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Autore: sevenyears    15/05/2016    0 recensioni
Oggi c’è un’aria dolce.
L’aria della primavera che sta iniziando, o dell’estate che sta finendo. Quando tutt’intorno puoi trovare solo distese oceaniche di silenzio, cieli pervinca, gabbiani che se ne vanno lontano, persone che si muovono al rallentatore e ore sfumate.
Cammino lento.
Anche se per la prima volta da tanto tempo c’è qualcuno che mi aspetta, che mi sta aspettando, sta aspettando me, non qualcun altro, non qualcuno di più giovane o interessante o bello o ricco o simpatico, ma proprio me, proprio io. Anche se tutto questo, non riesco ad andare più veloce di così. Per fortuna che sono uscito di casa presto
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oggi c’è un’aria dolce.
L’aria della primavera che sta iniziando, o dell’estate che sta finendo. Quando tutt’intorno puoi trovare solo distese oceaniche di silenzio, cieli pervinca, gabbiani che se ne vanno lontano, persone che si muovono al rallentatore e ore sfumate.
Cammino lento.
Anche se per la prima volta da tanto tempo c’è qualcuno che mi aspetta, che mi sta aspettando, sta aspettando me, non qualcun altro, non qualcuno di più giovane o interessante o bello o ricco o simpatico, ma proprio me, proprio io. Anche se tutto questo, non riesco ad andare più veloce di così. Per fortuna che sono uscito di casa presto, in effetti troppo presto, non perderò mai questa mia mania della puntualità, questa mania assurda e che nessuno apprezza mai quanto dovrebbe, quindi alla fine ho tutto il tempo per arrivare.
Osservo le persone che mi scorrono vicino.
Penso a quando rivedrò Maria Luna, mi chiedo se la riconoscerò subito o lei dovrà venire davanti a me, sventagliarmi una mano davanti alla faccia e dire “oh ma non mi riconosci? Sono tua figlia cavolo, tua figlia”.
Io la guarderei educatamente perplesso, piacevolmente sorpreso di vederla così bella, così più grande, più adulta di quello che mi ricordavo. Le direi qualcosa di stupido e sdolcinato come “come potrei non riconoscerti? Ti riconoscerei tra miliardi di persone, tu sei mia figlia, mia figlia, mia figlia”. Anche se è così strano pensarci ora, perché non mi sento più tuo padre, o un padre in generale.
Sono passati in tempi in cui,
in cui qualsiasi cosa. Non mi ricordo più come sia avere una famiglia. Come sia sentirti ogni giorno e chiederti come stai, quando venite qua, quando facciamo qualcosa tutti insieme. Vederti e dirti ogni volta che ti trovo bene, o male, non importa, se dormi o mangi abbastanza, se hai bisogno lo sai che sono sempre qua, non mi muovo. Constatare che nonostante tu non abbia più bisogno di sentirti dire queste cose, in realtà ti fanno piacere, e sappiamo entrambi che non potrei dirti nient’altro.
Insomma penso a quando la rivedrò, dopo nove anni, nove anni, nove, un’eternità. Mi chiedo per l’ennesima volta cosa l’abbia spinta a volermi incontrare oggi; forse per riaccogliermi nella sua vita, forse per regalarmi un addio definitivo, anche se in realtà fra di noi ce n’è già stato uno, benché io avessi sperato non ce ne fossero altri.
Perché fa sempre troppo male.
Entro nel parco immerso nella luce soffusa del tramonto. È semideserto, a quest’ora, e regna una grande tranquillità. Per la prima volta da tempo, mi sento in pace con il mondo; finalmente posso dire scusa, posso dire che mi dispiace, non avrei dovuto, non avrei voluto, non lo rifarei. Potrò abbracciare mia figlia e prometterle che per quanto io la abbia fatta soffrire in passato, ora possiamo ricominciare in qualche modo.
Penso a quanto sarà diventata bella Annachiara, nove anni ormai, un’eternità, una vita intera. Ho un sussulto pensando che più tardi potremmo andare a casa di Maria Luna, magari lei mi inviterebbe a cena, e finalmente conoscerei mia nipote. Mi hanno detto che ha i miei occhi.
Di questa lontananza durata tutti questi anni, non posso certo fare un torto a Luna. Mi ricordo ancora di quando entrai nella stanza d’ospedale dove era ricoverata Rosetta, mia moglie. Era una mattina di fine marzo. Una mattina normale, una mattina di sole.
Mi ricordo che Rosetta stava molto male, alternava momenti di lucidità a momenti di sonno o confusione o delirio totale. Non era più nessuno che conoscessi, alcune volte mi spaventava starle accanto, ma ero rimasto comunque. Tutti quei mesi, vicino al suo letto, a tenerle la mano, farle promesse, leggerle libri, farle sentire canzoni. Era come prendersi cura di qualcosa che non potrà mai dirti grazie, non potrà mai fare niente se non rimanere inchiodato sopra un materasso freddo e duro, a guardare un po’ te, un po’ il muro, un po’ il paesaggio fuori dalla finestra. A volte farti domande insensate, a volte chiederti scusa per tutto quello che ti sta facendo passare.
