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Autore: Clockwise    22/05/2016    3 recensioni
Chiudono gli occhi, entrambi, uniti e lontani ad un tempo. Lo stesso sospiro – tornare a casa.
[...]
«Mi dispiace, John.»
Scosse la testa.
«Di esserti innamorato di me?»
Sherlock non rispose; lo fecero i suoi occhi, trasparenti come acqua.

Amanda ha diciannove anni quando va a Londra per la prima volta in cerca di suo padre, in cerca di risposte, costringendo John e Sherlock, ormai estranei, a fare i conti con loro stessi.
"Nostos": in greco, "viaggio di ritorno", "ritorno a casa".
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Molly Hooper, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sonetto 116
 
 
Yes, there’s love if you want it
Don’t sound like no sonnet, my lord.
The Verve, Sonnet
 
 
«Love is not love
which alters when it alteration finds,
or bends with the remover to remove
John si fermò sulla soglia, le orecchie tese. Quella era senza dubbio la voce di Sherlock. E, senza dubbio, quello era un sonetto di Shakespeare.
«O no, it is an ever-fixèd mark
that looks on tempests and is never shaken.»
Gli dava uno strano brivido ascoltare la notte della voce di Sherlock modularsi docile in parole d'amore.
«It is the star to every wand'ring bark,
whose worth's unknown, although his height be taken
Chiuse gli occhi, colpito. Era come venire inghiottiti da un mare di seta scura, di soffice velluto. Si sentiva vibrare come una corda di violino.
«Quanto ancora hai intenzione di restare lì impalato dietro la porta?»
Trasalì, come se una secchiata d'acqua l'avesse svegliato dal più placido dei sogni. Arrossendo impercettibilmente, spinse la porta ed entrò.
«Devi ammettere che non è uno spettacolo comune, sentirti declamare a voce alta uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Non avevi cancellato la letteratura dal tuo hard-disk?»
Sherlock lo guardò sollevando un sopracciglio. In piedi davanti al camino, combatteva con una cravatta. John aggrottò le sopracciglia. Era ormai un anno che erano coinquilini, e l'aveva sempre visto arringare deciso contro quei “ridicoli strumenti di costrizione”, quando John ne metteva una per un appuntamento a cui teneva particolarmente.
«William Shakespeare è uno dei pochi poeti che abbia mai scritto qualcosa di sensato, quando non scriveva per accontentare qualcuno o per fare soldi. Sai che ha inventato più di 1700 parole che usiamo ancora oggi? Anche se non tutte sono veri e propri neologismi, ma per lo più sostantivi diventati verbi e viceversa.»
Guarda accigliato il riflesso del groviglio di stoffa che ha intorno al collo. Si volta verso John con una muta domanda in volto.
«E perché recitavi a voce alta? Era un sonetto, vero?»
«Il 116. L'unico modo per apprezzare veramente la poesia è leggerla ad alta voce» disse, come se fosse una verità universalmente accettata. John ridacchiò, annodandogli con delicatezza la cravatta. Poteva sentire i suoi occhi vitrei sul suo viso, il suo fiato sui capelli.
«Ecco fatto.»
Fece un passo indietro, per allontanarsi da Sherlock e dal miscuglio di emozioni che ribollivano nel suo stomaco. Aveva ancora i suoi occhi puntati su di sé.
«Ehi... Quella non è la mia cravatta?»
Sherlock sollevò un sopracciglio, sarcastico.
«E te ne sei accorto solo ora?»
John arrossì, rifiutandosi di palesare i pensieri che l'avevano distratto dalla cravatta, come il candore del collo di Sherlock, il profumo del suo dopobarba, la sua voce di violoncello che declamava versi d'amore – perché, perché provava queste cose? Era il suo coinquilino, santo Dio! Un uomo. Sposato con il suo lavoro e interessato a John quanto John era interessato all'uncinetto.
«Non sgualcirla. Dove devi andare?»
«A cena da Miss Southerland. Mi servono prove che abbia un amante.»
Sherlock sparì dopo essersi infilato la giacca ed aver appuntato un garofano all'occhiello. John rimase a fissare il caminetto, rimuginando.
•••
 
