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Autore: Feathers    05/05/2016    3 recensioni
/Cockles Au in Russia!/
Dopo che la sua vita cambia per sempre a causa di una matrioska, Jensen Ackles è costretto a vivere nella Russia del 1955, un'epoca difficile per un americano moderno. Per fortuna, un affascinante e misterioso scrittore di nome Misha Krushnic decide di ospitarlo nel suo appartamento al centro di Mosca. Cosa succederebbe se la loro iniziale diffidenza si trasformasse in una passione incontenibile?
Questa è la storia di un amore clandestino, di quelli tanto intensi da sembrare irreali, ma continuamente messo in grave pericolo dall'omofobia della Russia Sovietica. Riusciranno i due ad uscire dalla terribile situazione in cui si trovano ed a stare insieme senza rischiare la vita?
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Jensen Ackles, Misha Collins
Note: AU, Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Hello good people! Dopo questo capitolo mi odierete a morte... dunque sedetevi comodi e poi leggete!
In collaborazione con la mia prof di storia che mi fornisce le info... ecco a voi lo sfogo delle mie vecchie sofferenze. Vvb e buona lettura<3

 
                   Sevvostlag



Accadde tutto così in fretta che a stento riuscivo a ricostruire nella mia mente i fatti, le parole, le immagini in ordine cronologico.

Non ci volle molto tempo trascorso in quel piccolo treno per giungere al gulag, ma probabilmente fu una mia impressione causata dallo dallo sconvolgimento.

Io e Misha eravamo stati trovati, portati via dal nostro esiguo rifugio come degli animali senza dignità - trascinati a peso in un luogo che non avrei mai pensato di dover conoscere.

Non riuscivo assolutamente a capacitarmi dell'orrenda realtà della situazione, nemmeno sbirciando Misha sul sedile di fronte al mio. Teneva il capo basso, segno tipico di quando aveva paura, e gli occhi ormai spenti fissi sulle manette. Il suo trench beige era spiegazzato sui polsi, e gli copriva a stento le ginocchia. Non avevo idea di cosa gli stesse passando per la testa durante quella terribile attesa, ma l'unica cosa certa era che non sarebbe mai più stato lo stesso.

Io alternavo lo sguardo fra il paesaggio notturno che correva fuori dal finestrino e sembrava fuggisse, Misha, e quei visi freddi ed ostili che ci tenevano d'occhio e ci osservavano da un angolo della cuccetta. Percepivo da parte loro un astio, un odio infinito, inspiegabile. Un disgusto per ciò che eravamo, per i sentimenti che provavamo l'uno per l'altro. Mi chiedevo con quale scopo venissero a cercare gli omosessuali - in fondo a loro non sarebbe cambiato nulla se un uomo avesse fatto l'amore con un altro uomo. Da americano del ventunesimo secolo, non mi capacitavo quasi di essere stato arrestato per un motivo del genere, eppure era la cruda realtà.

Inoltre, non riuscivo a comprendere se il silenzio che aleggiava in quel treno avrebbe dovuto rassicurarmi o farmi stare ancora più in tensione.

Misha alzò appena il collo, cambiando posizione per la prima volta dopo tutte quelle ore ed attirando la mia attenzione, la fronte corrugata sotto i ciuffi di capelli scuri che gli ricadevano sul viso. Si morse nervosamente le labbra.

Notai che evitava il mio sguardo come la peste, anche se per un nanosecondo. Credeva di sicuro che ce l'avessi con lui.

Intanto, il dolore all'osso rotto ed alla testa mi impedivano in parte di ragionare con lucidità. Le manette non mi permettevano di tenere il braccio adeguatamente. Ero più o meno consapevole di cosa mi aspettasse, eppure mi sentivo quasi senza emozioni, come apatico.

Prima dell'arrivo, la mia fantasia sconfinata aveva disegnato una sorta di campo di concentramento grigio che odorava di polvere, un posto tetro e brulicante di minatori ridotti a degli scheletri.

Inutile dire che ciò che avrebbero visto i miei occhi era qualcosa di mille volte peggiore.

La vettura si fermò bruscamente. Guardai di sfuggita l'orologio da polso di uno di quei tizi. Le sei e mezzo del mattino.

