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Autore: Adeia Di Elferas    17/05/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Bona di Savoia non osava quasi guardare fuori dalle tendine della carrozza su cui stava viaggiando.
 Non metteva piede a Milano da quando suo cognato l'aveva fatta portare a Pavia, per rinchiuderla assieme ai suoi figli.
 Negli anni la sua condizione era migliorata, passando da quella di una criminale comune a quella di una dama che faceva vita ritirata. Tuttavia, malgrado le molte serve che si prendevano cura di lei, Bona aveva vissuto la sua reclusione in modo molto tragico.
 Non poter più uscire, non sentire praticamente mai il vento sul viso, né la pioggia, né la neve, ma poterne assaporare il profumo solo attraverso una finestra, era stato ciò che più aveva odiato.
 Si riteneva fortunata a non aver perso la vita, ma la sorveglianza che Ludovico aveva imposto era eccessiva, per una donna come lei.
 Aveva ormai una quarantina d'anni, eppure sembrava molto più vecchia. I capelli da biondo chiaro si erano fatti già bianchi e le sue forme avevano assunto la mollezza degli anziani.
 Non avere mai impegni pubblici – né privati – poi, le aveva tolto ogni fiamma vitale, riducendola a una immagine sbiadita della Duchessa che era stata.
 Non aveva più rivisto i figli più grandi, quelli nati da Lucrezia Landriani, ma cresciuti anche da lei con l'amore di una madre.
 Quanto aveva pianto, nel sapere della morte di Carlo. Era stata inconsolabile per settimane. E quanto era stata in pena, nel sentire della morte del primo marito di Chiara!
 E Caterina... Oh, la sua Caterina quante prove aveva dovuto affrontare... Le avevano riferito di Castel Sant'Angelo prima e poi anche delle rivolte che aveva dovuto sedare a Forlì...
 Le notizie, lo sapeva, le arrivavano con un ritardo notevole, dette a mezza bocca da una qualche ancella o, nei casi più fortunati, direttamente da suo figlio Gian Galeazzo. Eppure, anche quando sapeva che erano passate intere stagioni da un fatto tragico, non riusciva a non soffrirne come se si trattasse di una ferita fresca. Per lei, dopo tutto, la era.
 I figli generati da lei in prima persona, invece, li aveva avuto vicini per i primi tempi, ma poi solo Gian Galeazzo e Anna Maria le avevano fatto qualche visita fugace, eludendo le guardie.
 Perfino Gian Galeazzo, che viveva ormai da mesi al castello di Pavia faceva fatica a trovare il modo di andare da lei, anche solo per il tempo d'un rosario.
 Perciò, quando le avevano riferito che le era permesso assistere alla festa per il matrimonio di Gian Galeazzo e Isabella d'Aragona, Bona non aveva potuto credere alle sue orecchie e aveva cominciato immediatamente a prepararsi.
 Da giorni, quindi, si pettinava, pensava a che vestiti indossare e pontificava su come sarebbe stato, tornare a Milano, anche se per poche ore.
 Ora che stava attraversando le stradine coperte di neve che l'avrebbero portata al palazzo di Porta Giovia, l'emozione cominciava a sopraffarla. La vita, che l'aveva accantonata dal giorno del suo arresto, finalmente le tendeva di nuovo una mano ed era una situazione meravigliosa.