Ma ormai eravamo alla fine.
Me lo dicevano i medici, me lo diceva Maria Luna, me lo faceva capire Rosetta con quei suoi occhi grandi e impauriti. Non leggevo rassegnazione, non leggevo quella famosa serenità che si dice si impossessi di coloro che se ne vanno in pace, senza avere timore di niente. In lei vedevo una gran paura, e un senso bruciante di ingiustizia, un “perché proprio a me”.
Indossavo un paio di jeans vecchissimi, una camicia bianca inadatta per qualsiasi cosa non fosse un matrimonio o un battesimo. Avevo preso dei fiori perché l’8 marzo era passato e io me l’ero scordato. Allora prima di arrivare in ospedale avevo comprato qualche rosa per compensare a quella mancanza, sperando che le facessero piacere – nel caso li avesse notati.
Luna piangeva.
Mia moglie le sussurrava qualcosa, faceva fatica a parlare, ma sembrava lucida, le accarezzava i capelli e io pensai di aver interrotto una sorta di commiato prima di partire e andare lontano.
“Papà, come hai potuto fare una cosa del genere” disse invece mia figlia, prendendomi alla sprovvista.
Istintivamente arretrai di un passo, stringendo i fiori. Le chiesi spiegazioni.
Rosetta mi rivolse uno sguardo che interpretai come di scusa. E molte altre cose poco chiare.
Venni a sapere che Luna aveva scoperto tutto. Che Rosetta aveva scoperto tutto. Erano lontani i tempi in cui avrei potuto negare, giustificarmi, fare qualsiasi cosa che non fosse mormorare qualche “mi dispiace” senza forza e senza convinzione. Era passato così tanto tempo, non aveva più importanza.
Ovviamente.
Io e Teresa ci eravamo conosciuti quasi venticinque anni prima. Potrei definirlo un colpo di fulmine, se credessi a questo genere di cose. All’epoca ero sposato da sei anni, e Maria Luna aveva quattro anni. Mi ricordo che ero felice: ero convinto che non mi mancasse niente.
E poi ovviamente fui contraddetto da quegli immensi occhi azzurri, quella risata buffa, il suo fare maldestro, il suo modo di guardarti come se potessi davvero essere interessante, il suo ascoltare attenta e il parlare di qualsiasi cosa entusiasmandosi come una bambina di fronte al mare per la prima volta.
Portai avanti una snervante doppia vita per quasi tre anni: amavo Rosetta, con tutto me stesso, e così anche Luna; non le avrei mai abbandonate, mai. Ma al contempo avevo bisogno di Teresa, perché il pensiero di lasciarla andare mi era insopportabile quanto il pensiero di dovermi amputare un braccio. Ne avevo bisogno. Avevo bisogno di entrambe in modi diversi, e non riuscivo a capire, egoisticamente, cosa fosse meglio per me.
Poi Teresa rimase incinta. In un primo momento passammo intere giornate a cercare un nome, comprando libri su libri, uno più inutile dell’altro. Giocavamo alla famiglia perfetta, anche se non eravamo che un patetico surrogato. Evitai di pensare che quel bambino in arrivo significava che avrei dovuto compiere una scelta, e in fretta. Anche se riconoscevo che l’abbandonare Teresa con un figlio da allevare da sola fosse di una crudeltà senza pari. Ma come avrei potuto lasciare la mia vera famiglia?
Vissi mesi terribili; non riuscivo più a dormire, o a mangiare. Perfino azioni quali parlare o camminare mi risultavano difficili. Mi sentivo come un animale braccato, un condannato a morte in preda a un terrore folle.
Il 12 giugno 1970 nacque Eleonora, una bambina paffutella che assomigliava incredibilmente a Maria Luna. Ma tenendola in braccio per la prima volta mi sentii curiosamente distaccato. Da lei, da Teresa, da tutta quella situazione. Non mi sentivo a casa. Capii che quello non era il mio posto, e non lo sarebbe mai stato. Non so cosa accadde, quel pomeriggio piovoso, ma fu come risvegliarsi da un lungo sonno. O forse, come se qualcuno avesse d’un tratto spento la luce.
Aspettai qualche settimana, poi riferii a Teresa la mia decisione. Penso che si aspettasse qualcosa del genere, dal momento che non si arrabbiò: l’unica cosa che mi disse fu di uscire da casa sua e, gentilmente, di non farsi mai più vedere.
Negli anni seguenti, mi ritrovai a chiedermi spesso che fine avessero fatto. Ma non mi pentii mai di ciò che avevo deciso di fare.
E poi, tutto era tornato. Travolgendomi a tradimento, e senza pietà.