Uscimmo dal treno - ci buttarono fuori da esso, spingendoci con violenza, trascinandoci per le manette che ci raschiavano i polsi. Trattenni dei gemiti di dolore acuto alla frattura.

Misha mi aveva sussurrato qualcosa - qualcosa che non ero riuscito a sentire, dato che l'aveva detta con voce fioca, guardandomi inespressivo e poi girandosi subito dopo uno strattone di quelli.

Li avrei uccisi, li avrei uccisi tutti con le mie mani se solo avessi avuto la possibilità di farlo. Era un istinto naturale che prendeva il sopravvento in me ogni volta che facevano qualcosa a Misha.

Ci condussero verso una stanzetta scura, e ci rivolsero varie domande - Misha rispose per me ogni volta.

Io lo fissavo addolorato, la schiena schiacciata al muro, mentre Misha pronunciava quelle frasi stentate, l'accento russo storpiato che i mille sospiri rendevano ancor meno comprensibile. Non capivo quasi nulla di quel che si dicevano, ma i toni e le espressioni facciali di quei bastardi in uniforme lasciavano intendere ogni cosa.

Ci fecero uscire, ci perquisirono dalla testa ai piedi, ci pesarono.

Occhi chiusi, come per scacciare tutto quell'orrore che stava per avvenire. Pugni serrati.

'È solo un sogno, Jensen... è solo un terribile incubo. Ora ti sveglierai. Ti sveglierai sudato e tremante, atterrito, ma poi vedrai la sua stanza, vedrai lui... sentirai il suo profumo, la sua voce soave e roca allo stesso tempo. E capirai che in realtà sei a casa, che Misha non si è mai allontanato da te, che hai fatto un lungo, terribile sogno. Ci riderai su. Ci riderete su, e Misha ti prenderà in giro perché 'sei sempre troppo pauroso ed ansioso', perché credi di vedere il futuro, mentre invece ti sbagli, perché lo ami talmente tanto che preferiresti morire piuttosto che perderlo. Vi alzerete dal letto, vi avvolgerete delle coperte addosso per attenuare i brividi e farete colazione al buio, nascosti, al sicuro e al caldo come sempre. A casa.'

Questi pensieri positivi affollarono la mia mente per non molto, per poi lasciare il posto ad una sensazione di angoscia e terrore.

Non mi svegliai mai.

Non vidi nulla di bello o di rassicurante dopo le ispezioni; solo sguardi schifati, solo sofferenza.

Non sentii la risata melodiosa di Misha; solo urla, frastuono, frasi in russo del nord, colpi di legna spaccata che venivano da fuori.

I gulag somigliavano decisamente ai campi nazisti; distinsi un piccolo gruppo di detenuti che erano appena stati arrestati, e si agitavano in un modo che faceva venire i brividi. Era più che evidente che erano nuovi - non erano pelle ed ossa come gli altri.

Guardai Misha di soppiatto,  battendo i denti per il freddo. Capii subito cosa pensava in quell'istante, e mi andò il sangue alla testa.

'Non pensarci. Non pensarci nemmeno. Peggiora le cose.' mi dissi mentre venivo strattonato via assieme a Misha.

Quando mi afferrarono per il polso buono - fu un caso che fosse quello buono, non gliene fregava più di tanto - e mi separarono da Misha non riuscii nemmeno a pensare a qualcosa di concreto.

Già non ero più io.

E Misha non era più lui, ancor prima di iniziare quel calvario. Lo vedevo nei suoi occhi blu spaventati che lo facevano sembrare un bambino, lo percepivo - e mi faceva male. Il terrore ed il senso di colpa l'avevano trasformato.

'Non perdere quella scintilla, amore mio... non perderla mai.' Pregai mentalmente, guardandolo da lontano. Le guardie mi stringevano le spalle, tenendomi fermo dov'ero.

Stavano portando Misha chissà dove, mentre io mi divincolavo per raggiungerlo e venivo automaticamente riportato indietro da uno di quelli. Mi sentii impazzire.

"Stai fermo, figlio di puttana!" mi urlò uno di quelli con quell'inglese stentato, mentre io cadevo a terra, il palmo che premeva sul braccio.

