Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    15/05/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~
 Caterina non attese molto, prima di parlare con sua sorella Bianca, se non altro per non dare tempo a lei e al castellano Feo di confrontarsi prima.
 In linea teorica non riusciva a trovare grandi ostacoli a quel matrimonio, se non la differenza d'età. Tommaso era un uomo leale, deciso e dalla solida morale, e di certo, malgrado tutto, non avrebbe fatto nulla per arrecare dispiacere a Bianca.
 Tuttavia Caterina aveva visto anche troppi matrimoni rovinati dalla mancanza di amore e non poteva permettere che sua sorella si unisse a un uomo credendolo innamorato. Un'unione basata su un inganno sarebbe sicuramente finita molto male.
 Forse sarebbe stato giusto interpellare anche sua madre Lucrezia, per farsi consigliare, ma non c'era tempo. Inoltre, se la cosa non fosse andata in porto, era meglio pubblicizzarla il meno possibile, per evitare lo scorno. Tant'è che Caterina non accennò alla cosa nemmeno con Giacomo, quella sera.
 Così già il mattino seguente la Contessa trovò il modo di restare un momento sola con sua sorella.
 La prese molto alla lunga, chiedendo per prima cosa se Gian Piero Landriani avesse risposto alla proposta di diventare castellano di Imola. Bianca disse che l'uomo era molto lusingato e che presto avrebbe scritto a Caterina per definire meglio i dettagli. Dopodiché la Contessa chiese altre notizie sul padre di Bianca e su Piero, giusto per prendere tempo.
 “Non ti manca, Milano?” buttò lì con casualità Caterina, rendendosi conto improvvisamente di quanto quel discorso la stesse mettendo in difficoltà.
 Non riusciva a introdurre la questione in nessun modo e sentiva che la strada appena imboccata era quella peggiore. Però, anche se forse non era la via migliore, sarebbe stata la più breve per capire cosa esattamente Bianca si aspettasse da Tommaso Feo.
 “Sì, mi manca...” sospirò Bianca: “Ma mi trovo bene anche qui.”
 “Se vuoi adesso puoi tornare a Milano, da nostra madre.” fece Caterina, alzando appena una spalla: “Ti sono grata più di quanto non possa esprimere per quello che hai fatto in questi mesi e per non aver lasciato i miei figli, quando invece avresti potuto accettare il salvacondotto come ha fatto nostra madre. Ma sono bene anche io che non posso tenerti qui in eterno.”
 “Io...” le guance di Bianca si tinsero un po' di rosso: “Io vorrei restare.”
 Caterina annuì leggermente: “Per chi? Per Tommaso Feo?”
 Gli occhi vivaci di Bianca corsero a quelli della sorella, che, per quanto sempre di un colore eccezionale, si erano fatti scuri e distanti.
 “Ne sei innamorata?” indagò Caterina.
 Bianca, visibilmente imbarazzata, mosse il capo in segno di assenso, stringendosi le mani sul ventre.
 “Lui non ti ama.” le parole erano scivolate fuori dalle labbra di Caterina prima che questa potesse frenarsi.
 Voleva mettere in guardia Bianca, voleva proteggerla, ma non era capace di farlo con dolcezza. Non aveva imparato nulla dal fare avvolgente e affettuoso delle sue madri, Bona e Lucrezia. Con un brivido che scendeva nello stomaco, Caterina si domandò che c'era di sbagliato in lei.
 La risposta di Bianca non si fece attendere. Mentre il suo viso prendeva un colore molto più deciso, la ragazza fece una risatina ironica che raggelò il sangue della sorella maggiore.
 “Oh! Certo!” esclamò Bianca: “Tutti amano solo te, vero? Dal castellano, allo stalliere!”
 Caterina fissava la sorella attonita. Quella stoccata faceva più male di qualunque altra cosa. Una cattiveria per una cattiveria.
 “Che c'entra adesso lo stalliere?” domandò, con un filo di voce.
 Bianca incrociò le braccia sul petto, alzando il mento e buttando gli occhi al cielo, fingendosi completamente incredula davanti alla fasulla ingenuità di Caterina.
 Il silenzio tra loro durò parecchi minuti e alla fine a romperlo fu Bianca: “Immagino che tutto questo discorso sia nato perché alla fine Tommaso ti ha chiesto il permesso di sposarmi. Non mi interessa se mi dici di no. Io a te non devo rendere conto di niente. Lo chiederò ai miei genitori e loro non mi diranno di no. Hanno sempre affermato che avrei potuto sposare chiunque avessi voluto, e così farò.”