 “L'ho trovata un'idea molto astuta, molto... Arguta. Davvero.” stava dicendo il cancelliere Calco, guardando fuori dalla finestra della camera di Ludovico Sforza: “Far accorrere solo i nobili di Milano, senza estendere l'invito ai dignitari esteri...”
 Il Moro allargò le braccia, in modo che il sarto potesse controllare per l'ultima volta se tutte le cuciture erano al loro posto: “I Napoletani vogliono che Isabella sia la signora di Milano, no?” fece, un po' scocciato da quell'ennesima meticolosa prova dell'abito, nemmeno fosse stato lui lo sposo!
 “Certo, certo... Resta il fatto che così facendo in realtà le togliete importanza.” disse Calco, pleonastico.
 Ludovico lanciò un'occhiataccia al sarto, che stava bisbigliando qualcosa su una cucitura che tirava un po' troppo sulla pancia, e disse al cancelliere: “L'importante è che lei non la pensi così, e nemmeno suo padre. Anzi, nella lettera che spedirete alla corte degli Aragona, pretendo che sottolineiate con dovizia di particolari la sontuosità della festa e quanto sia stato opportuno limitare il numero degli invitati.”
 “Dirò che gli invitati erano i migliori, quelli di maggior qualità.” convenne Calco, staccandosi finalmente dal davanzale: “In fondo agli Aragona non serve sapere altro.”
 “Piuttosto...” riprese il Moro, agitando un braccio per liberarsi dalle mani del sarto che, in un eccesso di zelo, stava misurando con espressione critica la stoffa: “È vero quello che mi hanno riferito, sul fatto che mio nipote diserta la stanza della sua sposa ogni notte?”
 Calco sospirò: “È proprio così.”
 Ludovico perse la calma con il sarto e, stringendo i denti, lo congedò a male parole, per poi tornare al cancelliere: “Per ora non è ancora una situazione senza speranza. Se ci chiederanno ragione dell'attesa, diremo che prima voleva anche quest'ultima cerimonia a legittimare il matrimonio.”
 “Ma se anche dopo non...” cominciò a dire Calco, incerto.
 “Al diavolo! È uno Sforza, no?!” sbottò il Moro, mettendo seriamente a prova la cucitura tesa sull'addome: “Ci hanno preso per il naso da sempre dicendo che siamo amatori troppo focosi, non sarà certo lui a smentire questo pettegolezzo! Di tutti i vizi di famiglia che ha preso, di certo ci sarà anche questo, che diamine!”
 Il cancelliere sospirò, guardando il reggente del Duca con scetticismo: “Se lo dite voi... Comunque sarà meglio fargli scoprire la sua attitudine a questo vizio di famiglia, come lo chiamate voi, prima che circolino altre nefandezze su lui. Ho sentito che qualcuno comincia già a dire che il Duca di Milano disdegna la sua sposa perché preferisce compagnie di altro tipo...”
 Il Moro si ingrugnì, inferocito con Calco che sembrava volerlo mettere a tutti i costi di cattivo umore anche in quel giorno.
 “Muoviamoci.” concluse il Duca: “A breve gli ospiti saranno qui.”

 Lucrezia e Gian Piero Landriani occupavano un posto defilato, da cui potevano appena vedere l'altare della cappella ducale.
 Per permettere a quel piccolo ambiente, posto proprio dinnanzi alle stanze di Ludovico Sforza, di ospitare comodamente gli invitati, erano state preparate delle gradinate. Ovviamente i presenti erano stati sistemati in ordine di importanza e così ai coniugi Landriani, invitati per pura gentilezza dello sposo, erano finiti nei posti peggiori.
 A Lucrezia, però, bastava esserci.
 Non ci sarebbero state le nozze vere e proprie, quel giorno, ma una sorta di spettacolo, ideato e creato dal maestro Leonardo. L'altare era stato trasformato in palcoscenico e ogni dettaglio, dagli addobbi floreali ai festoni richiamavano la Spagna, terra d'origine della sposa.
 Lucrezia guardava la cappella che si stava man mano riempiendo e di quando in quando riconosceva volti noti, che avevano bazzicato la corte anche al tempo di Galeazzo Maria.
 Quando entrò una donna dall'aspetto dimesso, con indosso un vestito fuorimoda e una reticella sobria a coprire i capelli bianchi, Lucrezia all'inizio non la riconobbe. Solo quando i loro sguardi si incrociarono un momento, rivide nelle iridi tranquille e pacate quelle di Bona di Savoia.
 Senza riuscire a trattenersi, Lucrezia agitò una mano verso di lei e Bona le sorrise immediatamente.
 Dopo aver scambiato due parole con le guardie che le facevano da scorta, la donna raggiunse l'amica di una vita, incurante degli sguardi che si stavano puntando su di loro.
 Senza doversi dire nulla, le due si abbracciarono con forza, contravvenendo a ogni etichetta e cominciando a piangere in silenzio.
 