 
Si gira e rigira il foglietto fra le mani, indecisa. Lo chiamo o non lo chiamo? Fa un gran sospiro e inizia a comporre il numero.
John risponde dopo tre squilli, il cardigan abbottonato per metà. Lancia un occhio all'orologio. Deve fare in fretta, o arriverà tardi all'ambulatorio.
«Pronto?»
«Ciao! Sono Molly.»
«Molly? Molly Hooper?»
La donna sorride un po' di più, rigirandosi la fede al dito.
«La signora Lestrade, ormai.»
«Che cosa? Dio, sì, hai ragione... Ne è passato di tempo.»
«Fanno quattordici anni, fra due mesi.»
Quattordici anni.
Sherlock è andato via sette anni e quattro mesi fa.
Ricorda, vagamente, il matrimonio di Molly e Greg – una cerimonia tranquilla, senza sfarzo, in un piccolo cottage appena fuori Londra. Ricorda che Sherlock l’aveva costretto a ballare – doveva essere un po’ brillo.
«Già. Come stai? Come sta Greg?»
«Bene, stiamo molto bene, grazie. È passato tanto tempo...»
«Già.»
Il silenzio di sette anni pesa sul filo del telefono.
Si rende conto che la sua vita, in questi anni, è rimasta esattamente la stessa, ogni giorno uguale all'altro – solo, più polveroso.
«Lavori ancora al Bart's?»
«Sì, io sono sempre all'obitorio. Arriverà il giorno in cui sarò dall'altra parte del tavolo!»
Ridacchia, imbarazzata, con voce un po' stridula. John fa una smorfia. Non è cambiata affatto.
«Già... Ora insegno, anche. Agli studenti che fanno tirocinio. È molto divertente.»
«Immagino. E Greg?»
«Oh, lui è andato in pensione il mese scorso. Mi fa diventare matta, non sa mai che cosa fare... L'altro giorno l'ho trovato coperto di terra che si era messo in testa di fare l'orto!»
«Ah, immagino...»
«Tu lavori ancora?»
«Oh, sì, sì, ancora per qualche anno. Mi tiene occupato.»
«Già, certo.»
Silenzio, di nuovo. John sa cosa sta per chiedergli, può sentirla provare e riprovare le parole giuste.
«Greg non sa che ho chiamato.»
Poteva immaginare. L’ultima volta che aveva sentito Lestrade risaliva a quasi due anni prima.
«Io volevo solo... Ho ritrovato il tuo numero, e ho pensato...»
«No, hai fatto bene. Mi fa piacere chiacchierare con te.»
«Sì, ecco...»
Fa un sospiro. Si prepara. Eccola.
«E Sherlock?»
Bella domanda.
«Sherlock? Oh, suppongo stia bene. Dovrebbe essere nel Sussex, a quanto mi ha riferito Mycroft qualche mese fa. Si occupa di api.»
«Oh. Sì, sì, Greg mi aveva detto che se n'era andato da Londra, ma pensavo... Ecco voi due...»
«Pensavi che l'avrei seguito?»
Molly non ha il coraggio di rispondere.
«Perché avrei dovuto? Sono anni che non ci parliamo, Molly.»
Sente un nodo stringersi nel suo stomaco al solo pensiero della sua voce – non l'ha dimenticata, nonostante il silenzio.
«Si era trasferito dall'altra parte di Londra. Io ormai avevo la clinica, e Mrs Hudson ci aveva lasciato il 221b nel testamento, così sono rimasto. Non lo vedo da allora. Ho letto sul Guardian che si era ritirato, qualche mese fa, e Mycroft mi ha detto che è in Sussex.»
«Oh.»
Il tono asettico con cui ha parlato deve aver ferito anche lei.
«Capisco.»
John si chiede se sia il caso di raccontarle di Amanda. Scoppia dalla voglia di parlarne, ma ha paura – e se poi lo dicesse a Sherlock?
«Ecco, io volevo solo...»
La sua voce scivola, trae un respiro tremulo.
«John, Greg ha avuto un incidente. Era in taxi quando u-un'altra auto gli è venuta addosso.»
Silenzio, mentre Molly rimette insieme la sua voce.
«Dio, mi dispiace.»
«Ora è al St Thomas'. Ecco, credo gli farebbe piacere se venissi a trovarlo. Ora sta bene, sì, ma... Ha rischiato molto, ecco.»
«Certo. Sì, io... Purtroppo sono molto impegnato, in questi giorni. Alla clinica sono tutti in ferie o in malattia, sto coprendo i turni di tutti...»
Si chiede se Molly riconosca le bugie.
«Oh, sì, certo, capisco.»
Sì, le riconosce.
«Beh, non fa niente. Magari quando uscirà.»
«Sì, magari.»
Silenzio.
«Beh, io devo proprio andare. Inizio il turno fra poco, devo scappare. Mi ha fatto piacere parlarti, Molly.»
«Oh, anche a me.»
«Saluta Greg. Ciao.»
«C-ciao.»
Rimane a fissare il cellulare con un latente senso di disgusto. Ha respirato l'aria fresca del presente insieme ad Amanda soltanto qualche ora fa, e già il passato ritorna ad ostruirgli i polmoni. Scuote la testa, affrettandosi ad uscire.
 