 “Forse tu puoi anche sposarti senza il mio consenso – attaccò Caterina – ma Tommaso no. È il castellano di una delle mie rocche, spetta a me dargli il consenso per prendere moglie.”
 “E allora, se gli dirai di no, vorrà dire che darà le dimissioni e cercheremo fortuna altrove.” fece prontamente Bianca.
 “Non lo farebbe mai.” controbatté Caterina, senza ombra di trionfo.
 “E perché?” chiese Bianca, accigliandosi.
 Caterina avrebbe voluto risponderle 'perché vuole rimanere vicino a me', ma non ne ebbe il coraggio.
 “Se credi che Tommaso ti renderà felice, non mi opporrò.” cedette la Contessa: “Ti darò io la dote e una piccola proprietà, così sarete in grado di provvedere a voi stessi anche in futuro.”
 Bianca non accennava a sciogliersi, mantenendo un'espressione severa e corrucciata, ancora poco convinta dalla resa della sorella maggiore.
 “Però, se hai anche solo un dubbio in merito, ti invito a ripensarci.” aggiunse Caterina: “Nostra sorella Chiara, la prima volta, ha sposato un uomo che non l'amava e guarda com'è andata a finire.”
 Bianca restò spiazzata da quella affermazione: “Che c'entra? Pietro Dal Verme è morto strangolandosi con la colazione... Si è trattato di una fatalità...”
 “Una fatalità.” fece eco Caterina, con un tono strano.
 Bianca la prese per un braccio e, scuotendola appena, domandò: “Sai qualcosa che io non so?”
 “Non sta a me parlarne.” fece Caterina, già pentita di aver tirato in ballo Chiara e lo spettro di Dal Verme: “Sappi solo che sposare un uomo da cui non si è amate è un errore colossale.”
 Bianca lasciò il braccio della sorella e sussurrò, appena udibile: “Come amarne uno di nascosto.”
 Le due sorelle di guardarono un momento e poi entrambe decisero che quell'incontro poteva concludersi lì.
 “Pensaci. Se non cambierai idea, tu e Tommaso potrete sposarvi, ma in estate. In giugno, magari.” concluse Caterina, lisciandosi il vestito: “Diamo tempo a nostra madre e a tuo padre per venire qui a Forlì e conoscere lo sposo. Inoltre a giugno sarai un po' più grande. Adesso sei troppo giovane, per sposarti.”
 Bianca prese di buon grado quell'ultimo accordo, ritenendolo ragionevole. Mossa un sentimento di gratitudine per la sorella che, malgrado tutto, si era alla fine dimostrata comprensiva, la strinse a sé e le rinnovò tutto il suo affetto con i suoi più sentiti accenti.

 Isabella d'Aragona si sistemò una ciocca di capelli rosso scuro dietro all'orecchio. Le sue dame di compagnia stavano preparando il vestito che avrebbe indossato al primo incontro con il suo sposo.
 Il matrimonio era stato celebrato per procura in dicembre, e da allora Isabella non aveva potuto mettere a tacere l'agitazione. Voleva conoscere Gian Galeazzo Sforza, l'uomo a cui era stata unita agli occhi di Dio.
 Tutti quanti quelli che avevano avuto il privilegio di vederlo le avevano detto che era di bell'aspetto, non molto prestante, ma comunque gradevole e che sapeva essere di grande compagnia.
 Amava la caccia, i cani, le feste e in molti affermavano che sapesse essere molto espansivo, con le persone che amava.
 Dopo la traversata in mare, da Napoli a Genova, Isabella aveva voluto fermarsi un paio di giorni in Liguria, per riprendersi dal viaggio, che l'aveva spossata moltissimo. Il mal di mare non le aveva dato tregua per tutto il tempo e si era sommato alla nausea dovuta all'ansia.
 Ora, però, era finalmente arrivata a Tortona, città in cui avrebbe conosciuto suo marito.
 Le sua serve la vestirono e l'abbellirono come meglio riuscirono. Il colore particolare dei suoi capelli incorniciava il viso dalla pelle olivastra e la sua figura veniva messa in risalto da un abito impreziosito da fili d'oro e piccole pietre preziose.
 Quando furono pronti per uscire, l'unico rammarico di Isabella fu notare come stesse piovendo a dirotto.
 Sotto il gelido acquazzone gennarino, la sposa raggiunse a cavallo lo sposo, che l'attendeva su un disciplinato stallone nero.
 Isabella d'Aragona trattenne il fiato. Gian Galeazzo le piacque immediatamente. Benché avesse già una ventina d'anni, quel giovane uomo aveva tratti efebici e gentili. Le sue labbra erano aggraziate, i suoi occhi dolci e i capelli ricadevano in fini riccioli chiari sulle spalle.
