Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    20/05/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~ Il Cardinale Sansoni Riario stava ancora ripensando alla missiva che gli era arrivata quella mattina da Forlì.
 Era stata scritta con la grafia nervosa di Ottaviano e non portava buone notizie. Non che ci si potesse fidare ciecamente del raziocinio di un bambino, ovvio. Ottaviano doveva ancora compire dieci anni ed era un bambino sì sveglio, ma anche molto macchinoso.
 Poteva benissimo essere che avesse interpretato malamente uno scambio di sguardi o di battute, o aveva sopravvalutato un apprezzamento fatto dalla Contessa a quello stalliere che il piccolo Conte pareva odiare tanto.
 Raffaele aveva cercato di sforzarsi e ricordare il volto di quel Giacomo Feo di cui parlava la lettera, ma non era certo di averlo incontrato, durante il suo soggiorno a Forlì e Imola. La bassa manovalanza non attirava mai la sua attenzione.
 “Cardinale Sansoni Riario, come sta la Contessa vostra parente?” l'apostrofò Rodrigo Borja, quando lo affiancò nel centro del corridoio.
 Più voleva seguire i suoi ragionamenti, più Raffaele veniva interrotto da chicchessia!
 “Bene, bene, grazie...” rispose in fretta, guardando appena lo spagnolo, come a fargli intendere di non aver tempo per le chiacchiere.
 “Giusto ieri parlavo con alcuni nostri fratelli di lei – insistette Rodrigo, parandosi davanti all'altro porporato, per impedirgli di andare per la sua strada – e ci domandavamo se mai prenderà di nuovo marito.”
 Raffaele stava per rispondere con una frase fatta, di circostanza, quando lo spagnolo gli poggiò con fare significativo una mano sul braccio: “Perché Forlì è una città molto importante, per il papa. Il nuovo marito della Contessa dovrà essere cosciente della grande responsabilità che comporta, sposarne la signora.”
 Raffaele finalmente capì cosa voleva dire Borja. Quell'uomo temeva che in Romagna sarebbe presto o tardi arrivato qualche pretendente favorevole ad Ascanio Sforza, piuttosto che a lui. Se il papa stava davvero per morire, come tutti ormai credevano, era tempo di assicurarsi alleati laddove si poteva.
 “Dubito che la Contessa Riario desideri risposarsi.” fece il Cardinale Sansoni Riario, appena sottotono: “In ogni caso, sono certo che ella sa cosa è meglio fare.”
 “Certo, certo...” si affrettò ad annuire Rodrigo e, con un sorriso di difficile interpretazione, si fece da parte, permettendo a Raffaele di riprendere la sua passeggiata.
 Quest'ultimo, ricominciando a camminare con un ritmo più adatto a chi scappa che non a chi sta solo facendo due passi, avvertì ancor di più il peso della lettera di Ottaviano e cominciò a chiedersi che mai sarebbe accaduto se davvero quella sconsiderata Tigre avesse preso come compagno di vita un misero stalliere, senza nome e senza storia...

 Ottaviano riusciva a mascherare bene la sua insofferenza nei confronti di Giacomo Feo. Aveva resistito alla tentazione di abbandonare le esercitazioni in cortile – che per altro si erano fatte più rare per via del mal tempo – e riusciva a dissimulare come un attore il disgusto che provava per quello stalliere.
 Se prima nei suoi sorrisi e nel suo modo di scherzare Ottaviano aveva sempre e solo letto un sincero affetto, come quello di un fratello maggiore, adesso il bambini vi vedeva solo un modo per arruffianarselo. Era certo che Giacomo stesse mettendo in mostra tutte quelle apparenti qualità solo per comprarsi la sua simpatia, in modo da potersi lentamente sostituire al suo defunto padre.
 Come poteva sua madre non accorgersi del modo subdolo in cui Giacomo si stava insinuando nella vita di tutti loro?
 Anche se non condivideva la tavola con loro o non passava con loro le serate ad ascoltare sua zia Bianca cantare, quello stalliere era sempre presente. Ne parlavano i suoi fratelli, Bianca e Cesare, sua zia, sua madre, perfino alcune delle serve...
 Raffaele Sansoni Riario ancora non aveva risposto alla lettera in cui lui accusava Giacomo Feo di intrattenere con sua madre un rapporto sconveniente – il senso di quell'aggettivo era per Ottaviano in parte oscuro, ma era certo che fosse più che appropriato – ma sperava sempre di ricevere un messaggio con cui il Cardinale si prendeva carico del problema.