Strinsi le palpebre. Mi sentii prendere per il colletto e sollevare con poca grazia da terra. "Cammina, disgraziato. Hai un braccio rotto, non una gamba rotta." ruggì quello nel mio orecchio. Tenni gli occhi chiusi per un secondo e poi li spalancai. Volevo dargli un pugno in pieno volto, ma cambiai idea non appena mi ricordai del posto in cui ero. Non avevo alcun potere lì, ma nonostante ciò ringhiai con fare minaccioso: "Dov'è lui!?"

La guardia mi incenerì con quegli occhi color ghiaccio. "È proprio dove andrai tu dopo che ti sarà passato questo. Entra e basta." disse, deciso; il suo pallido viso arrossì inspiegabilmente. Mi indicò la porta di un lungo edificio color ruggine dal tetto basso.

Io rimasi rigido, gli occhi che vagavano disorientati per il campo, esploravano i dintorni, il palmo premuto sul braccio come se avesse potuto calmare il fastidio.

Vedendo che io non mi muovevo da dov'ero, la guardia mi prese per i fianchi facendosi aiutare dal suo collega, e mi spinse con violenza verso la porta, lasciandomi quasi scivolare dentro quel padiglione semivuoto. Io mi aggrappai al muro grigio. Un dolore indescrivibile dall'omero mi strappò un patetico gemito.

Fissai le celle luride, i detenuti poco vestiti ed accasciati su sé stessi sul pavimento, e quella specie di infermeria con poco riguardo per i pazienti. Dei feriti del lavoro. Queste erano le prime cose che avevo messo a fuoco, in quel modo offuscato e confuso in cui si vedono le cose quando si è agitati. Il cuore mi stava per esplodere in petto.

Osai voltarmi verso l'uscita per un ultima volta, ma gli occhi della guardia mi suggerirono di non provare nemmeno a varcarla, per cui preferii mettermi faticosamente in fila con gli altri.

Quando fu il mio turno, un uomo pelato mi fasciò frettolosamente il braccio, tenendomi fermo il bicipite; poi fui rinchiuso fra quelle sbarre d'acciaio.

Mi accartocciai su me stesso come una foglia secca, la mente ingombra di pensieri. Il freddo era l'unica compagnia in quella stanza stretta - se si poteva chiamare stanza. Non c'era assolutamente nulla all'interno. Io ero l'unico corpo che la riempiva. 

Sapevo che quando sarei guarito mi avrebbero costretto a tagliare la legna, esposto al gelo della Siberia. Non avevo quasi nulla di adatto a quel clima addosso, e tremavo violentemente di freddo già dentro quella schifo di cella, eppure avrei dato qualunque cosa pur di rivedere Misha, pur di sapere che stava bene, che non gli avevano fatto nulla.

Non riuscivo a non pensare a lui. Avevo in mente solo il mio uomo che doveva starne passando di tutti i colori, mentre io me me stavo lì con le mani in mano, e non potevo fare nulla per impedirlo. L'impotenza era la peggior sensazione che avessi mai provato, il non poter salvare la persona che amavo dalle grinfie di quei mostri.

Intanto, come se non bastasse la mia fervida immaginazione, ogni giorno vedevo continuamente passare detenuti in condizioni penose; alcuni non parlavano nemmeno più, tremavano tutto il tempo, traumatizzati o infreddoliti.

Uscivo di rado da quel posto - ero costantemente sotto osservazione - e mangiavo crusca o pane vecchio.

Una volta fui perfino costretto ad assistere ad una violenza sessuale nei confronti di un uomo gay. L'avevano sbattuto al muro, l'avevano spogliato e l'avevano stuprato senza un minimo di pietà, tenendolo fermo in tre come se già non fosse abbastanza scarnito da essere facilmente dominato da una sola persona. Mi veniva la pelle d'oca solo a sentire le sue urla strazianti, ed ero terrorizzato all'idea che potessero fare qualcosa del genere a Misha.

Così mi ero accovacciato al contrario nella cella, dando loro le spalle, con l'unico fine di risparmiarmi quella scena tremenda.

Mi passai le dita del braccio non fasciato sulla fronte.