 Isabella avrebbe voluto fargli il baciamano, com'era d'uso a Napoli, ma Gian Galeazzo, che ancora non era riuscito a spiccicare parola, fece affiancare il suo cavallo a quello della sposa.
 Allungò le braccia, come a cercare di abbracciarla e Isabella stava per fare altrettanto, quando lo stallone del Duca di Milano diede una bizza e il tentativo si spense.
 “Pessimo presagio...” sussurrò Calco, il cancelliere di Ludovico il Moro, che stava nel drappello di rappresentanti di Milano.
 I due sposi, invece, non la presero così male e scoppiarono in una sonora risata che, anche se a stento, contagiò anche lo sparuto pubblico.
 Il castellano di Tortona offrì un banchetto a regola d'arte, con musici, attori, mimi e piatti elaborati che riprendevano i miti degli antichi.
 Per tutta la cena, Gian Galeazzo non fece altro che rimirare Isabella, trovandola di una bellezza rara. Doveva ammettere che era molto diversa da come se l'era attesa. La straordinaria avvenenza che gli era stata promessa, mancava quasi del tutto, ma anche un volto irregolare uno strano colore di capelli possono dare come risultato un insieme affascinante.
 Dal canto suo, Isabella non riuscì quasi a mangiare. Sapeva che quella notte avrebbero riposato in stanze separate, perché così era stato deciso, tuttavia quel giovane l'attraeva in un modo tanto naturale e travolgente che quell'attesa le sembrava una presa per i fondelli.

 Innocenzo VIII stava rispolverando un'autorità che il Cardinale Borja non gli aveva visto usare da anni. Le parole con cui si era espresso non davano spazio a repliche e la sua decisione era irrevocabile.
 “Paolo Fregoso – aveva detto – è e resta un Cardinale di Santa Madre Chiesa, esattamente come voi, Borja!”
 Rodrigo aveva chinato il capo, maledicendo quel vecchio solo nei suoi pensieri.
 “Non possiamo abbandonarlo al suo destino così! Già ha perso buon parte, per non dire la quasi totalità delle sue sostanze con l'affondamento di una delle due navi che l'hanno portato fino a qui... Non possiamo certo dimenticarci quello che ha fatto per noi!” aveva continuato il papa.
 Rodrigo avrebbe voluto sottolineare come Paolo Fregoso aveva servito prima gli Sforza e poi se stesso, piuttosto che Santa Madre Chiesa, ma non era il caso di sindacare troppo per un uomo senza futuro. Anche se il papa gli avesse dato modo di ristabilirsi, chi mai avrebbe più dato peso alle parole di quel fuoriuscito?
 Così quel giorno il Cardinale Borja si stava occupando delle carte con cui Paolo Fregoso sarebbe stato insignito di un nuovo titolo. Innocenzo VIII lo voleva accanto a sé, aveva detto, nel piccolo viaggio a Ostia, di lì a un mese circa.
 Una prima uscita così ufficiale sarebbe stata per il Cardinale Fregoso una sorta di rinascita.
 “L'importante – aveva precisato il papa, prima di congedarsi da Rodrigo – è che per il momento non si parli troppo del figlio del Cardinale. Fregosino ci potrà tornare utile, ma per il momento meglio non sollevare gli animi di Milano.”

 A vigevano Gian Galeazzo Sforza e Isabella d'Aragona vennero accolti come principi. La città li celebrò con gioia ed entusiasmo, beandosi della vista di quei due giovani che parevano già tanto innamorati.
 Il banchetto, seguito da una variopinta manifestazione musicale, intrattenne gli sposi e gli ospiti fino a notte inoltrata.
 Quando venne il momento di ritirarsi, Isabella venne condotta nella camera in cui presto anche lo sposo si sarebbe recato per congiungersi finalmente a lei.
 Isabella venne preparata dalle sue dame, che la profumarono, le fecero indossare una sottilissima vestaglia di seta e la riempirono di complimenti e felicitazioni.
 Isabella si sentiva raggiante, felice di aver trovato un marito che le piaceva, un uomo che incontrava il suo gusto e che l'aveva fin da subito trattata con gentilezza. Non poteva credere di essere stata tanto fortunata. Tuttavia, lo sposo si faceva attendere.
 Gian Galeazzo aveva cacciato subito i suoi servi dalla sua camera. Non aveva permesso loro di aiutarlo a cambiarsi e non aveva dato loro la soddisfazione di accompagnarlo fino alle stanze della sposa.