 Doveva esserci un modo per allontanare quell'uomo da sua madre e Ottaviano l'avrebbe trovato, anche a costo di metterci anni a capire come fare.

 Isabella d'Aragona si tolse il mantello con un gesto infastidito. Era pesantissimo, coperto di neve e zuppo di nebbia.
 Non le piacevano i boschi pavesi. Erano assurdamente appiccicosi, o almeno, quello era l'unico termine che le veniva in mente, quando provava a descriverli. La neve scendeva ogni notte e copriva le piante e il terreno, ma poi, chissà come, durante il giorno Pavia diventava un cumulo di nebbia ghiacciata, tanto fredda da raggelare le ossa e tanto fitta da impedire a chiunque di vedere a un palmo dal naso.
 Eppure suo marito si ostinava a uscire tutte le mattine dal castello per andare a caccia.
 In realtà non riusciva quasi mai a trovare una preda, perché con quel clima ostile, nemmeno gli animali più temerari osavano lasciare le loro tane.
 Gian Galeazzo, però, sembrava non badarvi e si sellava personalmente il cavallo a ogni sorgere del sole. Che poi il sole non si vedeva, oltre tutta quella nebbia.
 Isabella non riusciva a credere alla situazione surreale in cui si trovava. Era sposata al Duca di Milano ormai da oltre tre mesi e lui ancora non aveva osato nemmeno sfiorarla con un dito.
 Scambiava con lei delle battute, non poteva dirsi antipatico o scontroso, anzi, la trattava con gentilezza e pareva molto disponibile. Tuttavia, quando il castello si faceva silenzioso, di notte, e Isabella avrebbe voluto incontrare finalmente da sola il suo sposo, lui le si negava, sparendo alla sua vista e rendendosi irrintracciabile.
 Difficile capire se passasse le sue notti in compagnia di un'altra donna o di un fiasco di vino.
 Comunque, Isabella stava facendo del suo meglio per indurre il marito a vederla come una moglie e non solo come un'amica. Benché morisse d'invidia nel pensare alle dame che vivevano a Milano, circondate da intellettuali e libere di visitare le biblioteche del Duca, Isabella si sforzava di farsi piacere i passatempi di Gian Galeazzo.
 Lo accompagnava quasi ogni giorno a caccia. Cercava di gustare assieme a lui il vino che tanto gli piaceva, benché lo trovasse amaro e troppo pesante. Tentava con tutta se stessa di imparare tutti i nomi dei cani di Gian Galeazzo, anche se alcuni di loro le mostravano i denti appena lei si avvicinava.
 “Com'è andata, oggi, mio signore?” chiese uno dei servi, aiutando Gian Galeazzo a smontare da cavallo.
 Isabella l'aveva preceduto di qualche minuto e dunque si stava già facendo togliere il ghiaccio dagli stivali.
 Gian Galeazzo scosse il capo, dando una pacca sul collo del suo cavallo, le cui zampe erano completamente immaltanate: “Niente anche oggi.”
 “Perché domani non restiamo nel castello?” propose Isabella, con affettata casualità: “Potremmo leggere assieme un libro, bere un po' di vino, e poi, magari...”
 La giovane aveva lasciato sfumare la voce, sperando nell'intuizione del marito che invece o non capì o fece finta di non afferrare il sottinteso: “Mi annoiano, i libri. Era mia sorella Caterina, quella che leggeva sempre. No, usciremo ancora, sperando in una caccia migliore. Magari andremo sul Ticino.”
 Isabella incassò il colpo, rifacendosi sulla serva che la stava aiutando a svestirsi: “State attenta con quegli stivali! Sono molto costosi!”
 “Oppure, se preferite, possiamo spingerci più in là. Sul Po, magari. Mi hanno detto che ieri era quasi del tutto ghiacciato. Deve essere un bello spettacolo.” provò Gian Galeazzo, non lasciandosi sfuggire il tono stizzito con cui la moglie aveva parlato alla serva.
 Isabella fece una breve smorfia, non volendo lamentarsi apertamente. Andare a vedere un fiume ghiacciato non le sembrava il modo migliore per far scoppiare la passione tra loro.
 Gian Galeazzo, intanto, si era lasciato prendere dai ricordi: “L'ultima volta che è mia sorella Caterina è stata a Milano, ricordo che mi avevano riferito di averla vista sul Po. Da Milano... Un bel po' di strada, per farsi una cavalcata.” scosse il capo, divertito: “Sai che è stata lei a pregare mio zio affinché mia madre fosse presente alla Festa del Paradiso?”
 Isabella lo guardò stupita. Gian Galeazzo, che pure le parlava spesso dei suoi fratelli e delle sue sorelle, non le aveva ancora rivelato quel dettaglio.
