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Autore: Adeia Di Elferas    08/05/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Mi dovete tirar fuori da questo pasticcio, Capitano!” vociò Leone Cobelli, aggrappandosi alle sbarre della cella: “Se non fosse stato per voi, non sarei qui!”
 Tommaso Feo guardava l'artigiano senza riuscire a parlare. Non si era aspettato una reazione tanto dura da parte della Contessa.
 Quando aveva saputo che tutti i più convinti delatori della falsa notizia circa il matrimonio erano stati messi in cella – anzi, uno particolarmente arrogante e riottoso, fedele sostenitore degli Ordelaffi, era anche stato impiccato da Babone in pubblica piazza – si era immediatamente sentito responsabile, anzi, colpevole.
 Anche in quel momento, mentre Leone lo aggrediva a parole, non potendo farlo a suon di pugni, Tommaso si sentiva un essere molto infido e ignobile. Aveva messo in giro quella voce a cui lui stesso non aveva mai creduto, e lo aveva fatto solo per... Non sapeva nemmeno più lui perché l'aveva fatto.
 “Tommaso! È vostro preciso compito tirarmi fuori di qui!” ribadì Cobelli, con un colpo al ferro della sbarra e battendo un piede in terra.
 Nel buio delle segrete della rocca la sua voce rimbombava in modo spettrale. Il Capitano Feo annuì appena e promise: “Farò quello che posso.”
 Leone Cobelli non si accontentò di quella tiepida affermazione e continuò a gridargli contro, mentre il castellano ormai, nauseato dal tanfo della prigione, aveva cominciato ad allontanarsi.
 Forse anche lui sarebbe toccata la sorte di Cobelli, forse anche lui sarebbe stato chiuso in un di quelle segrete, dunque doveva starne lontano, almeno finché gli era concesso.
 
 Tornata a Forlì assieme alla famiglia e ai servitori, Caterina volle per prima cosa vedere di persona Leone Cobelli.
 In realtà il loro incontro non servì ad altro se non a inasprire l'antipatia che nutrivano l'uno per l'altra. Per quanto uno storiografo debba essere imparziale, Cobelli non riusciva a giudicare con distacco la Contessa. La trovava sprezzante e incredibilmente piena di sé.
 Era certo che tutta la sicurezza che ostentava con tanta vanità fosse solo una maschera, indossata per celare una grandissima fragilità.
 In ogni caso, comunque, non avrebbe mai potuto provare empatia per una donna che voleva metterlo ai ceppi solo perché lui aveva ripetuto una voce messa in giro da quel fanfarone di Tommaso Feo.
 Caterina pose molte domande allo storico, cercando invano un appiglio per scagionarlo dalle accuse che gli erano state mosse. L'uomo, però, non collaborava, anzi, rispondeva in modo piccato e incompleto, arrivando anche a provocarla apertamente più di una volta.
 Uscita dalle segrete, la Contessa era ormai decisa a dare a Babone l'ordine di impiccare anche Cobelli che, con le sue parole taglienti, pareva molto più fedele ad Antonio Maria Ordelaffi che non a lei.
 Mentre stava camminando velocemente verso il ponte, per andare dal bargello che l'attendeva al palazzo, il castellano Feo riuscì a intercettarla e a fermarla.
 “Mia signora...!” disse, per farsi notare.
 Caterina rallentò, senza smettere di camminare. Tommaso, allora, si affrettò a raggiungerla, prima che la donna uscisse dalla rocca. Come castellano, lui non poteva lasciare il perimetro disegnato da quelle spesse mura...
 “Vi prego, Cobelli non ha colpe. Liberatelo.” pregò Tommaso Feo, continuando a seguire la Contessa che non accennava a fermarsi: “Lasciatelo libero e non commetterà mai più un simile errore... È solo stato superficiale e avventato... Non credeva di farvi un danno a parlare liberamente. Era convinto che il matrimonio ci sarebbe stato. Non l'ha sentito dire solo da me, ma anche da persone che sono vicine all'Ordelaffi, non potete...”
 Caterina si fermò tanto di scatto che per poco Tommaso non la travolse: “Non posso cosa?” domandò, puntando sul castellano gli occhi apparentemente freddi e inespressivi.
 Quando faceva così, Tommaso quasi non la riconosceva. Era come avere davanti una donna diversa, non la stessa persona che aveva imparato a conoscere e amare durante la resistenza fatta contro il dominio degli Orsi. Quella non era la tigre che ruggiva contro il nemico, quella era una scheggia di ghiaccio.
 “Vi prego – ripeté Tommaso, abbassando il capo – liberatelo e lui non farà più nulla contro di voi. Garantirò io, per lui. Se sbaglierà di nuovo, potrete punire me.”
 Il castellano restava piegato su se stesso, in attesa di conoscere la sorte che avrebbe atteso sia lui sia Cobelli, mentre Caterina pareva intenta a valutare ogni risvolto di quella vicenda.
 “E sia.” concluse la Contessa: “Per questa volta sarò clemente. Liberate pure Cobelli, ma ritenetevi responsabile per lui.”
 Tommaso si gettò in ginocchio, in segno di riconoscenza: “Vi ringrazio, mia signora.”
 “Siete stato fortunato, questa volta.” notò Caterina: “Se commetterete di nuovo un errore simile, anche solo per leggerezza, sappiate che vi punirò esattamente come punirei un traditore comune.”
 Tommaso restava in ginocchio, sollevato dal sapere che non sarebbe stato messo in carcere e che anche Cobelli poteva tornare in libertà.
 Tuttavia, quando la Contessa lasciò comunque la rocca – probabilmente per andare a riferire al bargello la sua decisione di liberare Leone Cobelli – il castellano provò un profondo senso di inadeguatezza e insofferenza, chiedendosi cosa mai avesse quella donna di diverso dalle altre.

