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Autore: Adeia Di Elferas    11/05/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il Cardinale Raffaele Sansoni Riario stava rimirando il nuovo telone di pelle pirografata che ricopriva il suo immenso tavolo da biliardo, quando uno dei suoi servi gli annunciò l'arrivo di due soldati di Forlì.
 Lì per lì il porporato restò in silenzio, domandandosi che mai fosse successo. Si riprese abbastanza in fretta, immaginando che si trattasse di qualche cosa di poco conto, probabilmente qualche invito a qualche cerimonia e fece cenno al servo di lasciar pure passare i soldati.
 Ottaviano, nella sua ultima lettera, non aveva fatto cenno a nulla di particolare, ma in fondo era solo un bambino. Poteva essere che si fosse scordato di parlare di una cosa che magari non lo interessava personalmente.
 “Siamo qui per ordine della Contessa Sforza Riario – cominciò uno dei due soldati, il cui volto era sudato e sporco di polvere, come se avesse cavalcato da Forlì a Roma senza mai fermarsi un momento – che richiede con urgenza la vostra presenza a Imola.”
 Raffaele si accigliò e, con un sorrisetto confuso, disse: “Non credo che la vostra signora abbia bisogno di me a Imola...”
 La sola idea, in effetti, lo divertiva. Perché mai Caterina, che lo aveva sempre ritenuto un inetto, avrebbe dovuto mandarlo a chiamare. Per andare a Imola, poi...!
 I due soldati si guardarono per un fugace istante, ricordando le parole della Contessa, che aveva detto loro di portarle il Cardinale a ogni costo.
 Uno dei due fece un ultimo tentativo pacifico: “Dovete partire oggi stesso assieme a noi, perché la Contessa richiede il vostro intervento a Imola. Il castellano della rocca ha preso in ostaggio i suoi figli, sostenendo che la Contessa stia per risposarsi.”
 “E io che c'entro?” tentò in extremis il Cardinale, prendendo tra le dita il crocifisso d'oro abbellito da pietre preziose che portava al collo.
 “Il castellano sostiene che siete stato voi a metterlo di quest'avviso.” precisò il secondo soldato, con fare meno amichevole.
 “Dunque la Contessa vuole che voi andiate dal castellano e lo facciate ragionare, prima che la situazione trascenda.” concluse il primo, appena più diplomaticamente.
 Raffaele boccheggiò un minuto, in cerca di una scusa per sottrarsi a quel viaggio, che, visto il clima freddo e piovoso, sarebbe stato una vera Odissea, ma non trovò nulla di convincente.
 “Faccio preparare i bagagli.” si arrese, alla fine.
 “Bagagli leggeri, mi raccomando.” lo redarguì il soldato meno affabile: “Dobbiamo cavalcare veloci.”

 Fregosino guardava all'orizzonte, in attesa di vedere finalmente il profilo di sua moglie.
 Sentiva nella tasca interna del suo mantello da viaggio il peso delle monete che era riuscito a salvare. Nella mano stringeva ancora il documento con cui Ludovico Sforza gli permetteva una ricompensa di mille monete d'oro.
 Lui era stato quello a cui era stato concesso meno, ed era giusto così. Era stato lui, alla fine, a far cedere suo padre. Anche se volevano combattere fino alla morte, in quel finire d'ottobre avevano deciso per la resa.
 Suo padre voleva resistere, fino a vedersi sopraffatto dai milanesi, anche a costo di finire impiccato alla porta della fortezza di Castelletto. Anche Fregosino aveva creduto di pensarla così, ma poi aveva rivisto Chiara e l'idea di non poter più passare con lei i giorni e le notti lo aveva terrorizzato.
 Se fosse morto in quella fortezza, non avrebbe mai più potuto vivere accanto a sua moglie...
 Così aveva fatto del suo meglio fino a convincere suo padre a lasciare la fortezza al Moro. Questi aveva capito chi c'era dietro alla resa dei Fregoso e aveva concesso una somma in denaro, in segno di riconoscenza.
 Nemmeno il reggente del Duca di Milano se la sentiva di sostenere una grossa spesa per riconquistare una fortezza di dubbia utilità.
 A Fregosino, però, solo mille monete, contro le seimila che erano spettate agli altri. Era giusto così...
 Mentre il suo respiro creava una densa colonna di vapore, Fregosino riconobbe il passo rapido e circospetto di Chiara che si profilava nel vicolo.
 La donna, coperta da capo a piedi da un pesante mantello scuro, gli fece un cenno con la mano e così l'uomo la raggiunse, quasi di corsa.
 “Le due galee ci aspettano, stanno per salpare.” disse in fretta Chiara.
 Fregosino la tirò a sé e le diede un rapido bacio: “Vado a prendere mio padre e mio fratello.” disse.
 Chiara annuì e lo lasciò andare, con il cuore che le batteva con forza nel petto. Stavano scappando, sarebbero sbarcati a Roma e lì si sarebbero rifatti una vita.
 Restare a Genova era troppo pericoloso. Ludovico il Moro aveva già lasciato intendere che li avrebbe presi in custodia e Chiara sapeva anche troppo bene cosa significasse quell'espressione, quando usciva dalla bocca di suo zio.
 Finalmente, dopo settimane intere di tribolazione, era riuscita a trovare quelle due galee che li avrebbero ospitati fino a Roma senza chiedere altro se non un po' di soldi. Al Capitano non importava nulla del fatto che i Fregoso fossero dei rivoltosi invisi a Milano. Un uomo che si poteva comprare solo col denaro. Proprio quello che serviva a Chiara e a suo marito.
 Così, nell'attesa che anche il marito, il suocero e il cognato con la sua famiglia la raggiungessero al porto, Chiara ritornò verso la banchina, lo sguardo basso per non destare l'attenzione altrui e una speranza sconfinata per quello che le avrebbe serbato il futuro.

