Arcobaleno - Il primo appuntamento in technicolor della mia vita
Quando gli ho chiesto dove mi avrebbe portato per il nostro primo appuntamento, Peter ha minimizzato dicendo di aver scelto un po’ a caso fra i mille locali di New York, lasciandosi guidare solo dall’istinto e da quello che gli era sembrato il nome più suggestivo – in questo caso Stardust, ovvero Polvere di Stelle – ma quando varchiamo la soglia del ristorante resto a bocca aperta, perché sembra di essere finiti in una fabbrica di arcobaleni.
Colori, colori ovunque. Alcuni aleggiano come fuochi fatui sopra alle teste dei commensali, altri vagano per qualche istante come palloncini lasciati liberi di volare e poi vanno a sbattere sul soffitto.
Sono i camerieri.
Cantano fra un’ordinazione e l’altra. Proprio in questo momento una ragazza mora e sorridente sta porgendo i caffè agli avventori intonando un motivetto azzurro… Peter sembra confuso quanto me dalla situazione che a lui deve sembrare solo assordante. Lo vedo domandare alla responsabile quale tavolo ci hanno riservato. È proprio al centro del locale, sotto ad archi e archi di arcobaleni che si intersecano.
Mi porge la mano e mima con le labbra Sorpresa.
Ordiniamo due delle voci del menù senza avere la minima idea di quello che ci verrà servito, dal momento che i piatti hanno nomi di musical e star di Broadway e né io né Peter siamo particolarmente preparati sull’argomento: non sappiamo ancora che il mio cappuccino Cats si rivelerà coperto di panna montata e codette fondenti, così come ignoriamo che la sua torta Wicked - gusto menta e cioccolato – sarà tanto forte da assomigliare più ad una torta al dentifricio, ma non ha importanza. Tanto le ordinazioni sono solo un pretesto per poterci fermare più a lungo in questo locale multicolor e non dover mai concludere il nostro primo appuntamento, anche se a dire la verità più che ad un’uscita romantica assomiglia ad una lezione privata di linguaggio dei segni, dato che Peter si ostina a voler imparare a dire parole come fratello e volare nonostante le sue dita siano le più rigide del mondo.
«D’accordo, fratello si dice così»
Formo una L con le dita di entrambe le mani ed alzo la destra all’altezza del mio viso, facendo attenzione che il pollice mi sfiori la fronte. Poi l’abbasso sulla sinistra. Forse l’ho fatto troppo velocemente, perché Peter mi rivolge uno sguardo smarrito. Ripeto tutto al rallentatore, osservano l’espressione sul suo viso rilassarsi. È piuttosto imbranato, ma non ha intenzione di arrendersi.
«E si possono fare anche frasi più complesse?»
Annuisco, sebbene una parte di me sia tentata di dirgli che prima di passare alle frasi più complesse ha ancora molta strada da fare, dato che in questi ultimi venti minuti non ha fatto molti progressi.
«Frasi del tipo “Sei bellissima stasera” » dice sporgendosi sul tavolino per avvicinare il viso al mio. Seguire il labiale diventa piuttosto complicato quando le labbra da leggere sono a pochi centimetri da te «oppure “Vorrei baciarti ancora-»
Questo glielo mostro, anche senza ricorrere al linguaggio dei segni.
Angolo dell'autrice
Le uniche note che volevo dare erano un ringraziamento immenso al lupo Farksas, un saluto a chiunque stia leggendo e la precisazione che il locale che ho descritto nel capitolo esiste davvero ed è il posto più meraviglioso della terra. Quando ci andai io un uomo cantò Under The Sea servendo una zuppa, forse ai frutti di mare.
Un abbraccio a tutti
Itsamess