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Autore: nainai    11/04/2009    0 recensioni
In Città ci sono solo due colori: nero e rosso. Ed un ragazzo che credeva che non si sarebbe mai arreso a questa evidenza.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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THANK YOU FOR THE VENOM
 
Era nato il 9 Aprile del ’77. Segno zodiacale ariete, ascendente cancro.
Già dalle sue stelle si sarebbe potuta leggere la sua vita futura: di come i sogni ad occhi aperti lo avrebbero segnato irrimediabilmente. D’altronde neppure ci aveva provato davvero a rimanere sveglio in mezzo a quel frastuono borioso che era il suo mondo.
Il mondo di G. aveva solo due tinte: il nero della china violenta con cui Dio aveva tagliato i contorni della realtà di quella Città, per poi dimenticarsene subito dopo; ed il rosso della trivialità bestiale che insozzava ogni cosa sopra quella violenza, il rosso che macchiava ugualmente la sensualità a basso costo di un bordello, la miseria senza nome di un barbone in strada o la tavola senza amore di una casa celebrata nel sacro vincolo del matrimonio.
In quel rosso che sporcava di sé anche le parole false degli amanti di turno, G. sognava di un sonno a mille colori dal quale nemmeno provava a staccare gli occhi, spalancati su una realtà che non vedevano ed in cui non riuscivano a confondersi.
Perché gli occhi di G. erano verdi. E se non fossero bastati i suoi occhi, sarebbero state le sue mani che, tenendo ferma la punta del carboncino su un foglio, avrebbero finito per disegnare i suoi colori. I colori erano la condanna di G. segnata nelle stelle, in quell’ascendente troppo debole e sognatore che lo faceva deragliare dalle linee dritte e nette e nere di Dio e che trasmutava il rosso in viola, il viola in blu. Il blu in verde. Il verde in giallo, il giallo in arancio, l’arancio in rosa…
Il rosa mai in oro. Mai niente in oro. Un’alchimia inutile, di una magia che in Città valeva poco. Anzi nulla.
 
Era nato il 9 Aprile del’77. Suo padre lavorava in fabbrica, sua madre neppure quello; aveva anche un fratello. A dover scegliere, nella vita di G. ci sarebbe stato un impiego alla buona in qualche ufficio, grazie a quel poco che i suoi gli avevano fatto studiare; o al più un lavoro giù al porto, di quelli pesanti ma che rendono bene, grazie alle braccia ed alle spalle di cui Madre Natura lo aveva fornito. Ma di alchimie senza mercato, la vita di G. non aveva bisogno. Né i suoi colori cambiavano davvero il segno nero sulla tela di Dio.
Quando suo padre se n’era andato, quando sua madre si era consumata nel silenzio del cancro per morire nel rosso dell’indifferenza, quando suo fratello aveva visto la Città e la Città lo aveva fagocitato reclamando un tributo in sangue, ossa e nervi, tutti i colori di G. non erano bastati a cambiare la sola alchimia che valesse qualcosa. Quella che dal nero e dal rosso tirava fuori l’oro.
E l’oro in Città nasceva dalle pistole – il nero ce lo metteva la polvere da sparo, il rosso i fori tondi lasciati dai proiettili – dai doppiopetti e dai gessati su scarpe lucide in vernice. Era l’oro degli assassini, delle puttane, dei ladri e degli usurai. L’oro che li teneva tutti a paga sullo stesso libro.
All’inizio il nome di G. su quel libro non c’era.
All’inizio la magia senza valore dei suoi sogni era servita quantomeno a preservarne il nome.
All’inizio.
 
Helena era nata il 27 Gennaio del’79.
Nelle sue stelle c’era scritto che lei era diversa. Lo era il suo colore: il bianco della pelle, il biondo dei capelli, l’azzurro degli occhi, il rosa della bocca. Tutto il colore della Città, Dio lo aveva rubato al quadro di nero e rosso per darlo a lei, che non era tagliata sulla tela ma dipinta: tonda e morbida, curva come i seni alti, i fianchi larghi, il ventre piatto. Curva della curva magra delle braccia flessuose, della vita piccola, delle dita nervose, delle gambe lunghe.
Helena era diversa. Come può esserlo un oggetto alieno precipitato nel mondo da uno spazio incalcolabile. Helena era precipitata nel mondo che era la Città disegnata da Dio e si era conficcata come un asteroide impazzito: nessuno sapeva chi fosse, nessuno sapeva da dove venisse. Nessuno capiva i suoi occhi chiari e tondi, enormi, che di lei non nascondevano nulla, perché Helena si rifletteva tutta intera in quei due occhi. Ma proprio per questo la Città non li capiva.
 
Helena era nata il 27 Gennaio del’79. A paga sul libro nero della Città ci era finita subito, appena i suoi occhi di ragazzina si erano sollevati in faccia al mondo ed il mondo si era accorto di lei.
Perché era bella come lo sono sempre le cose sbagliate in una realtà che va nella direzione opposta. Ed era diversa di una diversità troppo evidente per poter essere risparmiata.
Così non lo era stata. E dai bordelli a basso costo del centro era salita lungo la scala del libro nero, su su fino alla cima fatta di diamanti e pellicce e circondata dal gessato in scarpe di vernice delle pistole.
Helena apparteneva all’oro della Città quando G. la vide la prima volta.
Philip
  ***
La Città. Quando ci entri ne resti impressionato: sbalordito, affascinato o schiacciato, mai indifferente. Eppure la Città non è niente; per me che arrivavo dalle periferie fumose addossate alla zona industriale si era trattato di sostituire i cieli grigi e malati della mia infanzia con le sagome nette e spigolose dei palazzi del Centro, sollevati contro quegli stessi cieli per chiudere ogni spazio e respiro. Ero arrivato carico di aspettative, questo sì. E quelle aspettative portavano con sé un po’ troppo del male sordo che mi aveva lasciato la morte di nostra madre.
A quell’epoca mio fratello non faceva già più parte della mia realtà quotidiana. Quando nostro padre se n’era andato di casa, non era passato molto tempo prima che G., in qualche modo, lo seguisse. Credo che avesse bisogno di allontanarsi per rimanere vivo, restare se stesso. Ha sempre continuato ad aiutare me e nostra madre per come poteva, a volte facendo anche più di ciò che sarebbe stato giusto aspettarsi.
Io lo sapevo. Mi ero abituato alla sua assenza tanto quanto lo ero alla sua presenza a distanza. Mi ero abituato ad avere le spalle coperte comunque, giustificato dalla mia età e dalla solitudine per qualunque cosa facessi. Il mio egoismo cresceva di pari passo con la paura e fu con entrambi quei sentimenti addosso che bussai alla porta di mio fratello un mese dopo la morte di nostra madre.
E fu sempre allo stesso modo che uscii da quell’appartamento sei settimane più tardi.
 
La notte in cui tutto è cominciato pioveva.
Mio fratello dice che in Città la pioggia è fatta da gocce di china, nere e sottili come fili di rasoi. Dice che si piantano al suolo, sui mattoni, sull’asfalto o sulle persone con la stessa rabbia violenta, e che rimangono conficcate lì.
Io quella notte me le sentivo tutte addosso. Conficcate ovunque tra i muscoli doloranti. Mio fratello rispose al quinto squillo; erano quasi le quattro del mattino, non mi stupì sentire la sua voce impastata dal sonno.
-…pronto?- mormorò distratto.
Fu quando aprii la bocca per rispondergli che cominciai a piangere.
-Mikey?! – realizzò lui. Ed il suo tono tornò chiaro e deciso, mentre in sottofondo distinguevo i rumori che faceva nel tirarsi dritto nel letto.- Michael, dove sei?- mi chiese con urgenza, ma non mi diede il tempo di rispondere- Stai bene?- insistette.- Cosa succede? Mikey, parla!
Trattenni il fiato finché le lacrime ed i singhiozzi non rimasero incastrati in gola. Per tutto quel tempo anche mio fratello trattenne il fiato allo stesso modo.