Misha. Ormai era più di una settimana che non lo vedevo, ed avevo l'impressione di dover morire di crepacuore ogni volta che mi svegliavo - le rarissime volte che mi addormentavo per un paio di ore.

Non avevo idea di cosa gli stesse succedendo. Era stato lui a spiegare a quel bastardo che ci aveva portati lì che avevo il braccio rotto. L'aveva detto precipitosamente, le lacrime agli occhi. Era stata una delle poche frasi che avevo capito di quel discorso. Misha aveva cercato in tutti i modi salvare me innanzitutto, anziché sé stesso, e da quel momento mi ero davvero reso conto di quanto mi amasse.

Per la prima volta dopo nove giorni che ci trovavamo lì, delle lacrime bollenti mi rigarono il volto sporco e scesero a bagnare la sciarpa strappata di Misha. La strinsi.

Nel frattempo, un tizio stava per essere frustato nella cella di fronte alla mia. Chissà poi perché. Perché non aveva aderito al partito comunista, perché era omosessuale, perché secondo loro meritava di essere trattato in quel modo. Non importava perché. Un uomo, un figlio, forse un padre di qualcuno stava per essere torturato crudelmente. Nessun rimpianto, nessun dispiacere. Li facevano a pezzi brano a brano, sia i loro corpi sia le loro anime, finché non restava più nulla dei vecchi loro.

Spesso mi soffermavo a fissare la prima guardia che mi aveva fatto entrare là dentro, quel biondo dagli occhi cerulei di circa trent'anni che sembrava eseguire degli ordini meccanici; non diceva quasi mai una parola - l'unica volta che avevo sentito la sua voce era stato il primo giorno. Si muoveva come se fosse stato un robot telecomandato. Non era una persona. Non c'era alcuna umanità nel suo viso rigido, né in lui.

Fu proprio questa guardia a portare indietro Misha, un paio di giorni dopo. Lo trascinò vicino alla mia cella, e lui afferrò una sbarra col palmo, rivolgendomi uno sguardo disperato. Quasi non lo riconobbi. "Jensen... " mormorò piano, ansimando, gli occhi ingrigiti. Non aveva più voce.

Strabuzzai gli occhi, e mi alzai di scatto dalla mia posizione fetale, barcollando. Misha pareva già dimagrito.

"Misha?" Erano giorni che non pronunciavo quel nome.

La guardia ci fissò per un attimo, sbattendo gli occhi inespressivi, e poi disse solo un secco: "Tacete." senza quasi muovere la linea dritta che aveva al posto delle labbra.

"Che cos'hai?" chiesi a Misha, senza dare conto alla guardia. Gli sfiorai la mano, e provai la scossa elettrica della prima volta che aveva intrecciato le dita alle mie.

'Distruggerete tutto di me, ma mai quello che provo per lui.' pensai.

"Mi sono ferit-" tentò di dire Mish, ma la guardia sbuffò e lo portò via, in fondo al corridoio, in una delle ultime celle.

"Misha!" urlai con la poca voce che mi era rimasta in gola.

"Tappati la bocca!" mi gridò quello da lontano.

Mi zittii, e mi coprii la testa con i palmi graffiati. "Dio mio." mugolai. Ero nervoso, distrutto, rabbioso, ed avevo fame. Non avevo mangiato quasi nulla per una settimana.

Ma soprattutto avevo bisogno di Misha, un bisogno assoluto di sfiorare la sua pelle di nuovo. Mi aveva fatto sentire vivo.

Quella stessa notte mi affacciai tra le sbarre, mentre tutti dormivano; la guardia stava fumando qualcosa di fronte a me, una bottiglia di vodka mezza vuota in bilico sulla mano destra.

Tossii per attirare la sua attenzione. Lui si girò di colpo, e mi squadrò dall'alto in basso. Il suo viso non mutò per nulla.

"Hey... " sibilai.

"Niet." mi disse quello subito, e fece un tiro, contraendo le labbra sottili. Fece un anello di fumo e bevve un sorso di vodka.

Strisciai a terra, avvicinandomi un po' di più. "C-cosa?" chiesi.

Lui si girò di nuovo, pigramente, la sigaretta penzolava dalla sua bocca. Mi lanciò un'occhiataccia. "Ho detto... no." scandì.