 Stremato dal viaggio a marce forzate, Raffaele arrivò finalmente a Imola accompagnato da una pioggerella fine, ma insistente.
 Il suo abito da viaggio era orrendamente infangato, il suo umore grigio e la sua schiena a pezzi. Non aveva alcuna voglia di essere lì e non trovò giovamento nemmeno nel saluto degli imolese, che pure fu più caloroso del previsto.
 Caterina lo stava aspettando nel palazzo della sua famiglia e non si perse in convenevoli, salutandolo appena e mandandolo subito a parlare con il castellano Giovanni Andrea da Savona.
 Il Cardinale provò a opporsi, dicendo che prima desiderava almeno cambiarsi i vestiti, ma Caterina fu irremovibile, così Raffaele piegò il capo e ubbidì.
 Giovanni Andrea lo accolse come fosse stato un vecchio amico. Gli fece vedere i bambini, senza però permettergli di parlare con loro e poi lo portò nella saletta di rappresentanza per discutere il da farsi.
 Al Cardinale fu chiaro fin da subito che il castellano si era montato la testa e che, per di più, aveva coinvolto l'ignaro Raffaele nei suoi sogni di gloria.
 “Se voi diventaste il tutore di Ottaviano e degli altri figli del defunto Conte – aveva infatti detto il castellano con uno strano luccichio nelle pupille – potremmo cacciare la milanese e la discendenza dei Riario sarebbe al sicuro per sempre!”
 Il Cardinale la prese alla lunga, per farlo ragionare. Non aveva alcuna intenzione di prendersi la responsabilità di crescere sei bambini. Un conto era offrire un aiuto economico e politico a Caterina, un altro era sostituirsi a lei.
 Certo, con il castellano usò molti panegirici e parecchie metafore, infilandoci qua e là parole latine – anche a sproposito – per confonderlo e farlo retrocedere dalle sue posizioni.
 In realtà tutto quel discorso servì molto poco e l'unica cosa che ebbe dei risultati fu la ripetuta ammissione del Cardinale: “Non le permetterò mai di prendere marito, non abbiate timore.”
 Convinto da quella dichiarazione ribadita con tanta enfasi dal religioso, Giovanni Andrea si decise a cedere e, mentre si avvicinava la sera, disse a Raffaele: “Va bene. Riconoscerò la milanese come signora di Imola, a patto che lei stia alle regole.”
 “Non vi preoccupate – sorrise il Cardinale, reprimendo un sospiro di sollievo – ci penso io a tenerla a bada.”
 Così prima che la notte scendesse, Caterina entrò alla rocca da vincitrice, poté riabbracciare i figli – che per fortuna erano stati trattati per tutto il tempo come principi – e ringraziò Raffaele per quello che aveva fatto.
 Il Cardinale si schermì, sostenendo di non aver fatto altro, se non il suo dovere.
 Caterina non si trattenne e commentò: “Una volta tanto avete ragione.”
 Il giorno seguente, il castellano venne allontanato dalla rocca e Caterina predispose affinché qualcuno della sua scorta ne prendesse il posto ad interim. Aveva già in mente un sostituto, ma non voleva sbilanciarsi prima di aver avuto una conferma dal diretto interessato.
 “Non lo punite?” aveva chiesto Raffaele, quando aveva saputo dell'allontanamento forzato del castellano: “Non credo che un esilio sia sufficiente...”
 “Questo è il momento per me di tenere un basso profilo – aveva spiegato la Contessa – niente vendette eclatanti, niente fustigazioni in piazza, né grandi sceneggiate. Voglio un po' di tranquillità e per averla, devo tenermi lontana da queste cose.”
 Il Cardinale aveva sbuffato, rinunciando a capirla e aveva chiesto il permesso di tornare a Roma.
 Caterina glielo concesse, compiaciuta come non mai nel notare come il cugino del suo defunto marito si sentisse ancora in dovere di chiederle il permesso praticamente per ogni cosa, e il giorno seguente ripartì a sua volta, diretta a Forlì.

