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Autore: Marilia__88    10/05/2016    3 recensioni
Una nuova storia che come "Ti brucerò il cuore" riparte dal presunto ritorno di Moriarty e dallo stesso momento. Un'altra versione della quarta stagione con nuove teorie e nuove congetture completamente diverse.
Dalla storia:
“Sherlock, aspetta, spiegami… Moriarty è vivo allora?” chiese John, mentre cercava di tenere il passo dell’amico.
“Non ho detto che è vivo, ho detto che è tornato” rispose Sherlock, fermandosi e voltandosi verso di lui.
“Quindi è morto?” intervenne Mary nel tentativo di capirci qualcosa.
“Certo che è morto! Gli è esploso il cervello, nessuno sopravvivrebbe!” esclamò Sherlock con il suo solito tono di chi deve spiegare qualcosa di ovvio “…Mi sono quasi sparato un’overdose per dimostrarlo!”
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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                                                   My pain





All’improvviso, in lontananza, sentì una voce familiare che lo chiamava con insistenza: era John. Cercò di concentrarsi sulla sua voce, pregando con tutto sé stesso che riuscisse a portarlo fuori di lì. Si mise le mani sul volto con disperazione, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo. “John…” urlò con voce rotta, pronunciando il suo nome quasi come una supplica. “John…ti prego…aiutami…” aggiunse, chiudendo gli occhi e continuando a piangere.
 