 Ludovico il Moro vestiva alla spagnola, come molti invitati, per rendere omaggio alla nuova Duchessa. Il liscio velluto morello, foderato di zibellini e la cappa di panno nero foderata in broccato d'oro, lo facevano sembrare anche un po' meno pingue di quanto non fosse.
 Il suo incedere tronfio e cadenzato avrebbe fatto credere a chiunque che l'ospite d'onore fosse lui.
 Poco dopo, però, l'attenzione dei presenti venne catalizzata da quello che era in realtà il vero Duca di Milano.
 Snello, dai tratti delicati e dai capelli soffici e curati, Gian Galeazzo procedette fino al suo posto con la leggerezza dei suoi vent'anni. Non vestiva alla spagnola, ma con gli abiti indossati il giorno del matrimonio per procura. A molti questa cosa piacque, mentre altri trovavano che sarebbe stato meglio per il nipote vestirsi come lo zio.
 Bona e Lucrezia, che si erano sedute vicine, si tenevano per mano e, commosse, guardavano quel ragazzo che da bambino avevano cresciuto assieme. Avrebbero voluto parlarsi di mille cose, farsi l'un l'altra milioni di domande, ma sapevano di avere poco tempo e preferivano passarlo condividendo quel momento.
 Per ultima, in modo da godersi appieno l'ammirazione e l'attenzione di tutti quanti, arrivò la sposa: Isabella.
 Le sue spalle erano coperte da un mantello di seta bianca, sopra una giubba broccata d'oro in campo bianco. Le perle e alcune pietre preziose erano state intessute nell'abito in modo da renderlo coloratissimo e sgargiante. I suoi capelli, di un rosso scuro come il sangue, spiccavano come non mai, rendendola unica, come un rubino in mezzo alla ghiaia.
 Quando tutti si furono seduti e fu fatto silenzio, i musici cominciarono a dar fiato a pifferi e tromboni, sotto la supervisione attenta di Leonardo da Vinci, il domine magister di cui il Moro andava tanto fiero.
 Dopo poche note, i suonatori fecero silenzio e attaccarono i tamburini, che iniziarono con i ritmi scatenati delle danze napoletane.
 L'oratore regio annunciò che sarebbe stata la festeggiata, la Duchessa Isabella, ad aprire le danze e così la sposa di Gian Galeazzo scese dalle gradinate, senza farsi pregare e, da sola, si mise a ballare all'uso napoletano, incantando tutti con le sue movenze.
 Finita la prima danza, fu la stessa Isabella a coinvolgere alcune dame del pubblico, tra cui Cecilia Gallerani, nel ballo, mettendo in scena alcune tra le più belle coreografie spagnole.
 Il programma ideato da Leonardo proseguì senza intoppi, tra maschere vestite alla spagnola, alla polacca, all'ungherese, finanche da turchi a cavallo. Poi fu il turno della rappresentazione del Paradiso, con un bambino vestito da angelo a dare il via alla messinscena. Una girandola indicibile di divinità, ninfe, segni zodiacali, Grazie e Virtù che lasciarono gli spettatori senza fiato.
 Leonardo osservava il suo lavoro con entusiasmo e compiacimento. Quella festa sarebbe stata ricordata da tutti coloro che vi avevano assistito e ne avrebbero parlato per tutti i secoli a venire, ne era certissimo.
 
 Quando a tarda ora lo spettacolo si concluse, le guardie tornarono a reclamare Bona, per condurla in isolamento, prima del viaggio di ritorno a Pavia.
 Lucrezia la salutò con trasporto, con l'orribile sensazione che non si sarebbero mai più riviste.
 “Caterina ha chiesto a me e a mio marito di raggiungerla a Forlì.” aveva sussurrato a Bona, mentre guardavano il Paradiso prendere forma davanti a loro: “Partiremo il prima possibile.”
 L'altra aveva intuito cosa sottostava a quella confidenza e così, nel momento in cui si congedarono, anche lei prese quell'abbraccio come l'ultimo.
 “Salutami Caterina e dille che non le ho mai fatto una colpa di quello che mi è successo.” sussurrò Bona, prima di lasciare la stretta di Lucrezia: “Lei capirà.”
 E così, mentre la piccola folla si diradava, uscendo alla spicciolata dalla cappella, parlando con entusiasmo della festa appena conclusasi  - già ribattezzata da tutti 'la festa del Paradiso' – Lucrezia e Bona si lanciarono l'ultimo sguardo carico di comprensione e malinconia, entrambe perse nel ricordo degli anni che avevano condiviso in quello stesso palazzo in quella che sembrava ora un'altra vita.

 Il 15 febbraio Isabella Este entrò in Mantova come nuova signora della città e sposa legittima di Francesco II Gonzaga.
 I suoi sedici anni le battevano nel petto con irruenza, mentre passava a cavallo in mezzo ai suoi nuovi sudditi. Le nozze con il suo signore erano state celebrate per procura nemmeno una settimana prima, e Isabella cominciava a capire solo in quei giorni cosa sarebbe significato diventare la moglie di un uomo tanto potente.
 La sfida, però, non la spaventava, tutt'altro. Isabella Este era stata istruita fin da bambina al meglio, proprio per prepararla a un futuro come quello. Anche sua sorella Beatrice aveva ricevuto – e stava ancora ricevendo – un'educazione completa. Tuttavia Isabella aveva sempre dimostrato un'attitudine naturale nei confronti delle arti e dello studio e nessuno riusciva a essere più acuta di lei, quando si trattava di diplomazia. Non a caso, suo padre si era detto molto felice di quel matrimonio, ma non tanto perché in quel modo stava dando un buon marito a sua figlia, ma perché si stava assicurando un'ottima mediazione diplomatica tra Ferrara e Mantova.
 Isabella cercava di rallegrarsi anche del fatto che suo marito era un soldato abile e, a detta di molti, un uomo giusto e dal carattere piacevole. Non era sufficiente a garantirle un buon matrimonio, ma era già una buona partenza. E poi era pur sempre un uomo potente.
 Certo, sua sorella sarebbe diventata la moglie di Ludovico Sforza, il reggente del Duca di Milano, ma lei era la signora di Mantova.
 Non voleva illudersi, però. Non voleva neppure figurarsi scenari apocalittici senza che ve ne fosse motivo. Perciò non fece altro che ribadire a se stessa il suo motto, quello che l'accompagnava fin dalla più tenera età.
 “Nec spe, nec metu.” continuava a ripetersi, mentre la gente gridava il suo nome e quello di suo marito: “Nec spe, nec metu.”
 