 “Caterina sa essere molto persuasiva.” stava andando avanti il Duca, scrollandosi un po' di ghiaccio dalle brache di pelle.
 Isabella non lo ascoltava più. Se quello che Gian Galeazzo diceva era vero, chissà mai che quella sua sorella che ora viveva in Romagna non potesse far qualcosa per persuadere anche il Duca di Milano a fare il suo dovere...
 Certo, però, che si trattava di una questione estremamente delicata, che non si poteva affrontare per caso, così, dall'uno al due...
 Isabella finse di seguire il discorso del marito che, nel riassettarsi, si era messo a elencare i pregi e i difetti della brache di pelle nel periodo di caccia invernale, e cominciò ad arrovellarsi su come esporre il suo problema a sua cognata.

 Caterina scosse il capo: “Una candela che si spegne e si riaccende da sola e tutti gridano al miracolo...”
 I fatti avvenuti a Piratello le erano stati riferiti abbelliti con parole altisonanti e grandi panegirici, ma il punto stava solo lì. Un pellegrino che passava per Piratello, diretto a Loreto, aveva fatto cadere una candela che si era spenta, poi l'aveva ripresa in mano e si era accorto che era accesa.
 Il fatto che avesse sentito una voce dirgli di andare al paese più vicino, dicendo che la Madonna andava adorata in quel punto e tutto il resto...
 Caterina soffiò, indecisa sul da farsi. Ormai tutti, da Imola fino a Forlì parlavano di quel 'miracolo' avvenuto il 17 aprile, e incitavano la loro signora a far costruire un santuario nel punto in cui il pellegrino aveva ricevuto quella visita dalla Madonna. Come poteva Caterina rifiutarsi?
 Il Novacula, che aveva dato anche lui una versione dei fatti, così come gli erano stati riferiti da alcuni viandanti passati dalla sua bottega, non si vergognava di parlare chiaramente alla Contessa: “Vedetela come una buona occasione.” le disse, passando la lama del rasoio sulla stuoia che teneva alla cintola: “Date loro quello che vogliono. Sarà una spesa che sosterranno volentieri. Inoltre, se vi dichiarerete devota alla Madonna, la vostra immagine non potrà che trarne giovamento.”
 Caterina, a quel punto, aveva valutato la questione in modo molto pratico, come aveva suggerito Andrea Bernardi.
 Doveva sfruttare quell'accadimento a suo favore. In molti chiacchieravano sul suo conto, chiedendosi come fosse possibile che una donna della sua età rimasta vedova non pensasse a risposarsi. I pettegoli più maliziosi la volevano circondata da decine di amanti, mentre i più gentili si limitavano a dire che per lei nessun pretendente era 'abbastanza', tacciandola comunque di superbia.
 “Avete ragione. Il miracolo di Piratello...” sussurrò Caterina: “Se proprio vogliono crederci, fingeremo di fare altrettanto.”

 Firenze si era convinta che la morte di Clarice Orsini avesse lasciato tutta la famiglia dei Medici completamente indifferente, a partire dal Magnifico.
 Subito dopo i funerali della donna, infatti, Lorenzo si era mostrato in pubblico come al solito, senza disertare nessun impegno pubblico, né mostrando apertamente cordoglio o anche solo dispiacere. Tanto era bastato ai fiorentini per pensare che l'uomo si fosse 'a mala pena fatto accorto' che la moglie era morta, così anche la città si adeguò, non versando nemmeno una lacrima per quell'enigmatica figura che era stata Clarice.
 A quel modo, però, la città si stava allontanando dalla famiglia dei Medici in toto. Anche se le opere pubbliche e la qualità di vita restavano tra le migliori della penisola italiana, la sensazione che Lorenzo il Magnifico si stesse mettendo sempre più su un piedistallo, allontanandosi dai suoi concittadini, stava creando una profondissima discrepanza tra il potere e il popolo.
 Così, su consiglio di Pico della Mirandola, uomo che Lorenzo stimava moltissimo, il Magnifico si era deciso a tentare l'ultima carta a sua disposizione: richiamare in città Girolamo Savonarola.
 La prima volta che lo aveva fatto andare a Firenze, nella speranza che il suo eloquio e la sua capacità persuasiva distraessero e al contempo convincessero i fiorentini, ne era rimasto enormemente deluso.
 La cantilena romagnola, poco gradita ai fiorentini, e le sue idee, troppo complesse e radicali per il volgo, non avevano fatto presa e così, a malincuore, sia lui sia Lorenzo avevano dovuto dichiarare l'esperimento fallito.