-Posso…posso venire lì da te?- lo implorai.
È stato così che ho fatto iniziare tutto.
Mikey
***
Mio fratello ha tre anni meno di me. Da quando entrambi siamo al mondo, ho sempre pensato che Michael mi fosse stato affidato, che fosse mio dovere proteggerlo in tutte quelle situazioni in cui non potevano essere i nostri genitori a farlo.
Non ce n’erano state molte fino a quando nostra madre non aveva cominciato a stare male, giusto qualche scazzottata giù a scuola: Mikey era troppo magro, troppo mingherlino e silenzioso per non richiamare l’attenzione dei bulli del quartiere. Per la verità la mia adolescenza era stata segnata dalle botte tanto quanto quella di mio fratello, almeno finché non ero diventato troppo grosso per rappresentare un divertimento a basso rischio. Ma Mikey grosso non ci è mai diventato, è sempre stato sottile e nervoso come nostro padre, dal sangue di nostra madre non ha preso quasi nulla se non forse la tendenza malsana all’abbandono.
La verità, però, è che sono sempre stato un vigliacco, perfino più di Mikey, e quando mio padre se n’è andato ho fatto la scelta più facile imboccando la stessa porta. Sapevo di non poter chiedere a mio fratello di prendere il posto di nostro padre, che spettava a me di diritto, e non l’ho fatto. Mikey, del resto, non ha avuto così tanto coraggio in più e non se l’è preso, preferendo restare ancora un bambino all’ombra di nostra madre. Un equilibrio che ha vacillato nell’attimo stesso in cui la diagnosi è piovuta sulla testa di mio fratello come una condanna. La condanna che gli imponeva di prendere atto della vita vera.
Per quanto io possa essere stato presente nell’esistenza di mio fratello dalla distanza di comodo che avevo adottato all’indomani della mia fuga, di fatto ho mancato a quegli stessi doveri di cui mi ero fatto carico nel vederlo nascere. Non l’ho protetto. Non l’ho protetto affatto. E qualsiasi colpa, di cui mi sono macchiato dopo, è stata solo la conseguenza di quel primo peccato. Qualsiasi dolore, la mia espiazione.
 
Quella notte pioveva. Aprii la porta anche se non ero neppure certo di aver davvero sentito bussare; sui vetri dell’appartamento la pioggia batteva talmente furiosa da coprire qualsiasi altro suono e non c’erano altri suoni se non il rumore del mio respiro: Mikey era stato attento a non disturbare la pioggia. Sapevo che, in realtà, stava solo cercando di rimandare il momento in cui ci saremmo ritrovati faccia a faccia di nuovo. Per più di quattro mesi mio fratello era sparito senza lasciare traccia. All’inizio, dopo aver lasciato casa mia, per un po’ si era limitato a gironzolare come un cane randagio: non lo vedevo per due…tre giorni, a volte anche una settimana. Poi tornava, sporco, sfatto e depresso. Non mi ci voleva molto a leggere la sua inquietudine nervosa, quella con cui misurava il mio pavimento mentre io gli davo le spalle e, seduto al tavolo da disegno, lavoravo in un silenzio che entrambi sapevamo carico di domande e di risposte non formulate. Immagino sia stato il peso di tutte quelle parole a far nascere in Mikey il desiderio di non guardarsi più indietro. Non so, invece, dove abbia trovato la forza di realizzarlo, ma so che erano quattro mesi che non lo vedevo quando aprii la porta quella notte.
Mikey non piangeva più. Stava perfettamente immobile, esattamente al centro del rettangolo dell’ingresso. Aveva lo sguardo basso nascosto dietro un groviglio impiastrato di capelli bagnati, le mani affondate nelle tasche di una giacca troppo grande, le spalle cadenti e le labbra arricciate sui denti. Mi accorsi che li digrignava, come se si stesse sforzando per rimanere zitto e fermo. Era talmente bagnato che l’acqua, cadendo dai vestiti, aveva formato una pozza scura ai suoi piedi. Mi domandai da quanto stesse lì fuori.
-Mikey…- lo chiamai in tono basso e stupito.
Avevo paura. Non di lui, è chiaro: avevo paura dei suoi occhi lucidi di febbre, che intravedevo sotto il biondo sporco dei capelli, e del suono raschiante, anche se bassissimo, dei suoi denti che sfregavano con violenza.
Non mi rispose. Credo non ne fosse in grado, era raggelato in una realtà diversa dalla mia e non sembrava capace di fare quell’unico passo che ci separava.
Allungai io la mano per lui, sporsi il braccio fuori la porta e, quando lo toccai, mi sentii meglio nel rendermi conto che era vero. Presi forza da quella sensazione, strinsi di più le dita e lo tirai dentro.
-Vieni al caldo.- aggiunsi in modo più fermo.
Incespicò ma attraversò la soglia, rigido come una bambola, ed io gli richiusi alle spalle il battente.
-Per prima cosa troviamo qualcosa di asciutto.- annunciai mentre lo lasciavo lì da solo a riprendere confidenza con il buio che occupava l’appartamento.
Nel rendermi conto che gli abiti di Mikey rimasti in casa erano totalmente inutili contro il freddo di quella notte, mi ritrovai ad avvertire un fastidioso senso di oppressione all’altezza della bocca dello stomaco; e più mi ci concentravo per decifrarlo, più quello si trasformava in una nausea latente e sorda. Tentai di scacciarla sfogandomi sull’anta dell’armadio, si chiuse con uno schianto sofferente quando le tirai una manata sbrigativa e volutamente violenta. Presi una delle magliette di mio fratello, una mia felpa ed un paio di pantaloni della tuta e ritornai veloce sui miei passi. Mikey si era accoccolato sul divano. Stava seduto ad una delle due estremità, schiacciato contro il bracciolo consunto, le braccia strette attorno al corpo ed ancora tutti gli abiti fradici addosso. perfino il giaccone.
-Mikey, cambiati.- lo pregai allungandogli i vestiti asciutti.
Lo lasciai fare e raggiunsi il cucinino per mettere su del caffè. Quando gli portai la tazza fumante, mi guardò con riconoscenza.
-Cos’è successo?- mi decisi a chiedergli dopo essermi sistemato a terra, davanti a lui, ed aver aspettato che mandasse giù uno o due sorsi e smettesse di tremare.
Fece un ghigno sghembo che mi impressionò molto poco: qualunque potesse essere il problema lui era lì, davanti a me, e questo mi dava la possibilità di vedere che era vivo e stava bene.
-Perché pensi che sia successo qualcosa?- mi ritorse a voce bassissima.
-Non saresti tornato.- ammisi senza accusa.
Mikey ricominciò a tremare immediatamente, non appena io ebbi finito di formulare quella frase; sembrava sul punto di scoppiare nuovamente a piangere ed io mi preparai a quell’eventualità. Non successe, lui posò la tazza a terra tra noi due, con tutta l’accortezza che gli permettevano le sue mani impacciate, poi affondò il viso tra le dita, piegato in avanti sulle ginocchia, ed io potevo scorgere solo i suoi capelli arruffati e sporchi. Aspettai, e quando fui sicuro che non avrebbe parlato di sua volontà, allungai una mano e la intrecciai delicatamente alle ciocche disordinate.
-Mikey.- lo chiamai dolcemente, avvertendo che si rilassava sotto quella carezza.- Devi dirmi cosa è successo.- chiesi. Rabbrividì e soffocò un singhiozzo.- Non posso aiutarti se non mi parli.- insistetti piano, continuando ad accarezzargli la nuca e le spalle nella speranza che si calmasse. – Qualunque cosa sia,- gli promisi- non ti lascerò solo ad affrontarla.
Avrei voluto aggiungere che ci avrei pensato io per lui, che avrei affrontato qualunque cosa potesse averlo ridotto in quello stato. Nel mio essere ingenuamente ottimista non avevo certo previsto che i fantasmi di mio fratello potessero essere reali.