 Cobelli prese la notizia della sua scarcerazione con una certa ironia.
 Tommaso si sarebbe aspettato un minimo di riconoscenza, dopo tutto lo strepitare che quell'uomo aveva fatto per farsi liberare.
 E invece, quando era andato nelle segrete per aprire le porte della cella, Leone era scoppiato e ridere e gli aveva chiesto quanto aveva dovuto umiliarsi per convincere la Contessa a liberarlo.
 “Fosse almeno davvero la vostra amante – gli rise in faccia – avresti potuto convincerla divertendoti a tua volta...!”
 Il castellano, resistendo a stento alla tentazione di prendere a pugni lo storico, lo scacciò in fretta dalla rocca, intimandogli di non azzardarsi mai più a prendere posizioni così spiccate in favore di qualcuno che non fosse la Contessa.
 Leone Cobelli, tornando verso la sua casa e la sua bottega, abbandonò il riso e tornò a farsi corrucciato, rendendosi conto tutto d'un colpo del rischio corso. Per poco non era finito appeso per il collo davanti a tutta la città.
 Una volta al sicuro nella sua dimora, ancora ingombra di scudi e alabarde dipinte coi colori degli Ordelaffi e degli Sforza Riario, accese il camino. Il caldo torrido dell'agosto e quello delle fiamme stavano rendendo la stanzetta angusta di Leone una vera trappola.
 Prima di cambiare idea proprio a causa di quell'infernale afa, Cobelli afferrò tutti gli oggetti di legno che aveva decorato e li buttò nel camino. Li guardò bruciare fino a quando non gli fecero male gli occhi.
 Dopodiché recuperò i fogli su cui stava scrivendo le sue cronache e si avvicinò al focolare. Voleva ardere anche quelli, perché erano stati la vera causa della sua breve, ma traumatica, reclusione.
 Non ne ebbe il coraggio, alla fine.
 Spense il camino, si mise alla scrivania e intinse la penna nell'inchiostro. Avrebbe corretto le cose qua e là, ma decise che da quel giorno non sarebbe più stato uno storico.
 Avrebbe continuato a raccontare la vita della Contessa, perché purtroppo era ancora la signora di Forlì, ma l'avrebbe fatto come l'avrebbe fatto un satiro, non un cronista.
 Se non poteva nulla, nell'immediato, contro il dominio di quella maledetta milanese, si sarebbe almeno tolto lo sfizio di lasciare di lei ai posteri un'immagine tutt'altro che idilliaca.
 
 Antonio Maria Ordelaffi ricevette la lettera di Caterina Sforza in cui lei lo pregava di non farle più visita in ritardo.
 Prima, infatti, con una velocità degna dei più importanti affari di Stato, gli era giunta una missiva urgentissima da Venezia.
 Il Senato della Serenissima aveva deciso di spostarlo in Friuli, anzi, di 'esiliarlo', così era stato scritto, per punirlo della sua condotta 'discutibile e ambigua' tenuta per anni durante la sua permanenza a Ravenna.
 Nella direttiva veneta si leggeva di come Antonio Maria avesse tramato più di una volta per rovesciare il governo del Conte Girolamo Riario e – senza alcuna logica – si paventava una sua possibile implicazione anche nella congiura che portò alla morte il suddetto Conte.
 Infine si concludeva accusandolo di aver tendenziosamente alimentato delle voci secondi cui la Contessa Sforza Riario fosse intenzionata a sposarlo e a cedergli il governo. Queste dicerie, secondo i veneziani, rischiavano di indebolire l'immagine della Contessa, rendendola più suscettibile ad attacchi da parte di terzi.
 Senza lasciargli il tempo di metabolizzare la cosa – e quindi nemmeno di organizzare una fuga – a Ravenna arrivarono dei messi veneziani, pronti a prelevarlo per portarlo in Friuli, dove avrebbe dovuto scontare un esilio 'di almeno anni dieci'.
 Proprio la mattina della sua partenza era finalmente arrivato il messaggio di Caterina che, a quel punto, valeva quando un soldo bucato.
 Come ultimo spregio, Ordelaffi stracciò la lettera, la gettò in terra e sibilò: “Prima o poi, Forlì sarà di nuovo mia.”