Maria Luna mi urlò, nel corridoio dell’ospedale, che non avrebbe mai più voluto avere niente a che fare con me. Che ero un verme schifoso, che non mi meritavo niente di tutto ciò che sua madre aveva fatto per me in questi anni, che stava aspettando una bambina che non avrei mai conosciuto.
“Pensavo fossi il migliore papà del mondo. Ma sei stata la mia delusione più grande. Addio”
Quando rientrai nella stanza, a testa bassa, avevo il cuore a pezzi. Mi voltai a guardare Rosetta. Volevo chiederle come avesse fatto a scoprirlo. Perché non me ne avesse mai parlato. Perché aveva dovuto dirlo a Maria Luna proprio ora. Proprio ora che non importa più niente.
Ma non dissi nulla. Non ne avevo il coraggio. Ci guardammo in silenzio, poi me ne andai.
Rosetta morì quella notte.
Al funerale, io e Maria Luna non ci rivolgemmo la parola.
E così per nove lunghi anni.
Di lei ricevetti vaghe notizie da amici e parenti. Tacitamente, si erano tutti schierati dalla sua parte. Come biasimarli.
Provai varie volte a mettermi in contatto con lei, fallendo miseramente ogni volta. O non ci provai davvero, non saprei. Forse avevo paura.
Rimasi pressoché solo.
E poi, tre giorni fa.
Quando ho sentito lo squillo del telefono in ingresso, ho pensato che suonasse in casa dei vicini di pianerottolo. Non ricevo mai chiamate.
“Pronto?”
“Sì, chi parla?” ho detto con voce roca, senza ricordare bene cosa si dice quando qualcuno ti telefona.
“Papà, sono…”
“Luna?”
“Sì. Ciao papà”
Ci siamo scambiati qualche convenevole. Ha una voce diversa. Più matura. Con più esperienza. Più sofferenze alle spalle. Io mi sento catapultato in un’altra dimensione. Mi sembra così surreale.
“Volevo chiederti se ti andava di…vederci. Quando vuoi tu” ha detto con una vocina timida.
“Vederci…io…certo che mi va di vederti! Quando vuoi! Quando vuoi”
“È che…ho tante cose da dirti, da raccontarti…dopo tutto questo tempo…avevo anche paura che avessi cambiato numero, per fortuna invece è rimasto lo stesso. Altrimenti sarei passata a casa. È che…mi manchi, papà” ha detto tutto d’un fiato, entusiasta che io mi sia mostrato così felice di sentirla.
Ci siamo accordati per vederci oggi, giovedì, alle sei e trenta, ai giardini. Dove andavamo sempre un’eternità fa, nei nostri pomeriggi segreti a rincorrere le oche, mangiare gelati e costruire case di pane e fiori.
Sono le sei e venticinque, e sono emozionato come un bambino. Come una ragazzina al suo primo appuntamento. Non saprei neanche dire come chi.
Non penso a che cosa potrei dire, a cosa dovrei fare quando lei mi verrà incontro. Non voglio pensarci per non rovinare tutto con qualche stupido comportamento troppo costruito. D’un tratto mi vergogno pensando che il suo primo pensiero sarà “quanto è invecchiato!”.
Ma non importa, in fondo.
Non ha importanza quante rughe abbia tuo papà. Sono cose a cui ci si fa l’abitudine, che si danno per scontate. Così come i capelli bianchi. Come i “non mi telefoni mai, cos’avrai da fare di più importante che sentirmi”. Come tante altre piccole cose stupide.
All’improvviso sento delle voci.
Voci agitate, arrabbiate, di ragazzi che stanno correndo lungo il viale. Sono a un centinaio di metri di distanza da me; sono in tre, e riesco a vedere che sono inseguiti da qualcuno. O potrebbero anche essere tutti dello stesso gruppo, non saprei dire con certezza.
Valuto l’ipotesi di spostarmi: lento come sono non potrei andare lontano, ma sicuramente più lontano. Maria Luna arriverà a momenti, e spero solo che questi teppistelli spariscano in fretta, qualsiasi siano i loro problemi.
Mi alzo lentamente e comincio a camminare costeggiando gli alberi: pochi metri più avanti si apre una stradina che porta al chiosco di gelati. Basta raggiungere quella e trovare un’altra panchina.
E poi si sentono degli spari. Assordanti. Mi volto a guardare cosa sta succedendo, sbalordito: queste cose succedono nei film di James Bond, di certo non al Parco Fontana. Capisco che i tre ragazzi stanno realmente scappando da altri due che stanno guadagnando terreno, ed è uno di questi che ha sparato.
Accelero il passo, con un vago senso di inquietudine e paura.
Poi mi trovo davanti i tre fuggiaschi, con un’espressione di terrore e supplica stampata in volto. Risuona l’eco di un altro sparo, e so cosa è accaduto ancora prima di capirlo davvero.
Uno degli inseguitori non ha buona mira.
Ho appena il tempo di guardare, solo guardare, nemmeno io so bene cosa. È così tutto pieno di colori e luci.
Poi cado nel buio.
   
 
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