 
Dopo aver lasciato Mary a casa, John arrivò in taxi a Baker Street. Arrivato davanti al 221B bussò energeticamente, salutò la signora Hudson e salì di corsa le scale. Era davvero preoccupato per Sherlock e, durante tutto il tragitto, non aveva fatto altro che pensare a come avesse potuto lasciarlo da solo in quelle condizioni. Era ancora arrabbiato con lui, ma dopo le parole di Mary, la preoccupazione aveva preso momentaneamente il posto della rabbia. Entrò nel soggiorno con il respiro ancora affannato dalla corsa e trovò il detective sdraiato sul divano. Apparentemente sembrava immerso nei suoi pensieri come al solito, ma dopo uno guardo più attento, si accorse che aveva un’espressione sofferente sul volto. Stava sudando freddo e si lamentava sommessamente, quasi come se stesse avendo un terribile incubo.
“Sherlock!” esclamò allarmato, avvicinandosi a lui ed iniziando a scuoterlo per farlo svegliare “…Sherlock, mi senti?... Apri gli occhi!” aggiunse, vedendo che non smetteva di lamentarsi “…Sherlock…per favore, svegliati!” continuò con voce tremante.
Dopo alcuni minuti il consulente investigativo aprì di scatto gli occhi. Si mise seduto e cominciò a guardarsi intorno confuso, ansimando pesantemente.
“Ehi…va tutto bene…” disse John, nel tentativo di farlo calmare.
Sherlock, però, si prese la testa tra le mani tremanti e cercò di regolarizzare il proprio respiro, ma senza riuscirci.
“Cos’è successo?” chiese il medico apprensivo.
“Io…io ero nel mio palazzo mentale e…c’era una porta…e non sapevo che…” provò a dire il detective, ma non riusciva a formulare una frase di senso compiuto.
John gli mise una mano sulla spalla, stringendola leggermente “Fai dei profondi respiri e cerca di spiegarmi parlando con calma…” disse con dolcezza.
“Non capisco…non dovevano trovarsi lì!” esclamò il detective confuso.
“Di chi stai parlando?” domandò il medico.
“Di…Barbarossa…e…di…mio fratello…” rispose Sherlock, con voce tremante.
“Sherlock…non riesco a seguirti…chi è Barbarossa? E cosa centra Mycroft?” chiese John turbato.
“Non Mycroft…Sherrinford…” rispose il consulente investigativo, riprendendo a passarsi nervosamente le mani nei capelli.
“Sherrinford?” domandò il medico, ancora più confuso.
“No…non dovevo parlarne…non dobbiamo più parlarne!” esclamò Sherlock, alzandosi di scatto dal divano “…È una storia vecchia e dimenticata e tale deve rimanere!” aggiunse convinto. Poi si mise a camminare per il soggiorno, passandosi le dita sulle tempie nel tentativo di riprendere il controllo di sé.
John rimase a fissarlo, turbato da quelle parole e dal suo atteggiamento. A guardarlo attentamente, sembrava sconvolto e non riusciva a capire cosa lo avesse ridotto in quelle condizioni. Chi era Barbarossa? E chi era Sherrinford? Nonostante conoscesse Sherlock da anni ormai, sapeva ben poco del suo passato. Era un argomento che non avevano mai affrontato ed aveva sempre rispettato la sua scelta e la sua privacy. Ma doveva essere accaduto qualcosa di terribile, poteva leggerlo nei suoi occhi, qualcosa che lo aveva stravolto e che adesso, per qualche oscura ragione, stava ritornando a tormentarlo. Si alzò lentamente dal divano e si avvicinò a lui, poi lo afferrò dalle braccia e lo fece voltare verso di sé.
“Sherlock, per favore…calmati! Se non vuoi parlarne non fa niente, ma devi riprendere il controllo di te stesso…va bene?” disse lentamente, guardandolo dritto negli occhi.
Sherlock annuì soltanto e, dopo qualche istante, parve ritornare in sé.
“Va meglio?” chiese John con un mezzo sorriso “…Se volessi parlarmene…lo sai che puoi dirmi qualsiasi cosa, vero?” aggiunse dolcemente.
“Si, lo so…ma non posso…io non…” provò a rispondere il detective, ma la voce gli si incrinò all’improvviso e abbassò subito lo sguardo.
“Va bene…non fa niente…ora pensiamo a Moriarty…cosa hai scoperto?” chiese il medico, cambiando completamente argomento.
“Non molto a dire il vero!” rispose Sherlock, riprendendo di nuovo il suo autocontrollo “…Quello di cui sono certo, è che dietro il video di Moriarty c’è sicuramente qualcuno che lavorava per lui e che ha fatto tutto questo per farmi rimanere a Londra e continuare il nostro gioco” aggiunse serio.
“Ma avevi smantellato tutta la sua rete criminale!” esclamò John confuso.
“Per quanto mi costi ammetterlo…deve essermi sfuggito qualcosa…o meglio qualcuno…e devo capire di chi si tratta, prima cha faccia la sua prossima mossa” rispose il detective, voltandosi a guardare pensieroso verso la finestra.
“E quale pensi possa essere la sua prossima mossa?” chiese il medico preoccupato.
Sherlock sospirò pesantemente. Poi si voltò con una strana espressione sul viso “Verrà a cercarmi…è ovvio! E io devo farmi trovare pronto!” disse con tono deciso.
John non disse niente. Tutta quella situazione lo rendeva nervoso. L’idea che qualcuno volesse continuare il gioco di Moriarty, naturalmente lo spaventava, ma ciò che lo preoccupava di più era lo stato di Sherlock. Nonostante cercasse di apparire il solito sé stesso, c’era qualcosa di strano in lui, qualcosa che lo stava lentamente distruggendo dall’interno.