Mikey rialzò il viso, mi guardò con quegli occhi accesi e spaventati ed io mi obbligai a ricambiare il suo sguardo in silenzio, mentre lui stabiliva se fossi davvero la persona in grado di aiutarlo. Poi mi disse tutto.
G.
***
Mio fratello non lo sapeva, lui non aveva idea di quanto in fretta si può crescere quando all’improvviso ti ritrovi per strada e non c’è nessuno accanto a te per dirti di stare attento. Per certi versi lui è riuscito a scendere su quella strada senza esserne toccato affatto: a distanza di anni nel guardarlo negli occhi ritrovavo lo stesso ragazzo che aveva chiuso la porta di casa davanti a me e mia madre. Io, invece, non ero lo stesso che quattro mesi prima aveva chiuso la porta di casa sua.
Ed ancor meno ero lo stesso che lui aveva lasciato indietro anni prima.
Non ero lo stesso da così tanto tempo da avere di me solo un ricordo sbiadito. Non sapevo cosa cercavano gli occhi di mio fratello nel guardarmi, sapevo solo quello che avrebbero trovato. Presi coraggio dalla consapevolezza di quella verità: per quanto lui si fosse ostinato a voler vedere in me il ragazzino allampanato e timido che aveva abbandonato a casa, quel ragazzino non c’era più.
Ed era anche un po’ sua, la responsabilità.
-Droga.- dissi come se stessi confessando il mio peccato davanti a Dio.
In realtà era proprio così che mi sentivo – giudicato – e questo faceva di me un peccatore, ma anche un ribelle. Quella parola la stavo sputando sull’altare di mio fratello, del giudizio dei suoi occhi davanti a me. Lui la incassò come un boccone amaro e, siccome non disse nulla, io mi sentii in dovere di infierire.
-È il motivo per cui vogliono ammazzarmi. Perché vogliono ammazzarmi, sai.
Il suo silenzio non era così difficile da sopportare come avevo creduto. Lui sembrava solo incapace di capire, mi guardava ancora e la sua mano, che prima mi aveva sfiorato i capelli rassicurante, restava immobile sulla mia spalla. Fredda. Ferma. Distante. La distanza era la percezione più esatta che avevo di mio fratello, eppure il prenderne coscienza mi ridava lucidità e forza per spiegarmi.
-Per un po’ ho lavorato per loro: se la vendevo in giro, potevo tenermene una parte per me. Poi, però, si sono accorti che avevo iniziato a rubarne un po’ di più. Loro hanno detto “un po’ troppa in più”. Io non ci facevo caso, in fondo non è che ti rendi conto benissimo di quanta roba mandi giù quando stai lì e ne senti il bisogno. Fatto sta che a loro non andava tanto bene così. Una volta me le hanno suonate e mi hanno avvisato di stare attento, mi hanno detto che se gli ridavo i soldi di quella che avevo rubato andava bene ed era tutto a posto. Io ho promesso che glieli avrei ridati, ma ovviamente non l’ho fatto. In compenso ne ho rubata altra.
Ed ora vogliono ammazzarmi.
Non avevo bisogno di ripeterlo, negli occhi di mio fratello era scolpito come in una roccia.
 
Gerard si è sempre preso cura di me.
Io sono stato ingiusto nel fargli quello che ho fatto.
Gerard non si è mai lavato le mani con me.
Ne aveva il diritto. Non era mio padre. Non era mia madre.
È solo mio fratello.
Ed io quella notte l’ho distrutto per sempre. Mi sono detto che andava bene, che era colpa sua l’inferno violento in cui ero caduto: lui mi aveva lasciato, lui aveva lasciato che io me ne andassi, lui non mi aveva cercato dopo. Quando era troppo tardi. È stato troppo tardi dal giorno stesso in cui, scendendo da casa sua, ho alzato gli occhi in faccia alla Città e lei aveva lo sguardo rapido e cattivo di uno spacciatore sedicenne, il sorriso malato di un’età bruciata in fretta. Io ho guardato tutto questo e non ne ho avuto paura. Io che avevo paura di tutto, io che avevo cercato per tutta la vita di cancellare quella paura. Della Città non ne avevo.