 
•••
Sherlock capì chi era non appena sentì aprirsi il portone. Non si scompose e voltò una pagina del giornale.
«Ehi, Sherlock. Buongiorno.»
«Buongiorno.»
John mosse impacciato qualche passo verso di lui, guardandosi attorno nel salotto disordinato.
«Mrs Hudson è in sciopero?» tentò di scherzare, con un tono forzato che non gli apparteneva, che stonava con le mura familiari del 221b.
«Suppongo che pensi di avere diritto allo sciopero, sì.»
John annuì un paio di volte, dondolandosi leggermente sulle punte dei piedi. Appurato che Sherlock non gli badava la minima attenzione, si sfilò la giacca e la appoggiò sullo schienale della sua vecchia poltrona. Sedendosi, lanciò un'occhiata alla cucina. La indicò con il pollice.
«Avuto qualcuno per cena?»
La cortese curiosità, il malcelato stupore e la sottile gelosia giunsero a Sherlock come un prurito fastidioso. Tamburellò con le dita sul giornale e voltò pagina.
«Janine. Chiedeva consulenze sull'apicoltura.»
In realtà, era stato Sherlock, per una volta, a chiedere consulenze. John annuì, mostrandosi impressionato. Sherlock si ritrovò a stringere la mascella, lo sguardo inchiodato sulla stessa insulsa didascalia ad una foto del nuovo bambino reale – come se non ci fossero già abbastanza eredi al trono – da almeno cinque minuti. Sentiva gli occhi di John perforarlo attraverso i sottili fogli di carta.
«Sherlock, abbiamo bisogno di parlare.»
«No, non ne abbiamo alcun bisogno.»
«Sherlock...»
«Non abbiamo nulla da dirci, John.»
Si alzò e chiuse il giornale con lo stesso movimento fluido. Lanciando appena una breve occhiata a John, lasciò il giornale sul tavolo e si diresse alla finestra.
«Io sono sposato con il mio lavoro, tu con Mary.» Con un filo di voce, tanto che John pensò di esserselo immaginato, aggiunse: «È troppo tardi.»
John fece per replicare, ma Sherlock lo precedette.
«Londra è in pericolo. Per il bene di tutti, tu e Mary fareste meglio a starmi lontano.»
«No.» John si alzò in piedi, puntandogli un dito contro. «Non puoi chiedermi questo. Non puoi pretendere...»
«Siete il mio punto debole, John, e al momento non posso permettermelo.»
«Io non sono il punto debole di nessuno!» urlò l'altro, avvicinandoglisi a passo di marcia. Sherlock non si voltò. «Io voglio essere il tuo punto di forza, il tuo braccio destro, non una cazzo di damigella in pericolo! Non ho mai chiesto questo, non ho mai...»
«Let me not to the marriage of true minds...»
«No. Non provarci.»
Il dito di John gli pungolava il petto e lui fu costretto a voltare la testa verso di lui, gli occhi bassi. John riuscirà a sentire il suo cuore impazzito attraverso la stoffa?
«Non farmi questo, Sherlock. Non ora, non qui, non–»
Chiuse gli occhi e respirò profondamente.
Sherlock riusciva a sentire il suo dito pulsare, lì, al centro del suo petto, bruciante.
«Io non ho mai voluto che si arrivasse a questo. Mai. Se tu... Se prima di... Una parola, Sherlock, una parola sarebbe bastata.»
Lasciò cadere il dito, improvvisamente svuotato di tutte le energie, lo sguardo al pavimento.
«Una parola, e io sarei caduto ai tuoi piedi...»
Non appena le parole gli sfuggirono dalle labbra, si coprì la bocca con una mano. Gli occhi, scuri, guardavano Sherlock gravidi d'accusa, di rimprovero. Perché mi hai fatto dire questo?, sembravano gridargli. Sherlock lo guardò tremare, accanto a sé davanti alla finestra, incapace di raggiungerlo, di avvicinarglisi in qualunque modo – e non era forse sempre stato questo, il suo problema con il mondo?
John scosse la testa, come per cancellare la conversazione dalla sua mente, e si diresse a passo di marcia verso la porta. Esitò sulla soglia.
«Io sono prima di tutto tuo amico, Sherlock. Cerca di non dimenticarlo» mormorò con voce strozzata, poi sparì giù per le scale.
Sherlock appoggiò la fronte alla finestra. Lo vide uscire, voltarsi verso destra e procedere spedito verso la metropolitana. Non guardò indietro, né alla finestra.
Quando Mrs Hudson venne a portargli la cena e a chiedergli perché John fosse andato via senza nemmeno salutarla, lo trovò ancora lì.
•••
 