 
Passarono le ore successive ad esaminare le carte e i documenti che Mycroft aveva mandato a Sherlock, riguardanti il video di Moriarty e altre informazioni raccolte dall’MI6. Nonostante il loro impegno, però, non erano riusciti a scoprire molto di più rispetto a quello che già sapevano. Mentre il detective stava analizzando l’ennesimo fascicolo, John si poggiò esausto allo schienale della sua poltrona e sospirò scoraggiato.
Sherlock alzò gli occhi su di lui, poi spostò lo sguardo sull’orologio. “John, è tardi…dovresti andare a casa!” disse, riprendendo ad osservare il fascicolo.
“Non sono stanco…possiamo continuare!” rispose prontamente il medico.
“Si, certo!” esclamò Sherlock con sarcasmo “…Ma fra poco Mary ti darà per disperso!” aggiunse con un mezzo sorriso “Vai a casa…” continuò, ritornando serio.
John guardò l’ora e, soltanto in quel momento, si rese conto di quanto fosse tardi. Si alzò dalla poltrona, mise la giacca e si voltò a guardare Sherlock, che era ancora intento a leggere.
“Torno domani…dovresti riposare anche tu…anche se so che non lo farai!” disse con un mezzo sorriso.
Il detective alzò lo sguardo per un momento, ricambiando il sorriso e poi riprese a fissare i fogli.
John si avvicinò alla porta, abbassò la maniglia e si fermò titubante. Dopo alcuni istanti, si voltò di nuovo verso il suo amico con uno sguardo preoccupato.
“Sherlock…” lo chiamò, attirando di nuovo la sua attenzione “…mi raccomando…niente cavolate…e sai a cosa mi riferisco…me lo prometti?” aggiunse, guardandolo dritto negli occhi.
“Santo cielo, John! Stai diventando assillante quasi come mio fratello!” esclamò Sherlock, sbuffando spazientito.
“…Me lo prometti?” ripeté il medico serio.
“Si, si…come vedi ho da lavorare e non ho bisogno di nient’altro!” rispose il detective a tono.
John lo guardò per qualche istante e annuì poco convinto, poi uscì dall’appartamento e prese un taxi per tornare a casa.
Sherlock, intanto, si era alzato dalla sua poltrona e lo osservava andarsene da un angolo della finestra. Appena la vettura sparì oltre l’orizzonte, sospirò e si rimise al lavoro.

 
Dopo qualche altra ora passata su quei documenti, Sherlock si poggiò afflitto con le spalle alla poltrona, chiuse gli occhi e mise le mani congiunte sotto il mento, per riflettere su tutta quella situazione. Doveva assolutamente arrivare alla soluzione e doveva farlo il prima possibile. Mentre era immerso nei suoi pensieri, sentì il rumore della porta che si apriva e i passi di qualcuno che entrava lentamente nel soggiorno.
“Deve essere così frustante per te, sapere di aver tralasciato qualcosa... ma non riuscire a capire cosa…” disse l’uomo con tono di scherno.
Sherlock rimase immobile, pietrificato da quella voce. Non poteva essere lui. Cercando di mantenere la calma, aprì gli occhi e si mise ad osservare chi aveva di fronte.
“Tu…tu non puoi essere qui…” rispose Sherlock con voce tremante.
“No, non posso…eppure eccomi qui! È tutto così eccitante, non trovi?” esclamò Moriarty iniziando a ridere “…Ma in fondo…tu hai bisogno di me, Sherlock…o non sei niente!” aggiunse, avvicinandosi e sedendosi sulla poltrona di John.
Il detective osservò Jim per qualche istante, poi chiuse gli occhi ed iniziò a massaggiarsi le tempie. “Tutto questo non ha senso…” disse frustrato.
Moriarty si mise a ridere, attirando l’attenzione del consulente investigativo, che riprese a guardarlo. Rimasero qualche istante a fissarsi, senza dire una parola, poi Jim interruppe quel silenzio.
“Certo che non ha senso, Sherlock!... Perché non è reale!” esclamò divertito “…Nulla di tutto questo è reale…è solo nella tua testa…” aggiunse, riprendendo a ridere.
Sherlock si svegliò di soprassalto. Si ritrovò seduto sulla sua poltrona, madido di sudore e con il cuore che gli batteva all’impazzata. Era di nuovo da solo nel soggiorno di Baker Street e aveva ancora in mano i fascicoli che stava leggendo poco prima. Doveva essersi addormentato senza rendersene conto. Si alzò dalla poltrona e posò, con le mani tremanti, i documenti sulla scrivania. Era stato un sogno, soltanto un terribile sogno. Eppure sembrava così reale. Cercando di riprendere il controllo, si diresse in cucina per preparare del tè. Versò l’acqua nel bollitore, lo mise sul fornello e lo accese. Poi si voltò a prendere la sua tazza, ma a causa delle mani che ancora gli tremavano, gli scivolò, frantumandosi a terra in mille pezzi. Preso dallo sconforto, si poggiò con le mani alla cucina, abbassò leggermente la testa e chiuse gli occhi, in un gesto disperato. Doveva assolutamente calmarsi, ma non sapeva come fare. In quel momento, come colto da un’improvvisa scarica elettrica, aprì gli occhi e un’idea gli balenò in testa. “Non posso farlo…l’ho promesso a John…” disse a sé stesso.
Dopo alcuni istanti di indecisione, però, chiuse il fornello e si diresse verso la scrivania. Per quanto tentasse di resistere, la tentazione era troppo forte. Aprì il secondo cassetto, dove c’era il doppio fondo e tirò fuori la scatolina. Prese tra le mani la siringa già riempita della sua soluzione al 7% e il laccio emostatico. “No, non posso farlo!” urlò, buttando di nuovo tutto nel cassetto di malo modo. Nonostante lo volesse più di ogni altra cosa, aveva ancora davanti l’espressione preoccupata di John che lo guardava e che gli diceva con voce tremante “Me lo prometti?”. Decisamente frustrato, fece un profondo respirò e si diresse verso la camera da letto, con il pensiero che forse una bella dormita lo avrebbe aiutato. Si tolse la vestaglia e si buttò sul letto ancora vestito. Nonostante l’agitazione, comunque, non ci mise molto a prendere sonno, cullato dal suo confortante letto e dalle morbide lenzuola.
 
Si ritrovò a casa dei suoi genitori. Non capiva come fosse arrivato lì, in fondo si trovava a Baker Street fino a pochi minuti prima. Passò davanti ad uno specchio e vide che il suo aspetto non era quello attuale: era sé stesso, ma all’età di 11 anni. Non ebbe il tempo di interrogarsi su cosa stesse succedendo, che sentì delle urla provenire dal piano di sopra. Ad urlare era una donna: sua madre. Salì le scale di corsa e trovò i suoi genitori abbracciati che piangevano disperati.
“Che succede?” chiese spaventato.
Poco più in là, un giovane Mycroft guardava dentro la stanza in fondo, tenendosi una mano sulla bocca e cercando di trattenere le lacrime.
“Mycroft cos’è successo?” chiese, avvicinandosi a suo fratello.
La stanza in questione era quella del secondogenito di casa Holmes, Sherrinford.
“Sherlock, vai di sotto! Non devi stare qui!” urlò Mycroft preoccupato, chiudendo subito la porta.
“Non trovo Barbarossa…di solito mi aspetta nel vialetto…” disse il minore decisamente confuso.
Il maggiore chiuse un attimo gli occhi nel tentativo di mantenere la sua espressione distaccata, ma senza riuscirci.
“Mycroft, dimmi la verità…che gli è successo? È lì dentro, vero?” chiese Sherlock con voce tremante, cercando di aprire la porta.
“No, Sherlock…non puoi entrare! Vai di sotto!” gridò Mycroft, afferrandolo subito da un braccio.
Il minore, però, con un gesto repentino, si liberò dalla stretta del fratello e riuscì ad entrare nella stanza. Ciò che vide gli spezzò il cuore. Barbarossa giaceva a terra sgozzato in una pozza di sangue.
“No…no…Barbarossa!” urlò, correndo verso di lui e inginocchiandosi al suo fianco “…No…ti prego…svegliati!” aggiunse tra le lacrime, mentre scuoteva il suo corpo nel vano tentativo di farlo svegliare “…Non lasciarmi…per favore…” continuò, iniziando a singhiozzare.
Mycroft si avventò su di lui, afferrandolo dalle spalle. “Sherlock, vieni via da qui!” esclamò disperato.
“Lasciami andare, Mycroft…devo fare qualcosa…è mio amico!” urlò il minore, cercando di liberarsi dalle braccia del fratello. Solo in quel momento si accorse di cos’altro c’era nella stanza. Qualcun altro giaceva a terra poco più in là ed anche lui in una pozza di sangue.
“Sherrinford!” gridò Sherlock, con voce rotta. Poi si liberò dalla stretta del maggiore e corse verso il corpo a terra. “No…no…Sherrinford, rispondimi!” disse, mentre altre lacrime gli uscivano senza controllo.
“Santo cielo, Sherlock! Non puoi più fare niente…vieni con me di sotto!” urlò il maggiore, nel tentativo di portarlo fuori da quella stanza.
Mentre Mycroft cercava di farlo alzare, Sherlock si accorse che Sherrinford, nella mano destra, stringeva un pezzo di carta. Lo prese e lo lesse attentamente, ignorando le grida del fratello maggiore. In quel momento capì tutto. Vide il coltello vicino al corpo di Barbarossa e la pistola a terra, accanto al corpo del secondogenito. Tentò di mettersi in piedi e seguire Mycroft fuori dalla stanza, ma appena si alzò, la vista gli si annebbiò e crollò a terra privo di sensi.