Stetti ad osservarlo per vari minuti, tacendo, stringendo la sbarra fino a farmi venire le nocche bianche. Ero consapevole del fatto che si sentisse osservato e che prima o poi avrebbe reagito. Ma era talmente statuario da farmi incazzare a morte.

"No a cosa?" domandai, il tono neutro.

Lui roteò gli occhi. "A qualunque cosa tu stia per chiedermi, Jensen Ross Ackles. Non ti accontenterò mai. Non posso." sussurrò, freddamente.

Rabbrividii, ed abbassai il capo.

"Sta... sta male... " dissi, come un'affermazione che in realtà era una domanda.

Lui sospirò stancamente, e finì la bottiglia di vodka. Giocò con la brace della sigaretta.

"Chi? Krushnich, dici?" Si limitò a fare spallucce con fare superficiale.

Io deglutii, con l'espressione più supplichevole che conoscevo. "Ha q-qualcosa di rotto?"

La guardia schiacciò la cicca della sigaretta con la punta dello stivale, come per sfogo. "È probabile. È-" disse. La sua voce fece eco là dentro.

Ridussi gli occhi a fessura.

"È... cosa?"

Stava per dirmi qualcosa che alla fine aveva preferito tenersi per sé.

"È caduto da un burrone," rispose lui tutto d'un fiato.

Io chiusi gli occhi. Riuscivo a sentire il respiro ritmato dei detenuti che dormivano, agitandosi nel sonno, ogni tanto mugolando il nome di qualcuno.

"Sta... sta morendo... " mi uscì dalle labbra, come un suono sordo, scricchiolante. Mi bruciava la gola come se avessi urlato inutilmente per ore.

La guardia mi fissò. Forse non era così, ma mi parse di vedere quegli occhi così gelidi velarsi. Parevano due iceberg sciolti. "Da." Distolse immediatamente lo sguardo.

Rimasi immobile, la gamba che iniziava a formicolare sotto il peso del mio corpo.

No.

"...me lo faccia vedere, allora... " dissi, senza respirare.

Lui sbatté le palpebre. Tacque.

"Prima che lui muoia... devo dirgli una cosa estremamente importante... la prego... me lo faccia vedere... " mormorai. Stavo piangendo di nuovo. Ancora. "La... la prego... "

Odiavo comportarmi in quel modo, ma non potevo farne a meno. Aveva lui il coltello dalla parte del manico.

La guardia si alzò dalla seggiola malridotta. "Mi pare di essere stato abbastanza chiaro. Non posso fare nulla per te. Mi dispiace. Dobriy viecher." Mi lanciò qualcosa dentro la cella che all'inizio non distinsi nel buio, ed uscì.

Era un pezzo di pane di fronte a me. Lo afferrai di scatto, tastando la mollica tiepida, e feci per portarlo alla bocca. Ma poi un pensiero mi fulminò.

Mi affacciai attraverso le sbarre strette. Non riuscivo a vedere Misha. Doveva trovarsi in fondo.

Volevo dargli il mio pane - desideravo salvarlo a tutti i costi, fosse stata l'ultima cosa che facevo.

"Misha... " chiamai piano. Niente. "Misha... "

"J-Jensen... " mi parve di udire. Spalancai gli occhi e tesi l'orecchio.

"Sei sveglio... dove sei?"

"Due celle più avanti." mi disse la sua voce. "La mia gamba... io... "

"Cosa è successo? Dimmelo."

"Sono caduto. Sono troppo debole... ma sto bene, Jens. Sto bene."

"Non è vero... "

Silenzio.

"È vero. Mi riprenderò. Devo solo riposare." Sentii un fruscio di stoffa sul pavimento ruvido. Non era così lontano, constatai. Mi leccai le labbra e scrocchiai il collo.

"Misha... mi hanno detto che-"

"L'ho sentito; fingevo di dormire, come faccio d'abitudine. Cazzate."

"Mi dispiace... " mormorai. "Ascolta... devi rimetterti in forze... hai bisogno di mangiare... prendi."

"Che... che cosa devo prendere?"

"Il pane che mi hanno dato."

"No," disse secco Misha. "Nemmeno per scherzo. Mangialo tu e basta. L'hanno d-dato a te."