 Quando la famiglia Sforza Riario rientrò alla rocca di Ravaldino, Tommaso Feo tirò un profondissimo sospiro di sollievo.
 Aveva seguito tutto l'incidente di Imola solo basandosi sulle scarse notizie che arrivavano alle sue orecchie, non potendo lasciare il suo posto per nessun motivo. Quando il Cardinale Sansoni Riario era passato da lì, mentre andava a Imola, Tommaso gli aveva fatto mille domande, ma il porporato ne sapeva quanto lui e quindi non era stato molto rassicurante.
 Adesso che la sua signora era tornata, il castellano non poteva che sentirsi più calmo.
 Saperla in potenziale pericolo ed essere cosciente del fatto che non avrebbe potuto far nulla per correrle in soccorso, lo aveva quasi fatto impazzire.
 In più, nei giorni passati senza di lei, la giovane Bianca non gli aveva dato tregua. Era una ragazzina molto sveglia, più grande della sua età e aveva un qualcosa di indefinibile che ricordava la Contessa. Forse era il modo di guardare gli altri o il tono della sua risata o forse era solo tutta una grande illusione.
 Fatto restava che Tommaso era rimasto sulla graticola per tutti quei giorni, pensando alla sua signora, mentre Bianca non faceva altro che mettesi in mostra e attirarlo nella sua rete, un passo per volta.
 Quando Caterina era tornata alla rocca, Tommaso, in quanto castellano, aveva creduto di essere il primo a poter godere della sua compagnia. Se non altro, si era detto, per discutere di quello che era accaduto a Imola e decidere chi mettere alla rocca come nuovo castellano permanente, in sostituzione al soldato che ricopriva la carica ad interim.
 Invece, senza neanche dargli il tempo di digerire l'amaro boccone, la Contessa gli si era negata, per ritirarsi, così gli era stato riferito, nelle sue stanze a riposare.
 Preso da una furia difficile da controllare, Tommaso fece un giro di ricognizione nelle stalle e negli alloggi della servitù ed ebbe conferma di tutte le sue congetture. Giacomo non c'era.

 “Credi che tuo padre accetterebbe un posto come castellano alla rocca di Imola?” indagò Caterina, appena riuscì a stare da sola – eccezion fatta per la presenza di Sforzino che, comunque, con i suoi quindici mesi d'età non poteva essere considerato un ascoltatore indiscreto – con sua sorella Bianca.
 Questa, che della questione di Imola aveva chiesto poco, essendo ancora presa da altri pensieri, inarcò le sopracciglia e disse: “Potrebbe essere. Nella sua ultima lettera nostra madre dice che fanno sempre più fatica, a Milano...”
 Caterina, tenendo in braccio il piccolo Sforzino che dormiva il sonno del giusto, sollevò l'angolo della bocca: “Non tutti i mali vengono per nuocere, allora. Gli scriverò subito.” poi rincarò: “E Piero potrebbe far pratica occupandosi della rocca di Forlimpopoli. È meno impegnativa, ma per la sua età è già una bella sfida. Lo aiuterebbe a far carriera in fretta.”
 Bianca guardò la sorella con riconoscenza: “Quanto sarebbe bello averli qui tutti e tre... Mio fratello e i miei genitori...”
 Caterina ebbe un fremito inatteso nel sentire quelle semplici parole. Bianca, in tutto il suo candore, le aveva ricordato che quella dei Landriani non era la sua famiglia, ma quella di sua sorella.
 Poco importava.
 “Già, sarebbe bello. Speriamo che accettino.” concordò Caterina, mettendosi a cullare Sforzino, che aveva fatto una piccola smorfia, forse disturbato da un incubo.
 