 
Sherlock si svegliò di soprassalto per la seconda volta. Aveva di nuovo il battito accelerato e ansimava pesantemente. Per anni era riuscito a seppellire quei ricordi nella parte più profonda della sua mente. Perché avevano ripreso a tormentarlo? Cercò di mettersi seduto, ma si accorse di avere la vista leggermente annebbiata. Si mise una mano sugli occhi e capì che alcune lacrime gli stavano rigando il viso senza controllo. Tutto il dolore che aveva provato allora, tutta la disperazione e l’angoscia che lo avevano perseguitato da quel momento, stavano iniziando, di nuovo, ad impadronirsi di lui. Non poteva sopportare tutto quello. Si asciugò le lacrime, si alzò dal letto e si diresse in soggiorno. Per un istante ebbe anche la tentazione di chiamare John; se solo ci fosse stato lui avrebbe saputo come farlo calmare, in fondo, c’era sempre riuscito in ogni occasione. Poi, però, guardò l’orologio e si accorse che erano le tre di notte. Non poteva chiamarlo a quell’ora, non poteva sconvolgergli la vita più di quanto avesse già fatto fino a quel momento. Se la sarebbe cavata da solo, come sempre, anche se questo voleva dire infrangere la sua promessa. Si avvicinò stancamente al cassetto, riprese tutto l’occorrente e si sedette sulla sua poltrona. Alzò la manica della camicia, si legò il laccio emostatico al braccio e, dopo un attimo di indecisione, affondò l’ago e premette lo stantuffo. “Mi dispiace, John…” disse, mentre una lacrima gli rigava il viso. Poi buttò a terra tutto l’occorrente, si poggiò allo schienale della poltrona e si rilassò, inebriato da quell’improvvisa sensazione di benessere. 






Angolo dell'autrice:
Salve! Eccovi il secondo capitolo...! Ho anticipato leggermente rispetto alle previsioni, perchè era già pronto. Per l'altro credo che vi farò attendere un pò in più. Comunque qui si comincia a capire cosa intendevo, quando ho detto che Sherlock avrà un rapporto diverso con la droga, rispetto alla mia precedente storia. Alla base di tutto c'è sempre il dolore. Per quanto si sia sforzato di resistere alla tentazione per la promessa fatta a John, alla fine ha ceduto... scusandosi comunque per la sua debolezza. La storia di Barbarossa e di Sherrinford inizia a delinearsi, anche se ci saranno altre spiegazioni e altri chiarimenti più avanti nei prossimi capitoli. Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Grazie come sempre a chi segue la storia, a chi l'ha già messa nelle preferite/seguite/ricordate e chi vuole lasciare un commento. Alla prossima ;)

 
   
 
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