 La realtà era che Gian Galeazzo aveva una folle paura. Non si sentiva pronto. Era preda dell'imbarazzo e temeva di poter rovinare tutto. Isabella era troppo, per lui. Non sarebbe mai stato all'altezza di quella donna, né mai sarebbe stato in grado di amarla come meritava.
 Nessuno lo vide, quella notte, mentre vagava come un'anima in pena per i giardini della Sforzesca, vestito quel tanto che bastava per non congelare in quell'ultima notte di gennaio.
 Il mattino dopo, da Vigevano, partirono numerosi dispacci, diretti in varie corti italiani. Alcuni avevano un tono ufficiale, come quello inviato a Napoli, altri, invece, ricalcavano le lettere di pettegolezzi che si scambiavano normalmente le più curiose caccianaso d'Italia.
 Isabella d'Aragona non avrebbe voluto che la notizia della diserzione del marito dalla sua camera fosse messa così in piazza, ma non poté evitarlo.
 Quando rivide Gian Galeazzo, mentre si preparavano per andare verso Milano, il giovane si comportò con lei in maniera appena più fredda e a poco valsero le parole che la ragazza gli sussurrò appena prima che il Duca si mettesse a cavallo per precederla: “Non importa per stanotte. Avremo tempo.”

 “Per il momento non mi vogliono dare un esercito.” fece Fregosino, con un sospiro che dimostrava tutta la sua frustrazione.
 “È già tanto essere sopravvissuti al naufragio.” gli disse Chiara, cercando di sollevarlo un po': “A quest'ora potevamo essere in fondo al mare, a marcire mangiati dai pesci.”
 Fregosino la guardò con attenzione. Sua moglie, ogni tanto, aveva di quelle uscite un po' macabre. Erano nella sua indole, probabilmente, e le buttava lì senza battere ciglio, come se fosse normale per una donna del suo rango parlare a quel modo.
 In realtà non era la cosa più controversa di Chiara. Fregosino sapeva tutto di lei, perché nei primi tempi del loro matrimonio si erano promessi di essere completamente sinceri l'uno con l'altro e così era stato. Se da un lato Fregosino aveva confessato alla moglie tutte le sue debolezze e la sua ambizione, così lei aveva condiviso con lui la sua sensazione di essere sempre stata una ruota di scorta, per la sua famiglia. Fregosino aveva con lei ammesso di aver sempre sfruttato il nome di suo padre come lasciapassare e Chiara gli aveva confermato che anche lei aveva fatto a volte la stessa cosa con il suo cognome.
 Quando Fregosino le parlato della sua gioventù sconsiderata, Chiara aveva fatto la confessione delle confessioni. Gli aveva raccontato di come aveva ucciso il suo primo marito.
 Fregosino aveva ascoltato, e aveva compreso ogni cosa. Non ne aveva fatto una colpa alla moglie. Chiara aveva ucciso un nemico, né più né meno di quello che faceva lui quando era alla testa dei suoi uomini. Inoltre, se proprio doveva essere sincero, Fregosino si sentiva più tranquillo, nell'avere accanto una donna in grado di uccidere all'occorrenza. Con la vita che conduceva, non poteva permettersi una moglie del tutto indifesa.
 “Non saremo morti, ma la nostra vita ha preso una brutta piega.” fece Fregosino, ancora abbattuto.
 Era vicino alla finestra e rimirava Roma, scossa dalla pioggia, bellissima e triste. Quella notte era caduta una spruzzata di neve, ma alle prime gocce del mattino si era subito sciolta.
 “Non dire così.” lo rimbrottò chiara, avvicinandosi a lui.
 Era stata a lungo indecisa se parlargliene subito o aspettare di esserne più sicura, ma non riusciva più a mantenere il segreto.
 Con delicatezza gli prese una mano e se l'appoggiò sul ventre: “Aspettiamo un figlio.”
 Fregosino dovette sbattere le ciglia molte volte, prima di convincersi che non stava sognando. Ci aveva sperato, ma visto che sua moglie era già stata sposata e non aveva mai concepito, si era quasi convinto che non avrebbero mai potuto diventare genitori.
 Quella rivelazione gli aprì il cuore e Roma, oltre al vetro fradicio di pioggia, gli parve improvvisamente la città più ridente e splendida del mondo.
 Abbracciò Chiara, tanto forte da toglierle il fiato. La giovane, sopraffatta dalla commozione nel vedere la reazione entusiasta del marito, lo stinse a sua volta e in quel momento si rese conto di non essere mai stata tanto felice.
 “Ubi tu gaio, ego gaia.” bisbigliò Chiara, il volto nascosto contro la spalla di Fregosino, ribadendo una promessa che gli aveva fatto il giorno in cui si erano sposati.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas