrico.
 Caterina aveva cercato di accontentare tutti, presenziando, anche se per poco, a ogni festa e a ogni spettacolo, promettendo a destra e a manca che presto anche le ultime gabelle sarebbero state tolte e che, col la partenza del Cardine Sansoni Riario, tutto sarebbe tornato definitivamente alla normalità.
 Era sicura che Raffaele sarebbe ripartito presto, ora che il papa si era schierato in loro favore.
 Mentre ancora Forlì folleggiava tra musiche e risate, Caterina rientrò alla rocca per andare a riposare.
 Avrebbe voluto avere al suo fianco Ottaviano. Quello sarebbe stato un momento da condividere, tuttavia era felice che suo figlio fosse andato a Imola coi suoi fratelli. La questione di Faenza l'aveva agitata parecchio e sapere i figli al sicuro le aveva permesso una lucidità maggiore nel riorganizzare lo Stato.
 Mentre attraversava la rocca fino a giungere nelle sue stanze, si imbatté in alcune guardie un po' alticce, che la salutarono con fervore e le chiesero di unirsi a loro per una partita ai dadi. Dicevano di essersi messi d'accordo con gli stallieri e gli artiglieri per giocare fino all'alba. Caterina ricambiò i saluti, ma declinò la proposta. Temeva di imbattersi in Giacomo Feo, se avesse partecipato.
 Così i soldati la lasciarono andare con qualche ultimo motteggio e sparirono verso le stalle.
 Caterina raggiunse in fretta le sue stanze, chiudendosi dentro, per resistere alla tentazione di cambiare idea e unirsi ai giocatori.
 Il clima di festa che aveva acceso la giornata avrebbe rischiato di farle commettere qualche leggerezza. Per quanto fosse attratta da quel diciassettenne, non voleva ceder in alcun modo.
 Se fosse stata un uomo, nessuno le avrebbe fatto una colpa per quel sentimento nei confronti di qualcuno che le era inferiore come status e più giovane d'età... Ma lei era una donna e non le avrebbero mai perdonato una cosa del genere. Sarebbe stato uno scandalo che avrebbe messo a repentaglio il suo governo.
 'Eppure...' pensò Caterina, sedendosi sul letto: 'Io devo fare qualcosa o finirò a odiarlo per averlo desiderato troppo...'

 Giacomo Feo continuava a guardare verso la porta della saletta, sicuro che prima o poi la Contessa sarebbe entrata.
 Aveva accettato l'invito degli altri stallieri solo nella speranza di poterla rivedere. Aveva sentito dire che fin da bambina giocava spesso ai dadi coi soldati, dunque perché mai avrebbe dovuto tirarsi indietro proprio quella volta?
 Da quando si erano baciati, lo aveva sfuggito ancora più di prima, impedendogli in qualunque modo di avvicinarla, anche solo per caso.
 Così, quando Tommaso gli aveva detto se gli andava di giocare un po' ai dadi, Giacomo aveva subito detto di sì, ben disposto a sorbirsi un gioco che detestava, se gli avesse permesso davvero di passare una notte nella stessa stanza della Contessa.
 “Tocca a voi...” fece una delle guardie, allungando i dadi a Giacomo, che, distratto, non se ne avvide.
 “Lasciatelo perdere...” fece uno degli stallieri: “Quello non ci sta con la testa. Tiro io.” e prese i dadi dalle mani della guardia.
 Giacomo teneva ancora gli occhi contro la porta, tanto insistentemente che alla fine uno degli artiglieri gli chiese: “Ma chi aspettate, stalliere Feo?”
 Tommaso sentì quella domanda e guardò il fratello, colto da un dubbio improvviso.
 Giacomo alzò le spalle e concluse: “Nessuno.”
 “Non si direbbe...” controbatté l'artigliere.
 “Mi spiace molto – fece una guardia, appena entrata nella sala assieme ad un paio di commilitoni – ma abbiamo appena incontrato la Contessa e ha detto che preferiva ritirarsi, per stanotte.”
 Molti si dissero rammaricati, ma alla fine tutti quanti tornarono a concentrarsi sulla partita.
 Solo Giacomo non accennava a riprendersi dalla delusione. Tommaso mosse mezzo passo verso di lui, ma proprio in quel momento gli passarono i dadi, incitandolo a fare un 'tiro buono, una volta tanto'.
 Così Tommaso si concentrò sul gioco, perdendo di vista Giacomo che, ignorato da tutti, sgattaiolò fuori dalla sala.

   
 
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