 
Spegne il portatile e lo chiude con un gesto seccato. Lestrade avrebbe dovuto capire immediatamente che quel tassista non aveva riflessi abbastanza veloci – aveva i polsini sporchi di ketchup, chiunque se ne sarebbe accorto. Se non altro, il St Thomas' è un buon ospedale, ottimi medici, vista sul Parlamento e il Big Ben. Molly è appena arrivata, dieci minuti prima dell'orario delle visite, come suo solito, portando una cioccolata calda e un dolce. C'è da stupirsi che Greg sia ingrassato così poco, in tanti anni di matrimonio.
Sospira e stiracchia le braccia, alzandosi. Riempie il bollitore e accende il fornello. Sbatacchia tutte le ante finché non trova il tè – lo mette sempre in un posto diverso, soprappensiero – John lo rimproverava sempre, per questo. Non a caso Sherlock non preparava mai il tè, se non quando estremamente necessario.
Non ha ancora indovinato la ricetta perfetta: il suo tè è sempre troppo leggero o troppo forte, troppo zuccherato o troppo aspro. Era diverso, quello che prendeva a casa.
L'acqua è pronta, vi lascia cadere dentro una bustina.
Sa perfettamente che è assurdo: ha cronometrato John migliaia di volte, sa che toglieva la teiera dal fuoco non appena sentiva il fischio, lasciava in infusione per tre minuti esatti e non metteva più di due cucchiaini di zucchero bianco, radi non pieni. È la stessa identica marca di tè, gli stessi identici tempi e modi.
Forse l'acqua è diversa, si ritrova a pensare, rifiutandosi di lasciar entrare nella sua mente l'altra, disgustosamente sentimentale opzione che gli si è presentata (era il tè preparato da John e preso nel soggiorno di casa).
Impreca a bassa voce. Ha di nuovo dimenticato il tè in infusione, ora sarà disgustoso. Lo versa velocemente in una tazza e vi aggiunge due cucchiai di zucchero.
John lo prendeva sempre nero, invece, con una goccia di limone, ogni tanto – quando nel loro frigo sopravviveva un limone, caso più unico che raro.
Corruga le sopracciglia, la tazza alle labbra, mentre il vapore gli riscalda il viso.
Pensava di non saperlo, di non averci mai fatto caso – è sicuro che sia così, però.
Si chiede quante altre cose sappia di John, quanto altro la sua mente ha registrato senza che lui ne fosse nemmeno consapevole.
Spinge la porta a vetri e si affaccia sul patio. Il prato ondeggia lieve al tiepido venticello della sera, gli insetti ronzano e qualche uccello ancora cinguetta. Che pace snervante.
Torna dentro sbattendo la porta dietro di sé.
È in isolamento da quasi sei mesi, ormai. La situazione a Londra si era fatta troppo scottante, e Mycroft aveva deciso che era meglio per lui ritirarsi dalle scene, almeno per un po'. Le minacce di morte che riceveva iniziavano a farsi preoccupanti.
Non sa come abbia fatto a resistere così a lungo senza far saltare in aria niente.
Si avvicina di nuovo al tavolo, sorseggiando il tè. In una della foto sparpagliate sulla superficie, una ragazza bionda sorride a un John grigio e stanco, nella colorata Camden High Street. Ne segue il profilo con il dito.
«Mary, Mary, Mary…» mormora. «Che cosa ci hai fatto?»
 