 “Ma come mai quell'uomo aveva preso voi e i vostri fratelli? Che intendeva fare?” chiese Giacomo, parando un colpo decisamente debole di Ottaviano.
 Quel giorno non pioveva, dunque si poteva stare senza problemi nel cortile a fare un po' di esercizio. Ottaviano e Cesare avevano accettato con allegria la proposta di Tommaso Feo, che era ben intenzionato a mantenere l'impegno preso con la sua signora.
 Così Cesare stava tirando con l'arco, sotto l'occhio vigile del castellano, mentre Ottaviano abbozzava qualche colpo con la spada, concentrandosi di più sulle parate che non sulle azioni offensive.
 Giacomo non aveva cavato un ragno dal buco, chiedendo le stesse cosa a Caterina. La donna non gli aveva dato tempo di parlare, quando si erano rivisti e anche nei giorni seguenti aveva evitato il discorso.
 Così, adesso che era a tu per tu con Ottaviano, lo stalliere sentiva di poter finalmente estrapolare qualche notizia. L'incidente di Imola aveva reso Caterina molto irrequieta e il solo citarle quella città la indisponeva, dunque Giacomo voleva vederci chiaro e capire esattamente cos'era accaduto di tanto grave.
 “Quell'uomo pensava che mia madre volesse sposarsi.” buttò lì Ottaviano, un po' imbarazzato: “Ma lei non vuole sposarsi.”
 Giacomo tentò un piccolo assalto, che il bambino parò per un pelo. Non era certo un asso, con la spada e lo scudo, se veniva messo in difficoltà anche da uno come lo stalliere che con le armi proprio non ci sapeva fare.
 “E che ci sarebbe di male, se vostra madre volessi risposarsi?” chiese Giacomo, cercando di mantenere un tono di voce disteso.
 Ottaviano abbassò un momento lo scudo e lo fissò stranito, poi, provando un nuovo assalto, rispose: “Il suo nuovo marito prenderebbe il mio posto.”
 Giacomo non comprese subito il vero senso di quell'affermazione, ma quando capì, restò folgorato. Non ci aveva mai pensato. Un nuovo marito, per una Contessa giovane e vedova di fresco come la sua Caterina, sarebbe stato un vero attentato al titolo di Ottaviano.
 Per quanto paresse assurdo, Ottaviano aveva molti sostenitori, soprattutto tra quelli che avevano ricevuto favori da suo padre. Dunque un eventuale pretendente ufficiale della Contessa sarebbe stato in pericolo.
 “Ma tanto non si sposerà mai più.” concluse il bambino, riuscendo a colpire Giacomo su un braccio, cogliendolo di sorpresa.
 Lo stalliere si sforzò di sorridere e di dirsi d'accordo con il piccolo Conte.

 “E mia nipote era sulla galea affondata o sull'altra?” chiese con apprensione Ludovico, senza sapere in quale risposta sperare.
 “Non lo sappiamo.” ammise Calco, mostrando i palmi delle mani.
 Quando era arrivata la notizia dell'affondamento di una delle due galee con cui i Fregoso erano scappati alla volta di Roma, il cancelliere aveva subito pensato che quella era una manna dal cielo.
 Era più tranquillo nel sapere una famiglia così difficile da tenere sotto il proprio controllo in fondo al mare, che non a piede libero a Roma.
 Il Moro, invece, era rimasto molto colpito da quella nuova e, ancora prima di chiedere della sorte della nipote, aveva interpellato subito l'astrologo di corte, chiedendo se quel fatto fosse un cattivo presagio per il matrimonio di Gian Galeazzo.
 L'astrologo non aveva capito che collegamento mentale il suo signore avesse fatto, perciò disse che non c'era alcun presagio nefasto per gli Sforza, in quell'affondamento. Meglio non alimentare idee insane che avrebbero mandato a monte importanti affari di Stato...!
 “Come sarebbe a dire che non lo sapete...!” sbottò il Moro, alzando le braccia al cielo in modo volgare.
 “Non sappiamo nulla, davvero. Sappiamo solo che la galea superstite è approdata a Roma, ma non siamo riusciti a scoprire chi sia sbarcato da quella nave...” fece Calco.
 Le due galee che trasportavano i Fregoso, dicevano tutti, si erano imbattute in una terribile tempesta in mare aperto e, benché fossero due imbarcazioni in ottime condizioni e governate da ottimi marinai e da un abile Capitano, avevano avuto enormi difficoltà. Una delle due, appunto, si era letteralmente sbriciolata tra le onde e si era inabissata nell'arco di una manciata di minuti.
 “Scrivete con urgenza al Cardinale Ascanio Sforza. Che paghi delle spie per capire se mia nipote è ancora viva o meno.” decretò Ludovico, stufo di sbattere contro un muro di notizie incerte.
 Calco si inchinò e lasciò il suo signore, senza aver ancora capito in cosa il Moro sperasse di più: scoprire che la nipote si era miracolosamente salvata dal naufragio o saperla morta tra i flutti del Mediterraneo...

   
 
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