 Il freddo non voleva lasciare Forlì e la neve cadeva con una certa regolarità, coprendo i campi e facendo congelare i soldati di ronda alla rocca di Ravaldino.
 Per via del clima immite, Lucrezia aveva avvisato che lei e la sua famiglia avrebbero ritardato il loro viaggio, sperando in una primavera clemente.
 Aveva descritto attentamente la festa tenuta in onore di Isabella d'Aragona e non aveva mancato di raccontare alle figlie l'incontro con Bona di Savoia.
 Caterina era stata tanto sollevata nel leggere di come Bona fosse ancora viva e discretamente in salute, che per giorni fu di umore tanto allegro da sorprendere chi viveva con lei alla rocca.
 Addirittura, in quel periodo, evitò perfino di lanciare le sue solite frecciatine a Bianca e Tommaso, come faceva di solito per cercare di farli ragionare. Di fatti, il loro proposito di convolare a nozze non si era affatto spento con il passare delle settimane, anzi, se possibile, sembravano sempre più decisi.
 Bianca cercava di passare più tempo possibile assieme al castellano e Tommaso non tentava più di sottrarsi a tutte quelle attenzioni.
 Ottaviano aveva capito prima dei suoi fratelli quello che sarebbe accaduto, benché Caterina avesse imposto ai due fidanzati di non parlare con nessuno della loro intenzione di sposarsi, per evitare un mezzo scandalo, nel caso in cui si fossero lasciati prima di raggiungere l'altare.
 Il piccolo Conte era oltremodo felice di quell'unione. Adorava il castellano Feo e saperlo innamorato – o così almeno gli era parso – di sua zia Bianca era il massimo.
 Per un po' si era convinto che Tommaso provasse qualcosa per sua madre, che, comunque, lo aveva sempre vistosamente tenuto a distanza e tanto era bastato a Ottaviano per continuare a stimare il castellano e a cercarne la compagnia.
 Con lo stalliere Giacomo, invece, le cose avevano iniziato a incrinarsi, nel momento in cui il Conte si era accorto di come sua madre guardava il Feo più giovane.
 All'inizio non vi aveva dato peso. Con i suoi quasi dieci anni, per quanto si credesse sveglio, non poteva capire appieno la portata di alcune occhiate fugaci tra un uomo e una donna e così gli era sfuggito un dettaglio fondamentale.
 Nel vedere come sua madre aveva iniziato a presentarsi sempre più spesso alle sue sedute di allenamento, in principio Ottaviano aveva creduto che la donna volesse solo vedere coi suoi occhi i suoi miglioramenti. Poi si era reso conto che Tommaso si faceva insofferente alla presenza combinata di Giacomo e della Contessa e la tensione tra i tre si faceva palpabile.
 Infine, quel modo che sua madre e lo stalliere avevano di sorridersi, di sfiorarsi appena quando passavano l'uno accanto all'altra, o di scambiarsi frasi brevi e spesso strane, che solo loro capivano, come se si fosse trattato di una loro lingua privata... Tutte quelle cose lo avevano convinto che lo stalliere era innamorato di sua madre e lei di lui.
 La sola idea che quell'uomo potesse un giorno sostituirsi al suo defunto padre, lo faceva infuriare.
 Per il momento, però, Ottaviano non voleva rendere palese la sua crescente avversione nei confronti di Giacomo e si limitava a colpirlo con più forza del solito, quando si allenavano con la spada, o a sminuirlo quando ne parlava con i suoi fratelli Cesare e Bianca.
 