 
•••
Non c’era un preciso motivo che giustificasse quel gesto, in realtà. Nessuno aveva detto o fatto nulla di particolare, di diverso dal solito. Era più la somma di tanti gesti e tanti giorni passati, un fiume che ritrovava il suo corso dopo dighe e scogli e ostacoli e cascate.
John ricevette il bacio di Sherlock in silenzio, ma senza riuscire a sopprimere un verso di sorpresa. La luce fioca del mattino li avvolgeva in un tepore soffuso, come un manto dorato, lì in piedi davanti al bancone della cucina. Durò un istante, eppure a Sherlock parvero anni, ma quando John si tirò indietro non era sazio, non ne aveva abbastanza.
Il viso di John era scavato da rughe profonde.
«Sherlock…»
«Mi dispiace. Mi ci sono voluti anni, e ti ho fatto soffrire più di quanto meritavi, e probabilmente ora tu non…»
John chinò il capo e parlò piano, quasi fra sé e sé.
«Love's not time's fool, though rosy lips and cheeks
within his bending sickle's compass come.»
Gli occhi di Sherlock si fecero liquidi di una speranza e di una gioia che non osavano traboccare. Vivo come non si sentiva da anni, John proseguì.
«Love alters not with his brief hours and weeks,
but bears it out even to the edge of doom.»
Allora qualcosa, nel profondo di Sherlock, si ruppe ed esplose, svuotando la sua mente, ostruendogli la gola, riempiendogli i polmoni di nuova aria.
Baciò John senza chiedergli il permesso, con impeto, con euforia. Rise e pianse sulle sue labbra, lasciando che John leccasse le sue lacrime e riflettesse le sue risa. Si lasciò condurre e si abbandonò all'altro, donandogli tutta la sua fiducia – più di quanto avesse mai potuto fare per chiunque. Sapeva che John l'avrebbe accolto nelle sue mani gentili e ruvide, che ora gli accarezzavano i capelli come si fa con le piume di un pulcino, con dolcezza dilaniante.
Sherlock tenne gli occhi chiusi a lungo, quando si furono separati, mentre John lo stringeva a sé e lo ricopriva di baci soffici.
«Allora è questo che si prova» mormorò, quasi senza rendersene conto. Aprì gli occhi e il sorriso di John era lì, a un battito di ciglia. Dopo tutto quello che era successo, tutto quello che avevano patito, il sorriso di John era lì, fermo e luminoso ad un soffio dal suo.
Li chiuse di nuovo e baciò il suo sorriso, leggero, con reverenza. Concluse il sonetto piano, un sussurro della consistenza del mattino.
«If this be error and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.»

 





Grazie ancora a chi legge/segue e alle belle persone che recensiscono!
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