"E a me non me ne frega un cazzo." Mi sporsi di più. Uscii il braccio, stringendo forte la mollica biancastra. Stavo morendo di fame. Il mio stomaco urlava. Ma salvare Misha era la cosa che contava di più.

Guardai alla mia destra.

"Due celle più avanti." ripetei fra me e me, come per studiare la distanza.

"Jensen... n-non ti azzardare a-"

"Tu non ti azzardare a rifiutarlo." replicai, deciso. "Avvicinati alle sbarre, Misha." aggiunsi.

Un detenuto si rigirò sul suolo, grugnendo.

Altri fruscii confusi.

"Mangiane almeno metà." mi implorò Misha.

"No. Tu sei molto più grave di me. Io sono okay... a parte il braccio... e... ed il freddo."

Allungai le dita, pronto a lanciare il tozzo di pane. Tre metri all'incirca. Ce la dovevo fare per forza. Sospirai, presi la mira e feci scattare il polso. Il pane rotolò accanto alla sua cella, proprio di fronte alla prima sbarra. Aspettai, gli occhi fissi lì.

La sua mano lo prese e lo introdusse dentro la cella. Sorrisi di sollievo.

"Sei completamente pazzo, lo sai? Grazie." Questa fu la sua risposta, il tono di rimprovero, ma con una punta di dolcezza alla fine della frase.

"Ti amo." sussurrai, ma poi udii dei passi pesanti e mi ammutolii del tutto.

Tornai alla posizione di prima, tremando. Il freddo mi congelava le ossa, in particolare quello rotto. Trattenni il respiro ed appoggiai la testa alla parete.

Mi addormentai dopo un paio di ore, senza più pensare a nulla.

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Un rumore secco, metallico. Qualcuno che bussava. Non lo stavo sognando - era vero.

Aprii un occhio, e mi strofinai l'altro. "Chi... chi è?" Mi rigirai, ancora avvolto da una patina di sonno.

"Sbrigati."

"Chi-"

"Sshh! Sbrigati. Alzati." Non conoscevo quella voce autoritaria, non mi era familiare, ma poi lo misi lentamente a fuoco. Era la guardia.

Schiusi le labbra sanguinanti per il freddo. "C-cosa... ?"

Sentii delle chiavi tintinnare dalle sue dita. "Porca troia, muovi il culo. Vuoi vederlo sì o no?" mi domandò, sgarbato.

Aprii gli occhi e mi alzai di scatto tanto che mi girò la testa per vari secondi, lo stomaco contratto. "Sì," dissi stupito dal suo gesto, annuendo. "Certo."

La guardia mi fissò; introdusse cautamente la chiave nella serratura, guardandosi attorno.

"Non ti provare a fare rumore... altrimenti sono fottuto io, e poi lo sei anche tu."

Feci un frettoloso segno l'assenso, abbassando il capo, e fui liberato da quella piccola prigione.

Camminai al fianco di quel tizio fino a raggiungere la sua cella, finalmente entrando nel suo raggio visivo.

Eccolo lì.

Misha era magro, scarmigliato, coperto da poca stoffa; la barba gli era cresciuta. La gamba sinistra era evidentemente rotta, l'ematoma visibile attraverso gli strappi sui pantaloni.

Mi fece una tenerezza immensa in quelle condizioni.

"Amore... " sibilai.

Dovetti trattenermi dall'urlare di rabbia per quello che dovevano avergli fatto passare in mezzo mese.

La guardia si portò un indice sulla bocca, dicendomi così di tacere. Io strinsi le labbra rimanendo in apnea, come se un semplice sospiro avesse potuto svegliare tutti.

La guardia aprì la cella di Misha, e mi lasciò entrare lì.

Io mi gettai quasi a terra accanto alle sue ginocchia. Strisciai lì accanto, abbassando la testa, toccandogli il petto gonfio. Le sue labbra costantemente screpolate dal freddo ed il viso rilassato mi trasmisero calma, come se Misha stesse riposando a casa e non sul pavimento sporco di un carcere.

Avvolsi dolcemente la sua vita con un braccio, avvicinai il mio viso al suo in modo da sentire se respirava ancora.