Ma Gerard di tutto questo non ha mai avuto colpa.
Mikey
***
Non conoscevo Mikey se non di vista quando quella mattina lui e suo fratello bussarono alla porta della canonica. Gerard lo conoscevo bene, invece. Sia perché non si tirava mai indietro quando c’era da dare una mano, sia perché amava stare in Chiesa quando poteva. Non so se ha mai creduto in Dio o se semplicemente preferisse la compagnia silenziosa degli angeli di pietra della cappella, gli stessi angeli che poi ritraeva nei suoi schizzi. A me non interessava fargli domande sulla sua Fede, apprezzavo la sua compagnia per quello che era e non avevo bisogno di alcun giuramento per confidare nella sincerità del suo sguardo. Quella mattina, però, quando aprii loro la porta non mi sfuggirono né la presenza goffa ed intimidita alle spalle di Gerard – quel ragazzino alto che pareva cresciuto troppo in fretta e troppo male – né il terrore irrazionale nello sguardo del mio amico. Mi spostai per farli entrare ed ottenni in cambio un “grazie” soffocato e partecipe da parte del più grande dei due ragazzi. Mikey rimase zitto.
Il suo silenzio pesò sulla canonica per tutto il tempo che Gerard ci mise a dirmi quello che voleva da me. Mikey fingeva di non essere l’oggetto di quel dialogo, voltava la testa in giro come un ospite in visita ed io lo studiavo. Alla fine Gerard tacque. Mi voltai ad incrociare i suoi occhi mentre mi pregavano silenziosamente.
-…vuoi che lo tenga qui nel frattempo.- riassunsi lento.
Annuì. Mikey aveva deciso di averne abbastanza di noi, si alzò dalla sedia che gli avevo offerto al suo arrivo ed io lo guardai uscire nel cortile interno dietro la canonica. Da qualche parte c’era il sole, più alto nel cielo, uno o due raggi strappavano riflessi di un biondo lavato dalla testa arruffata del più piccolo dei due fratelli. Mi sembrò un ragazzino smarrito e provai un moto di tenerezza.
-Riuscirai a proteggerlo, Phil?- mi sentii chiedere dalla voce angosciata di Gerard.
Dal Diavolo, pensai. Di sicuro.
Dagli uomini, per il rispetto che portano a questo posto ed al mio abito, se ne portano.
Ma dai suoi demoni deve proteggersi da solo.
Non glielo dissi, a Gerard. Forse fu perché intuivo il vero significato di quel suo “metterò tutto a posto io”, sapevamo entrambi che non aveva mezzi per mettere a posto nulla, si stava solo offrendo in pasto al mostro, per non avere sulla coscienza la vita di suo fratello senza aver prima lasciato divorare la propria. Era un suicidio. Nel rispondergli che avrei protetto Mikey, lo benedissi.
 
Dal giorno in cui Gerard lasciò la canonica, abbracciando suo fratello davanti la porta e tenendolo stretto come se non dovesse rivederlo mai più, a quello in cui per l’ultima volta vi ha messo piede, il mio unico pensiero è stato per Mikey. Anche quando Gerard venne da me a chiedermi aiuto ed io capii quanto fosse vero quello che mi diceva piangendo – di aver perso se stesso, per sempre e senza speranza – io guardai Mikey, tornai con la mente al suo viso smarrito mentre il sole lo sbeffeggiava con quel biondo lavato.
Sapevamo entrambi, io e Gerard, che Mikey era l’unica cosa che potesse essere salvata in quella storia; ed avevamo un accordo, che non era scritto e non era perfetto ma era un accordo per noi vincolante.
Una vita per una vita, ci eravamo detti. Gerard aveva pagato quel prezzo, io tenevo i conti.
Helena…lei non era prevista.
Philip
 
  
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