 Il castellano Feo, in quel settembre, si comportava come un cane bastonato. Stava espiando di sua spontanea volontà il tradimento che aveva più o meno involontariamente perpetrato ai danni della sua signora e quello stato d'animo lo rendeva scostante e distratto.
 Aveva cominciato a trascurare gli allenamenti con Ottaviano, che pur cercava con insistenza la sua compagnia, e si era fatto sempre meno attento a tutto quello che riguardava la rocca.
 Caterina non stava dando troppo peso a quegli atteggiamenti, certa che presto gli sarebbe passato tutto e suppliva alle carenze del castellano personalmente.
 L'unica che sembrava turbata dal cambiamento d'umore di Tommaso era Bianca, la sorella di Caterina.
 La ragazza, ancora estremamente giovane, ma già di una bellezza tranquilla, ma notevole, faceva tutto quello che era in suo potere per tentare di rasserenare il castellano.
 Gli chiedeva spesso come stesse e si offriva di aiutarlo in ogni occasione, benché lui rifiutasse puntualmente ogni volta.
 Malgrado la grande differenza d'età, Bianca trovava quell'uomo perfetto per lei e non ne faceva mistero. Ormai anche la servitù si era accorta della simpatia che la giovane provava nei confronti del castellano, mentre Tommaso pareva non farvi caso.
 Nessuno, invece, sembrava essersi accorto di quello che succedeva tra Caterina e Giacomo. I due avevano continuato a incontrarsi ogni notte, come facevano al Giardino. La Contessa congedava sempre la sua cameriera di buon'ora, in modo da poter prolungare il tempo da trascorrere con lo stalliere.
 Caterina aveva cominciato a predisporre dei nuovi lavori alla rocca. Voleva un'area privata, che fosse interna alle mura, ma separata dal resto della cittadella. Inoltre aveva individuato un bel appezzamento di terra appena fuori dalla rocca in cui avrebbe potuto coltivare le sue erbe medicinali e fare qualche esperimento.
 Aveva anche scelto una camera molto riparata in cui avrebbe ricreato la sua 'spelonca da strega', così da potersi ritirare quando preferiva per approntare qualche pozione o semplicemente per dedicarsi allo studio dell'alchimia.
 Tutto sembrava tornato completamente sotto il suo controllo e, anche se le voci del suo fidanzamento con Antonio Maria Ordelaffi non si erano ancora spente del tutto, Caterina era sicura che, una volta che si fosse saputo dell'esilio di quel bamboccio, nessuno avrebbe più osato anche solo citarlo.
 
 La pioggia aveva cominciato a percuotere il forlivese quasi ogni giorno, mentre settembre lasciava il palco a ottobre e le ore di luce si stavano riducendo rapidamente sempre di più.
 Anche quell'anno, insomma, c'erano tutti presupposti per un inverno lungo, gelido e impietoso.
 In quelle giornate piovose, alla rocca di Ravaldino si respirava un'aria molto particolare. A parte i soldati di ronda, quasi nessuno sfidava il vento freddo e le intemperie e tutti quanti si dedicavano a passatempi puramente ricreativi.
 Tommaso Feo si stava lentamente riprendendo dal suo periodo nero e Bianca ne era entusiasta. Tanto che lo coinvolgeva sempre più spesso nelle sue attività, quasi costringendolo ad assistere alle sue brevi esibizioni, quando voleva cantare, o a sentirla leggere per intere ore.
 Caterina li lasciava fare, convinta che indirizzare le attenzioni del castellano verso un'altra donna fosse una buona cosa. Di sicuro non lo avrebbe visto bene come marito per sua sorella Bianca, visto che avevano ben più di dieci anni di differenza, ma trovava quell'amicizia un buon pretesto per allontanare da sé Tommaso quel tanto che bastava.
 Innanzitutto pensava che a quel modo il castellano avrebbe avuto meno occasioni per accorgersi del fatto che in realtà Caterina amava suo fratello Giacomo e poi, forse, avrebbe pian piano cominciato a disinnamorarsi di lei.
 Perché era quello il grande problema, Caterina lo aveva intuito. Tommaso doveva provare ancora qualcosa per lei e l'unico modo per evitare una catastrofe era tenerlo a distanza, almeno da quel punto di vista.
 Come aveva lui stesso detto una volta, a lei serviva un soldato fedele su cui contare, non un uomo innamorato. Di uomo innamorato ne aveva già uno, e le bastava.