 Com'era ormai consuetudine, la moglie di Bernardino stava aiutando la sua padrona a prepararsi per la notte.
 Caterina aveva lasciato che fosse la sua dama di compagnia a metterle la crema di bellezza sul viso, tenendo fede alla promessa che le aveva fatto, cioè di lasciarla essere una cameriera a tutti gli effetti.
 La donna aveva appena finito di spalmare il composto, fresco e liscio, creato di sua idea dalla Contessa, sul suo viso, quando lo stalliere entrò nella camera, senza nemmeno annunciarsi.
 La cameriera non fece nemmeno una piega, abituata a quel punto alla presenza di quell'uomo.
 “Ottaviano oggi mi ha fatto sudare, nel cortile, anche se cominciava a nevicare...” disse piano Giacomo, buttandosi sul letto con uno sbuffo.
 Caterina non gli rispose, perché la sua dama di compagnia stava dando gli ultimi colpetti con i polpastrelli proprio vicino alle labbra.
 Giacomo allora la guardò e, capendo il motivo del silenzio, ridacchiò: “Credo che un briciolo di vanità vada bene, basta che non diventi un'ossessione, però...!”
 Caterina fece un sorrisetto ironico, controllando allo specchio il risultato del trattamento. Il profumo della crema le piaceva moltissimo. Era sempre più decisa a tenere quella composizione come mistura definitiva.
 “Vi aiuto a indossare gli abiti per la notte?” domandò la dama di compagnia.
 In realtà la Contessa non si faceva quasi mai vestire per la notte. Chiedeva le vesti per dormire solo quando lo stalliere non era ancora nella stanza, altrimenti, dopo i trattamenti di bellezza, a quella rispondeva sempre che si sarebbe cambiata più tardi da sola.
 Quella sera, però, a parlare fu Giacomo, che, puntellandosi su un gomito, sorrise affabile e insinuante allo stesso tempo: “Oh, non datevi pena per un lavoro tanto inutile. Se anche la vestiste, tra pochi istanti la spoglierei di nuovo io in ogni caso...”
 La moglie di Bernardino, che pure accettava senza batter ciglio il fatto che la Contessa avesse un amante, restò basita da quell'affermazione tanto audace.
  “Ma che dici...!” ridacchiò Caterina, dando uno sbuffo all'aria, come a zittire Giacomo, ma poi si rivolse alla cameriera, con ancora un lieve rossore sulle guance: “Andate pure, per stasera non ho bisogno altro.”
 La moglie di Bernardino lasciò la stanza con un profondo inchino. Quello scambio di battute le aveva lasciato addosso una stranissima sensazione. Che la Contessa fosse pazza d'amore per quel ragazzo era chiaro da tempo, ma che gli permettesse di parlare a quel modo davanti a una serva...
 Mentre allungava il passo per raggiungere l'alloggio che la Contessa aveva concesso a lei e a suo marito Bernardino, la donna continuava a rimuginare su una serie di dettagli che l'avevano un po' sorpresa in quegli ultimi tempi e non si accorse che nella penombra c'era Ottaviano.
 “Sei in anticipo, stasera...” fece Bernardino, che stava aspettando la moglie all'imboccatura delle scale.
 “Non ho dovuto cambiare la Contessa – sussurrò la donna, convinta che nessuno fosse in ascolto, ma comunque conscia di star toccando un argomento proibito – perché stanotte lo stalliere Feo è arrivato prima del solito e così la Contessa mi ha lasciata libera di andare.”
 “Bene... Meglio così, no?” fece Bernardino, prendendo la moglie sottobraccio, contento che entrambi avessero già concluso gli impegni della giornata.
 “Non so... Per me la Contessa è come impazzita, con quel ragazzino...” scosse il capo la domestica, lasciandosi guidare dal marito giù per le scale.
 Ottaviano era riuscito a sentire ogni parola, ma il senso in parte gli sfuggiva. L'unica cosa che aveva capito senza ombra di dubbio era che in quel momento Giacomo Feo era nella camera di sua madre e che non era la prima volta.
 Stringendo i piccoli pugni lungo i fianchi, Ottaviano restò immobile a lungo, prima di riuscire a ritrovare la calma necessaria per tornare nella stanza assieme ai suoi fratelli.
 Sua madre, che già si comportava come se la morte del marito fosse stata una benedizione e non una tragedia, ora si intratteneva con uno stalliere. Era molto più di quello che il bambino potesse sopportare.
 Avrebbe scritto al Cardinale Sansoni Riario, avanzando dei dubbi. Gli avrebbe fatto presente che le sue erano solo supposizioni, ma glielo avrebbe comunque riferito. In fondo Raffaele era un Riario e avrebbe fatto di tutto per difendere la memoria del defunto Conte Girolamo.

   
 
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