Respirava.

"Oh, grazie a Dio." sussurrai a bassa voce. Gli scostai i capelli dal viso cosparso di fuliggine, e gli baciai l'angolo della bocca, circondandogli la mascella con le labbra, carezzandogli le ferite sul petto. Una mia lacrima gli bagnò il collo. Il suo profumo c'era ancora, ed era meraviglioso nonostante la punta di polvere da miniera e fumo.

"Mi dispiace... " dissi, la voce malferma, scuotendo la testa.

Misha mi sorprese muovendosi un po', ed emise un breve lamento. Si stava svegliando.

"Amore... " sibilai. Le mie dita gli percorsero il volto, giungendo sull'attaccatura dei capelli, e Misha aprì gli occhi blu. Erano diversi, proprio come avevo visto quel giorno - non era un'illusione. Mi si strinse il cuore.

"Hey... t-tu... "

"Sshh... " bisbigliai dolcemente, due dita sulle sue labbra. Le pulii dal sangue. "Non dire nulla, Mish... "

Mi scostai; mi tolsi a fatica la giacca che avevo addosso e la sistemai su di lui, in modo che gli proteggesse il capo e le spalle. L'aria era gelida perfino là dentro - era ormai Dicembre inoltrato. Aderii il mio corpo al suo con delicatezza, per scaldarlo col mio calore. Gli circondai le spalle col braccio buono ed affondai il viso sull'incavo del suo collo, trattenendo i singhiozzi. Ormai era una mia prerogativa cercare di non piangere.

"N-non puoi morire così... " Battevo i denti mentre parlavo. "T-tu starai bene... si risolverà tutto-"

"Non si risolverà un bel niente, Jensen... lo sai." mi interruppe Misha.

Io mi rabbuiai. "Ma... "

"Ho capito ormai come stanno le cose, non sono nato ieri. Ha ragione lui... " disse come un soffio, a fior di labbra, indicando la guardia con un breve cenno del mento.

Scossi di nuovo la testa, le lacrime mi avevano raggiunto il collo. "No, no... tutto questo finirà... te l'assicuro... e lo sai anche tu... piantala di dirlo... piantala, ti prego... "

La sua mano risalì la stoffa scura della mia giacca sulla schiena, e mi coccolò debolmente. Misha mi guardò con tristezza, facendomi commuovere ancora di più.

"Non te ne andare... " Le sue dita mi toccarono il viso, con quel fare paterno ed affettuoso che mi aveva fatto innamorare alla follia.

"Ti amo, Jensen... ma tu... devi imparare a... ad accettare la realtà... prima lo farai e meglio sarà... "

"No... "

"Anche io volevo vivere con te. Lo desideravo con tutto me stesso. A New York... io e tu... in una modesta casa di periferia... ovunque. Avremmo festeggiato assieme il Natale, guardato film stupidi." Le sue dita mi asciugarono il viso. "Ci saremmo sdraiati sul divano parlando del lavoro, di noi. Avremmo fatto la doccia assieme. Avremmo cucinato assieme. E tutti i ricordi qui...  s-sarebbero stati lontani, tanto lontani."

"Ma noi... lo faremo... faremo tutte queste cose... " protestai, senza crederci più nemmeno io. Spostai il viso, e lo fissai negli occhi umidi.

Non sapevo nemmeno quando avevamo iniziato a baciarci, pian piano, le mie labbra carezzavano le sue, lenendo le ferite.

"Mi manchi già, Mish... " sibilai, ad un millimetro dalla sua bocca.

Lui ripiegò la testa da un lato, e mi rivolse quello sguardo ingenuo che adoravo. "Ma... sono qui adesso."

"Dimmi che non te ne andrai... "

Misha sospirò lungamente. "Non posso fare promesse che non manterrò... "

Restai immobile. Era vero, non poteva promettermelo. Non avrebbe avuto senso.

"Illudimi allora. Sii credibile, fammelo immaginare per un secondo... " lo implorai.

Calò il silenzio.

Misha mi fissò, confuso, ma poi sorrise appena come illuminato, giocando coi miei capelli. "Non me ne andrò mai davvero. Non ti lascerò mai... lo prometto."
   
 
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