 Il Moro camminava con studiata lentezza, al fine di prolungare la vicinanza di Cecilia il più possibile.
 Adorava passeggiare con lei per i meandri del palazzo di Porta Giovia e quel giorno la trovava ancora più incantevole del solito.
 L'idea che di a nemmeno due anni avrebbe dovuto mandarla via da lì – sempre ammesso che non riuscisse nel frattempo a trovare un ragionevole accordo con i suoi futuri suoceri – lo gettava nella disperazione più nera.
 Ma in quel momento non voleva pensare al futuro, solo al presente.
 “Dite che il maestro Leonardo abbia avuto davvero una buona idea a volermi raffigurare con un ermellino tra le braccia?” domandò Cecilia, aggrottando appena la fronte.
 Il Moro assicurò subito: “Per quanto sembri impossibile, quel tizio non sbaglia mai, quando si tratta di valutazioni artistiche. Perciò mi fiderei, se fossi in voi.”
 Cecilia si controllò ancora una volta i capelli, passandovi con cura entrambe le mani, per assicurarsi che fossero completamente lisci.
 La ciocca che le passava sotto al mento, in linea con la moda di quel periodo, le dava un po' di fastidio, ma Ludovico aveva insistito molto affinché lei portasse quell'acconciatura per posare.
 “La lettera arrivata stamattina portava notizie di vostra nipote Caterina?” domandò Cecilia, assecondando Ludovico nel suo passo molle e cadenzato.
 Anche a lei piaceva molto indugiare con lui per le ali più tranquille del palazzo, soprattutto quando non incontravano nessuno.
 “Sì.” confermò Ludovico: “Vuole che riscatti e ricompri i suoi gioielli e che permetta a Bona di Savoia di presenziare alle nozze di Gian Galeazzo.”
 Cecilia sospirò: “Ne ha di pretese, tua nipote.”
 Ludovico inclinò un po' il capo e, mentre il doppio mento tremolava appena, si trovò a dire: “Credo che non abbia nemmeno intenzione di sdebitarsi a breve, per tutti i favori che ha ricevuto e che vuole ricevere. L'unica cosa che mi ha concesso, sembrerebbe, è poter interferire nella scelta di un suo prossimo marito. Il che è quasi comico, dato che dubito che ci siano altri pretendenti in vista, ora che ha rifiutato ufficialmente Ordelaffi.”
 Cecilia guardò Ludovico curiosa: “Davvero credi che non abbia pretendenti in vista? Se è davvero tanto bella come tu stesso dici...”
 Il Moro assunse per un momento un'espressione molto dura, mentre ribatteva: “Bella, sì, ma anche rude e estremamente cocciuta. Sfido chiunque a volersi accollare una simile penitenza. Non è una donna facile da gestire.”
 Cecilia inspirò lentamente, abbozzando un sorriso, come a dire che se era davvero così, allora Ludovico aveva ragione.
 “In ogni caso, possiede delle città interessanti e potenzialmente molto redditizie. A qualcuno che non la conosce troppo potrebbe anche far gola. Tuttavia dubito che lei sia in vena di risposarsi.” riprese il Moro con più leggerezza: “Passerà parecchio tempo, prima che io mi debba occupare del suo prossimo matrimonio. Probabilmente non lo dovrò fare mai.”
 “Perchè pensi che non desideri risposarsi?” chiese Cecilia, mentre lo studiolo del maestro Leonardo era sempre più vicino.
 “Perchè il primo matrimonio è stato un tale disastro che dubito che mia nipote abbia il coraggio di fare un secondo tentativo tanto presto...” spiegò Ludovico, mentre la voce gli si abbassava a causa della vicinanza dell'alloggio di Leonardo.
 Cecilia comprese che era il momento di cambiare argomento, però, appena prima di entrare nello studiolo del maestro, sussurrò a Ludovico: “Fossi in te, permetterei a Bona di Savoia di partecipare alle nozze del figlio. Dopo anni di isolamento, permettile almeno quest'ultima gioia...”
 Ludovico le sorrise e, varcando la soglia della camera, promise: “Come la mia Cecilia comanda.”

   
 
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