 Quel 29 aprile del 1489, però, il Magnifico si sentiva ben determinato a far funzionare le cose. Dopo anni passati a predicare a Ferrara, di certo Savonarola doveva aver appreso qualcosa di più, doveva essersi fatto più convincente e ancor più abile con le parole. Forse i tempi erano finalmente maturi per un predicatore come lui.
 Così, nella lettera che Lorenzo scrisse quel giorno al Generale dei Frati Predicatori, il signore di Firenze chiese ufficialmente di far tornare quel fratel Girolamo in cui riponeva così tanta fede.
 Chiuse la missiva con una firma e uno svolazzo, Lorenzo fece colare la ceralacca e ripensò a sua moglie Clarice. Anche lei si sarebbe affidata a un religioso, in un frangente del genere. Stava facendo la scelta giusta.

 La neve si stava sciogliendo, anche se a volte qualche fiocco ancora cadeva, verso mattina. L'estate poteva dirsi alle porte, almeno secondo i calendari, ma quell'inverno non voleva cedere lo scettro a nessuno.
 A Caterina piaceva quel clima. Quelle settimane erano state per lei molto tranquille, quasi perfette. Non c'erano stati grossi incidenti diplomatici, né tensioni in città. Il cosiddetto 'miracolo di Piratello', poi, le aveva concesso un momento di grazia insperato.
 Tutti quanti, tanto a Imola, quanto a Forlì, l'additavano come una santa donna che aveva talmente a cuore il culto della Madonna da averne permesso l'intervento a Piratello. Insomma, senza far nulla, Caterina aveva guadagnato una popolarità notevole, facendosi amare molto di più per quel fatto inspiegabile che non per aver curato i forlivesi dalla peste, durante l'ultima epidemia. A volte il volgo sapeva essere davvero strano...
 La felicità si faceva completa, poi, quando la Contessa riusciva a ritagliarsi un momento di normalità assieme a Giacomo. Quando era sola con lui si sentiva una donna come milioni di altre, senza il peso di uno stato e di sei figli sulle spalle. Senza responsabilità e senza colpe.
 Ovviamente non poteva scappare da se stessa e da tutto quello che era, ma era bellissimo potersi eclissare dal mondo per qualche ora, perdendosi nella pace dei sensi e nei discorsi senza senso che solo gli innamorati sanno fare.
 Quella domenica mattina, Caterina e Giacomo avevano deciso di restare a letto fino a tardi. La Contessa presenziava quasi sempre alla messa, scegliendo a volte una chiesa, a volte l'altra ed evitando il Duomo come promesso davanti alla città intera, ma quel giorno preferiva starsene in panciolle a non far nulla. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe detto di aver assistito a una messa privata.
 Il tepore della stanza era piacevole e accogliente, mentre il camino, riattizzato poche ore prima da Giacomo, dava un bagliore rossastro che contrastava con la luce pallida che filtrava dalla finestra.
 Caterina sonnecchiava, coperta fino al mento, scaldata dalla pelle di Giacomo, che le stava accanto immerso nel suo stesso torpore. Era una cosa così semplice, eppure a Caterina sembrava una grazia del cielo. Non era passato nemmeno un anno dall'inizio della sua relazione con quel giovane uomo e quegli attimi di perfetto benessere le sembravano ancora dei sogni a occhi aperti.
 Quando qualcuno bussò alla porta, Giacomo si mise a sedere sul letto, come se volesse andare a chiedere di persona chi mai fosse.
 Caterina lo fermò appena in tempo e, sbadigliando, disse: “Ci penso io.”
 Dato che poteva trattarsi di chiunque, e non solo della sua fedele dama di compagnia, Caterina afferrò la vestaglia da camera e se la infilò, mentre si alzava.
 Andò alla porta e chiese chi fosse a bussare.
 Inattesa, la voce di Tommaso Feo rispose: “Sono io, mia signora.”
 Caterina si accigliò e sussurrò a Giacomo: “Tuo fratello.” poi si rivolse al castellano, alzando la voce per farsi sentire oltre la porta: “Un momento solo.”
 Si vestì in fretta con i primi abiti da notte che trovò e coprì tutto al meglio con la solita vestaglia.
 “Devo nascondermi?” chiese Giacomo, che stava ancora seduto sul letto, in attesa di ricevere ordini.
 Caterina fece segno di no: “Aspettami qui, dovrei tornare subito.”
 Giacomo sospirò e si rimise coricato, incrociando le braccia dietro la testa: “Come la mia signora desidera.”

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas