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Autore: Sunshiner    12/04/2009    8 recensioni
Prima Parte: Risvegli - da giugno a ottobre 2014 Bianco. Luci. Da qualche parte proveniva della musica jazz a bassissimo volume. Voltò lentamente il viso a sinistra. Sul comodino c'era un iPod, collegato a due piccole casse. E dei fiori gialli. Vide il sole splendere dalla finestra che dava sul parco. Il parco? Il parco del Princeton. Ecco dove si trovava. Richiuse gli occhi per un momento. Come era finito al Princeton? Li riaprì, come per accertarsi che non fosse un sogno. Non lo era. Qualcuno si mosse alla sua destra. Si voltò. – O mio dio. House... – Wilson dormiva su una poltroncina accanto al letto. Si era appena svegliato e lo guardava con un'aria così stupita e spaventata allo stesso tempo, che non poteva dire se fosse felice di vederlo. Richiuse gli occhi.
Genere: Drammatico, Suspence, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Bianco. Luci.

Da qualche parte proveniva della musica jazz a bassissimo volume.

Voltò lentamente il viso a sinistra.

Sul comodino c'era un iPod, collegato a due piccole casse. E dei fiori gialli.

Vide il sole splendere dalla finestra che dava sul parco.

Il parco?

Il parco del Princeton. Ecco dove si trovava.

Richiuse gli occhi per un momento. Come era finito al Princeton?

Li riaprì, come per accertarsi che non fosse un sogno. Non lo era.

Qualcuno si mosse alla sua destra. Si voltò.

– O mio dio. House... –

Wilson dormiva su una poltroncina accanto al letto. Si era appena svegliato e lo guardava con un'aria così stupita e spaventata allo stesso tempo, che non poteva dire se fosse felice di vederlo.

Richiuse gli occhi.



Prima Parte: Risvegli - da giugno a ottobre 2014


– ...Per questo l'Università di Princeton è orgogliosa di offrire i suoi migliori allievi alla classe medica, sicura che contribuiranno con le loro energie allo sviluppo della ricerca scientifica e con la loro umanità alle richieste che i tempi pongono, irrinunciabili, a tutti noi medici, in un mondo dove la diversità deve diventare una ricchezza e sapersi rapportare ad essa una virtù. Per questo, oggi, 11 giugno... – La voce del Decano di Medicina si incrinò per una frazione di secondo –...11 giugno 2014, conferisco a tutti voi qui riuniti la laurea di Dottori in Medicina. Verrete a ritirare il vostro diploma quando il vice Decano Foreman chiamerà il vostro nome. Buona fortuna, ragazzi. –

Gli applausi, sinceri come i sorrisi che li accompagnavano, scrosciarono nel prato verdissimo e perfetto.

Cuddy, fasciata in un elegante abito beige di raso, scese gli scalini del palco, attenta a non inciampare nel mantello nero della toga, che il vento estivo le faceva svolazzare tra i piedi.

– Mamma! –

Una bambina le correva incontro, due piccole trecce bionde chiuse con un nastro rosso si agitavano nel vento al ritmo della sua corsa.

La bimba le saltò in braccio e le prese il tocco per provarselo.

– Sei bellissima, Rachel. – Cuddy baciò la piccola sulla guancia rosata e la posò nel prato, sorridendo.

– Posso tenerlo, mamma? –

– Certo, amore. –

In quel momento il cercapersone di Cuddy suonò e lei vide il nome sul piccolo schermo blu.


***


Wilson versò il vino nei calici. Le luci del ristorante riflettevano attraverso il liquido scuro e creavano bagliori rossastri sulla tovaglia di lino.

Lei era splendida. I capelli raccolti ricadevano a ciuffi sul collo bianco e liscio, le perle della collana le scivolavano tra le dita mentre ci giocherellava senza guardarle.

Era una sera invernale, la neve cadeva su Princeton a grossi e pesanti fiocchi che andavano a coprire le strade, i prati e i tetti.

– Come sta Rachel? –

– E' così bella, James. E dolcissima. Non posso credere che sia già passato un anno... –

– Lo so. L'hai lasciata a tua sorella? –

– Già. –

Cadde il silenzio. Si scrutarono per qualche minuto, mentre mangiavano senza parlare.

Poi Wilson si decise.

– Lisa. –

Lei sollevò lo sguardo.

– Mi chiedevo... Beh, sono mesi ormai che insomma, sì...ecco...che noi...Lisa, mi vuoi sposare? –

Lei lasciò cadere la forchetta, che tintinnò contro la ceramica del piatto.

– Oh, no...scusami, sono un idiota, io...io non volevo...mi dis...– fu interrotto da un bacio improvviso che gli tolse il respiro.

Poi le loro labbra si staccarono e poté vederla sorridere.

– La risposta è sì. –


– Buongiorno squadra. Cameron ci propone un caso. Cameron? –

– Sì, giù al pronto soccorso... –

La porta a vetri dello studio si aprì con uno schiocco. Era Wilson.

House si voltò e gli lanciò uno sguardo fulminante che lo gelò sulla soglia.

– Cosa vuoi? Siamo in differenziale. –

– Devo parlarti. –

Sembrava urgente.

House stappò il tubetto ambrato e si versò in bocca l'intero contenuto. Poi uscì zoppicando.

– Allora. –

Il suo tono non ammetteva repliche ed era di una glaciale freddezza.

– Senti, so che sono mesi che noi, che... non siamo più... amici. –

– Già. –

– E so anche il perché. –

– Questo non è vero. –

– Sì che lo è. E' per Lisa. –

House si appoggiò alla parete, abbassando lo sguardo. Era vero. Solo che non ne avevano mai parlato.

– Cuddy ha un cervello. Funziona male, le gioca brutti tiri, ma ce l'ha. E sceglie da sola. –

– Esattamente. Per questo ti stai comportando da idiota. –

– L'idiota sei tu, che temi che io sia idiota mentre, da idiota quale sei, non ti godi la tua vita felice. Idiota. –

– Piantala con i rompicapo, House. Tu... tu pensi che io abbia fatto una mossa scorretta, che abbia giocato sporco! –

– Non è vero. – House impallidì e si voltò per tornare dentro lo studio.

Wilson lo prese per la manica della camicia celeste.

– House, ti prego. –

– Wilson, dannazione! – House si voltò, gli occhi chiarissimi si incendiarono per un secondo, l'espressione triste si accese di comprensione e sembrò che volesse dire qualcosa che da mesi si teneva dentro.

Ma tacque e rientrò nello studio.


– Disordine neurologico. Sbatte ovunque, in particolare contro oggetti grandi e ben visibili: automobili, tavoli, porte... – Taub teneva la cartella e leggeva, un paio di occhialini dalla montatura metallica poggiati sul naso.

– E' arrivato qui con la moglie. L'ha trovato sul pavimento della cucina, ha battuto la testa sbattendo contro il frigorifero. –

Cameron, la divisa da Pronto Soccorso ancora indosso, preparò caffè per tutti.

– Questo non è un caso, Cameron. Devi trovare scuse migliori per starmi a tiro. – House, torvo, prese la cartella e la sbatté nel cestino.

Cameron si voltò, l'aria contrariata.

– Non cerco la tua compagnia, dato che me ne sono andata di mia spontanea volontà. Sarei un'idiota. –

– Saresti un'incoerente, che poi è quello che sei, e infatti eccoti qui. –

– House piantala. – Foreman, irritato, recuperò la cartella dal cestino. – E... Cameron, temo che questo caso non sia un mistero, comunque. –

Lei lo incendiò con lo sguardo. Tredici trattenne a stento un sorriso.

– E' un tumore del lobo temporale. – Foreman si alzò. – Ha problemi a gestire lo spazio. Vado a vederlo. –

– Bene, il mio neurologo non perde un colpo. Tredici, vai a prenotare la sala della risonanza. Taub, va' con Foreman, e portami un'anamnesi degna del nome. Cameron... Ah, Cameron, non riesco proprio a ricordare perché tu sia venuta. –

Una donna anziana si teneva le tempie, seduta nel corridoio.

House alzò il ricevitore del telefono.

– House. C'è una donna sui sessanta con segni di meningite batterica nel corridoio qui di fronte. Venite a prenderla e portatela al Pronto Soccorso. La dottoressa Cameron si occuperà dei controlli sugli altri pazienti. –

Cameron lo fulminò con lo sguardo e uscì sbattendo la porta.


- Signora Taylor? Salve, è il dottor Wilson. Sì, la chiamavo per i suoi controlli... No, non c'è nulla da temere, routine... Sì, possiamo vederci domani in mat... – Cadde la linea. – ... In mattinata. Dannazione. –

Wilson si accorse che, nell'ordine, House era entrato nel suo studio senza bussare, aveva staccato la spina del telefono dal muro e ora se ne stava sul divano di pelle nera con i piedi sul tavolino, bevendo caffè da una tazza chiaramente non sua.

– E adesso cosa ci fai qui? – Il tono irritato di Wilson non sembrò turbare House.

– Non volevi dirmi qualcosa? –

– Non ho avuto il tempo. Mi hai troncato. –

– Non è vero. Volevi dirmi qualcosa, poi hai cercato di ricucire e allora ti ho troncato. –

– Cos'è cambiato? Vuoi ricucire? –

– Forse. Forse no. –

– Ma sei qui. –

– Già. –

– Dunque vuoi qualcosa. –

– Già. –

– Vuoi sapere cosa volevo dirti. –

Il silenzio di House conteneva un assenso praticamente urlato. Lanciò a Wilson un'occhiata penetrante.

– House, io sto per sposare Cuddy. –

Si scrutarono per qualche secondo.

Fuori, i rami carichi di foglie e fiori si agitavano nel vento quasi estivo che soffiava in quel giorno di inizio giugno, proiettando ombre in movimento sulla moquette grigia dello studio.

House fissò Wilson negli occhi per un interminabile, silenzioso minuto.

– Quando gliel'hai chiesto? –

– Prima di Natale. –

– Perché non me l'hai detto? –

– Non mi hai rivolto la parola per mesi, se ti ricordi. –

– Quando... beh, quando, insomma... tantantatan? –

Tra una settimana. E' un sabato.

– Già. –

– Già. –

House si alzò, sembrava portarsi addosso la fatica del mondo intero.

– Potremmo andare a bere qualcosa, stasera. –

– Sì, potremmo. –


– Disfasia e disturbo della memoria a breve termine. E' quasi di sicuro un tumore al lobo temporale. – La squadra era riunita di nuovo nello studio luminoso.

– Bene, fategli la risonanza e speditelo da Wilson. Il mio lavoro qui è finito. –

House afferrò il bastone, con cui agganciò il casco che giaceva capovolto sulla poltrona, e se ne andò senza salutarli.

Correndo verso casa cercò di non pensare, di concentrarsi sulle luci della sera che lentamente arrossavano il paesaggio di Princeton.

Entrò nell'appartamento buio e lasciò la giacca nell'ingresso, poi andò in cucina e prese un bicchiere di vetro in cui versò dello scotch, che posò sul tavolino del salotto.

Si sedette pesantemente sul divano di pelle. C'era un silenzio infernale in quella casa. Non il silenzio dei luoghi dove si studia o si prega, né il silenzio dei luoghi senza persone, in genere. Era la solitudine che attutiva i suoni di quell'appartamento, che lo faceva sembrare un luogo abbandonato dalla felicità.

Il telefono squillò.

House lasciò che il trillo riempisse il vuoto del salotto, rimbalzando tra i libri, da una parete all'altra, finché non partì la segreteria telefonica.

"House, sono Foreman. La risonanza non è risolutiva; pensiamo comunque al cancro, ma per dirlo ci serve una biopsia: con le immagini non riusciamo a capire cosa è trauma cranico e cosa tessuto canceroso. Devi parlare con la Cuddy per la biopsia, Tredici si sta occupando della moglie del signor Jones."

Che facessero la biopsia, dannazione. Cuddy avrebbe detto di sì, senza resistenze e storie inutili. Come aveva fatto negli ultimi mesi. Un comportamento strano, di cui solo ora capiva il motivo di fondo. Non voleva farlo arrabbiare, perché si sentiva in colpa. Che idiozia infantile.

Cosa pensava, che avrebbe impedito a Wilson di sposarla? Certo non gli aveva impedito di uscire con lei. E aveva deciso di uscire dalla sua vita, dalla loro vita, per sempre. Non era arrabbiato con Wilson e no, non pensava che avesse giocato sporco. La verità era che temeva di dire o fare qualcosa che potesse scalfire la felicità delle due persone a cui voleva più bene al mondo. Era un dolore acuto e lancinante, quello che gli attanagliava il petto quando li vedeva insieme. Dolore per non essere in grado di darle lo stesso sorriso, di progettare con lei un futuro, di immaginarsi con lei a cucinare di domenica, a rifare il letto, a cullare Rachel.

Era Wilson quello giusto per lei. E Wilson la meritava, molto più di lui.

Gli mancavano così tanto, però.

– Wilson. –

– House? –

– Hai da fare? –

Un quarto d'ora dopo la telefonata, Wilson bussò.


– Stai bluffando. –

– Non è vero! Ho diversi quadri pronti ad ucciderti... –

– Batteresti il mio re di cuori? –

– Forse. –

– Bugiardo. –

– Drogato. –

I Led Zeppelin cantavano Stairway to Heaven, mentre la partita di poker animava le due persone sedute al tavolo rotondo nel salotto di House, finalmente illuminato. Dalla cucina proveniva odore di cibo cinese appena consegnato e ancora caldo.

– Mangiamo? Sto morendo di fame. –

– Ok. –

House si alzò per andare a prendere la cena.

– Allora, davvero è tutto a posto? –

– Sì. –

– House, posso immaginare come puoi sentirti, ma devo essere certo che non ti ammazzi di Vicodin quando esco di qui. –

– Me ne servirebbe una quantità inverosimile per farla finita. Anche più inverosimile delle mie solite quantità, intendo. –

Le voci si rincorrevano dal salotto alla cucina e Wilson sorrise, seduto da solo nel salotto dell'amico.

House ritornò con il cibo e si sedette al tavolo, raccogliendo le carte.

– Wilson, non guardarmi così. –

– E' che non capisco cosa ti ha fatto cambiare idea così all'improvviso. Ieri era come se non esistessi, per te. –

– Niente. Ero solo. –

– Questo l'avevo immaginato. –

– E' che... Wilson, perché devi sempre rivoltare la vita come un calzino? Ti torturi da solo ed è uno spettacolo. –

– Sono preoccupato, come lo sono stato per mesi, di fare male al mio migliore amico. –

– Comunque la sposi. Non puoi vivere nel rimorso. –

– No, ed è per questo che stamattina sono venuto a parlarti. E non mi aspettavo che stasera ci saremmo ritrovati a giocare a poker a casa tua. –

– Già. –

– Già. Vorrei solo che non ti costringessi a vedere le cose più piccole di quel che in realtà... –

Sedia trascinata sul pavimento. Fruscio di giacca. Rumore di chiavi. Porta sbattuta.

– ...sono. – Wilson era rimasto solo nell'appartamento. Una quantità industriale di cibo cinese occhieggiava dalle scatole di cartone bianco.

"Aha" pensò. "L'ho illuminato. Come ai vecchi tempi".


– Micropsia. –

La palla rossa di House schizzò dalla sua mano al pavimento e da lì finì dritta nella grossa tazza di caffè di Taub.

– Maledizione, House... – Taub, completamente fradicio, cercò di arginare la diffusione della macchia sul suo camice appena stirato.

– Sbatteva contro gli oggetti perché li vedeva più piccoli di quanto fossero in realtà. –

– Beh, la micropsia è sempre un sintomo del tumore al lobo temporale... – Foreman rientrò in quel momento. – Abbiamo il consenso della moglie per la biopsia e Cuddy dice di voler parlare con te per il via libera. –

– Non è un tumore al lobo temporale. Cameron aveva ragione... –

– House, ha tutti i sintomi. – Tredici rilesse la cartella.

– Non è vero. Prima sbatteva solo qua e là, poi, dopo lo schianto in cucina e il trauma cranico... –

– ...Ha iniziato con gli altri disturbi. Disfasia, nausea...– Foreman ebbe tutto chiaro. – Mentre i problemi di assenza e di memoria sono... –

– ...Crisi generalizzate di Piccolo Male. – Taub posò il fazzoletto con cui aveva cercato di ripulirsi.

– Epilessia. Che ha causato la micropsia nei momenti successivi le crisi da assenza. –

House si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona beige.

– Fategli un elettroencefalogramma per confermare. –

La squadra uscì e si ritrovò solo.


– Ehi. –

Era lei. La mano appoggiata sulla grossa maniglia della porta a vetri, appena aperta.

– Ciao. –

– Non volevi fare una biopsia al tuo paziente? –

– Non più. Crisi di Piccolo Male. –

– Oh, ok. –

– Cuddy... –

Lei stava per andarsene: senza guardarlo negli occhi, si era voltata per uscire dallo studio.

– Sì? – Rimase di spalle, quasi temesse di girarsi e guardarlo davvero.

– Mi dispiace. –

Allora si voltò e lo osservò, l'espressione stanca e quasi disperata, le spalle curve, la mano che stringeva convulsamente il bastone.

– Lo so. –

Improvvisamente sentì che le lacrime iniziavano a bruciarle gli occhi. Non era sicura di riuscire a trattenerle. Oh, non poteva essere. Non doveva essere. Che pensiero assurdo, che inutile, ridicolo pensiero. Non era lui l'uomo che avrebbe sposato tra pochi giorni. Non era lui. Improvvisamente, provò una sensazione imminente di catastrofe. SI sentì precipitare nell'errore cui non avrebbe mai potuto rimediare. Ma come poteva pensare una cosa simile, con James due porte più in là, che aspettava solo di renderla felice, che l'avrebbe resa felice?

Ricacciò indietro le lacrime e gli appoggiò una mano sulla spalla. Quel contatto le fece girare la testa.

– Dispiace anche a me. –

E uscì.


– Ciao, piccola. – Cuddy si chiuse la porta alle spalle e prese Rachel dalle braccia della baby-sitter. – Mi sei mancata tanto. Vieni qui... –

Era passato un altro giorno. Uno in meno, prima del matrimonio.

La ragazza salutò ed uscì.

Cuddy rimase sola con la sua bambina, che giocava con il grosso ciondolo della collana di pietre che le aveva regalato Wilson.

Rachel adorava James, era stato per lei come un padre fin dall'inizio, quando ancora loro due non stavano insieme. Un pensiero la colpì. Lasciò andare Rachel, che sgambettò verso il morbido tappeto del salotto, per poi buttarcisi e rotolarcisi dentro ridendo.

James era come un padre per Rachel.

Era questo che l'aveva colpita.

Ma lei cosa stava cercando? Un uomo da amare o un padre per sua figlia? Entrambe le cose, questo sarebbe stato l'ideale. E James la amava, e amava Rachel.

Lei amava James?

Pensò che erano solo i tipici pensieri da panico pre-matrimonio e cercò di ritrovare la calma, mentre apparecchiava la tavola per due persone e preparava il seggiolone per la piccola.

Lui arrivò poco dopo.

– So che avete parlato. –

– Sì, ieri sera. Noi, beh, sembra davvero tutto a posto. Non posso crederci. –

Cenavano, seduti in cucina. Insieme.

Lei tacque. Ricordava la sua espressione addolorata, la mano stretta attorno al bastone, le spalle curve. Ricordava troppo bene quella figura tormentata e silenziosa che si era lasciata dietro, chiudendo la porta dello studio.

– Lisa, non avere paura. Vedrai che le cose si sistemeranno. Ha già fatto un enorme passo avanti. Andrà tutto a posto. –

La mano di lei stringeva il bicchiere. Le prese il polso e lo strinse dolcemente, finché lei lasciò il bicchiere e le loro dita si intrecciarono sul tavolo apparecchiato, tra pane, piatti e posate.

Rachel, nel seggiolone, scoppiò in una risata cristallina.

Sussultarono e si voltarono, appena in tempo per vederla mentre faceva colare la minestrina sul pavimento usando un cucchiaio di plastica blu.


Wilson esitava. L'appartamento era immerso nel silenzio, sembrava che House non fosse in casa. Ma c'era, c'era di sicuro. Il paziente epilettico era stato dimesso la mattina e non c'erano casi. Lo sapeva, Cameron era un'ottima informatrice.

Il problema era come chiederglielo.

Insomma, sembrava che tutto fosse a posto, ormai. Ma se non lo fosse stato?

– Allora, ti decidi a bussare o stai solo cercando di capire se sono con una prostituta delle mie? –

House era apparso sulla porta, maglietta grigia e pantaloni della tuta.

– House, come diavolo... –

– Borbottavi, non sei capace di pensare in silenzio. E io ero giusto dietro la porta, perché ti ho sentito aprire il portone. –

– Come sapevi che ero io? –

– Non ho casi. I miei vicini sono in vacanza. E' quasi mezzanotte. Chi pensi che possa aspettare a quest'ora, a parte te? –

– E allora perché non mi hai aperto subito? –

– Era divertente sentirti mugugnare da solo. –

Lo lasciò entrare e prese un paio di birre.

Rimasero in silenzio per alcuni minuti, con la mente ciascuno a miglia di distanza dall'altro. Cercavano entrambi di arrivare allo stesso punto, ma da direzioni opposte.

– House, sono così... è bello che le cose siano tornate a posto, tra noi. –

– Sì. –

– E beh, io mi chiedevo se tu... se tu volessi essere il mio testimone. –

– Di fronte a chi? L'amico immaginario non se la prenderà per la mia assenza... –

– Il matrimonio ebraico prevede la presenza di due testimoni. Il rabbino non farà storie se stai zitto e firmi quando devi. –

– No. –

– House. E' importante per me. Sei il mio migliore amico. –

Il suo migliore amico. Non sapeva come altro definirsi, ma era evidente che lo era, che lo era sempre stato.

Ingoiò i propri personali guai con se stesso, con Cuddy e con Dio. Gli rimasero da qualche parte in gola e gli ostacolavano il respiro. Ma almeno poteva parlare.

– Ok. –


La mattina dopo, il sole riversò un lago di luce dorata su Princeton.

Si svegliò alle prime ore dell'alba, dopo la notte più buia della sua vita. Sentiva un senso di perdita imminente, sentiva scivolare via un'occasione non colta, sentiva che era troppo tardi per qualsiasi riscatto. Era dannato per sempre, e guardando la luce penetrare nella stanza disegnando strisce chiare sul copriletto, incolpò l'estate per il suo profumo di rinascita e di vita.

Lui si sentiva morto.

Non più abbandonato o triste. Non solo. Vuoto.

Si alzò con fatica, sembrava che oggi anche la gamba non volesse dargli pace.

Mezz'ora più tardi, in giacca scura, camicia bianca insolitamente stirata e pantaloni abbinati, gettò nella spazzatura un tubetto ambrato, che fece un rumore secco mentre cadeva nel fondo del secchio di plastica. Poi aprì il rubinetto del lavabo e sciacquò un pesante bicchiere dal fondo quadrato. L'odore di alcol invase la cucina, insieme a qualcos'altro di dolce e liquoroso. Ripose la bottiglia e andò a farsi la barba. La mano destra stringeva convulsamente la stoffa, in corrispondenza della profonda ferita sulla coscia.

Qualche minuto dopo, la moto partì rombando. La Sinagoga distava pochi isolati.


– Cameron! Sei bellissima, grazie di essere venuta... –

– Auguri Wilson, ve li meritate così tanto. –

I due si abbracciarono.

– Ehi, Wilson! – Chase arrivò di corsa. – E' impossibile trovare un parcheggio qui intorno... – Gli assestò una pacca sulla spalla.

In quel momento, arrivarono Tredici e Foreman, la piccola Rachel nel passeggino.

– Lisa è quasi pronta, si sta cambiando. La piccola non la lasciava un attimo... E' così bella che l'abbiamo rapita. – Tredici sorrise dolcemente guardando la bimba, i boccoli biondi e l'abitino rosa.

– Auguri, Wilson. Tanti auguri. –

– Grazie Foreman... è bello che ci siate tutti. -

Il piccolo gruppo di persone si guardò intorno.

Taub era intento a parlare con il rabbino, mentre un gruppo di infermiere chiacchierava nella zona dell'edificio dove le donne avrebbero seguito la cerimonia. C'erano le famiglie, che si scambiavano i convenevoli emozionati delle grandi occasioni, e qualche amico un po' spaesato.

Tredici, Foreman, Cameron, Chase e Wilson pensarono tutti alla stessa persona. Che mancava.

– Dov'è House? –

– Io non lo so... dovrebbe essere qui a momenti. –

– E' incredibile che abbia accettato. –

– Credo l'abbia inteso come una specie di... sigillo della pace fatta. –

– Comunque, è incredibile. –

Già, era incredibile. E infatti lo strano presentimento di Wilson lo inquietava. Il ritardo era una delle caratteristiche di House. Ma proprio quel giorno, non sapeva se preoccuparsene o meno.

Poi ci fu un rombo e uno sbuffo di fumo entrò nella Sinagoga.

Gli ospiti si zittirono improvvisamente.

Un attimo dopo, dalla luce che filtrava nella penombra, attraverso la fessura dell'ingresso, emerse l'ultimo degli ospiti, gli occhiali da sole e il casco sotto il braccio, la camicia bianca un po' sgualcita e l'espressione indecifrabile.


– Bene, se siete tutti pronti, possiamo iniziare. – Il rabbino invitò gentilmente il piccolo gruppo di persone a uscire dalla Sinagoga per formare il corteo.

House e Wilson si trovarono l'uno a fianco all'altro.

– Grazie. –

– Ma ti pare. – House fissò l'amico negli occhi e li vide umidi.

Lei arrivò sola, da una piccola porta laterale. Era vestita di bianco, con un velo che le copriva il volto. House pensò che forse era meglio così, non sapeva che reazione avrebbe potuto avere, guardandola negli occhi.

Quando lei, lasciando una leggera scia di profumo, si avvicinò a Wilson, House sentì un fiotto di calore inondargli il viso e un senso di oppressione gli attanagliò il petto.

– Ciao... – gli sussurrò lei.

"Ciao, Raggio di sole." pensò lui. Ma non le rispose.

Il corteo, guidato dal rabbino, entrò nella Sinagoga.


– Il Signore disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli

uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

Egli creò l’uomo a sua immagine; a immagine Sua lo creò; maschio e femmina li creò.

Li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui

pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».

Egli vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. –

Le parole della Genesi risuonavano solenni tra le volte della Sinagoga.

– Il Signore plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

Allora l’uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna

perché dall’uomo è stata tolta". Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua

moglie e i due saranno una sola carne. –

Cuddy e Wilson si avvicinarono al rabbino.

– I testimoni di fronte al Signore del matrimonio di quest'uomo e questa donna sono chiamati a sancirne l'unione alla presenza di questa comunità. Avvicinatevi. –

House e Taub si accostarono al rabbino. Era la coppia di testimoni più inusuale che quella Sinagoga avesse mai visto.

Wilson iniziò a leggere la ketubah, srotolando la lunga pergamena del contratto di matrimonio sul pavimento di pietra.

House credette di essere in un sogno o in una sorta di allucinazione terrificante. Si sentiva morire di freddo, ma a tratti avvampava, e quasi non riusciva a respirare. Si appoggiò con tutto se stesso al bastone, l'unica cosa che ancora lo sosteneva.

Poi si trascinò, con tutti gli altri, sotto la huppah. Il pesante baldacchino di velluto rosso rendeva l'ambiente ancora più buio. Il fratello maggiore di Wilson teneva una torcia accesa e il fumo denso che ne usciva annebbiò lo sguardo di House, che ringraziò quell'insperata fortuna di non vedere.

Il rabbino versò del vino in un calice e recitò la benedizione.

Cuddy fece tre volte il giro della huppah, camminando lentamente, tra i fruscii del raso bianco, attorno allo sposo.

Poi bevvero dal calice.

House sentì una fitta terribile da qualche parte in fondo all'anima, mentre una tristezza immensa lo invadeva, come il vino versato in quel calice trasparente.

Non riusciva a prendere respiro.

Wilson si schiarì la voce.

– Harei at m'kudeshet li: ecco, tu sei consacrata a me secondo la Legge di Mosè e Israele. –

Un brillante scintillò per qualche secondo attraverso la penombra.

– Harei mekudeshet lecha: ecco, io sono consacrata a te secondo la Legge di Mosè e Israele. –

Wilson prese la mano di lei, per infilarle l'anello.

– Harei, ani muchana v'mezumenet l'kabel et ha'taba'at zo k'dat Moshe v'Yisrael: ecco, io sono pronta e dichiaro di ricevere questo segno secondo la Legge di... –

In quel momento, un bastone di legno scuro rotolò sul pavimento della Sinagoga.

Non respirava.

Non c'era polso.

L'ambulanza giunse al Princeton in pochissimi minuti.

Wilson, che ancora stringeva l'anello nel pugno chiuso, ripensò alle parole di qualche sera prima.

"Me ne servirebbe una quantità inverosimile per farla finita."



***



Mentre infilava lentamente il cercapersone nella borsa, Cuddy cercò di dissimulare l'ansia che le montava dentro come un'onda anomala, veloce e inarrestabile.

– Rachel, tesoro, devo andare al lavoro. –

– Ma mamma, sei già al lavoro... –

– Questa è...una festa. La mamma cura le persone, lo sai. –

– Ma io... – Un paio di grossi, luccicanti lacrimoni illuminarono gli occhi celesti della bambina. I preparativi della cerimonia erano durati tre giorni, Cuddy non aveva avuto molto tempo per lei: Wilson le aveva riportato la piccola la mattina stessa.

– Rachel, c'è una persona a cui voglio bene... – La voce del Decano si incrinò – che ha bisogno di me adesso, e sta molto, molto male. Devi promettermi che starai con Robert e Allison fino a che non torno. Ok? –

– Ok mamma. –

Cuddy prese la figlioletta per mano.

– Cameron! –

Una donna più giovane, i lunghi capelli raccolti un una coda biondo ramata, si voltò e sorrise. Sotto l'abito di seta rosa si intuiva l'accenno di un pancione di pochi mesi.

– Rachel, tesoro! Diventi sempre più bella... – Poi notò l'espressione sul viso di Cuddy e intuì.

– Oh, Lisa... Dobbiamo venire? –

– No, vado io. C'è già Wilson. Potresti stare con Rachel finché non torno? –

– Ma certo... Vieni piccola. – Rachel corse da Cameron. Era ancora arrabbiata. Cuddy ripensò a tanti anni prima, quando, in una sala operatoria, House le aveva predetto uno di quei momenti.

– Rachel, ti prometto che non starò via molto. Ti voglio bene. –

La bambina si voltò verso la madre e mormorò un "Ti voglio bene anch'io" appena udibile.

– Rachel, che ne dici di una fetta di crostata? – Chase arrivò con un enorme piatto colmo di cibo. Poi prese la piccola per mano, con l'altro braccio cinse le spalle di Cameron e si diressero verso uno dei tavoli apparecchiati.


In meno di un minuto fu all'ingresso dell'ospedale.

– Dottoressa Cuddy, cosa succede? – Una receptionist le porse il camice.

– Alla 221 c'è... un'emergenza. – Non riuscì a mantenere il tono professionale che si era prescritta.

– Il dottor House? –

– Sì. –

– Capisco. –

Cuddy corse verso l'ascensore.

Come poteva farle anche questo? Sentì le lacrime, prepotenti, spingere violentemente negli occhi che bruciavano. Non poteva andarsene. Eppure da cinque anni sapeva che sarebbe venuto il momento, e che probabilmente, se non fosse venuto abbastanza in fretta, avrebbero dovuto chiamarlo loro.

Invece, ancora una volta, lui aveva deciso di fare da sé.

Immaginò la propria vita senza più mettere piede in quella stanza luminosa, senza più il suo viso perso a contemplare un mondo a lei - a tutti loro - inaccessibile. Immaginò di non poter più sentire il tocco della sua pelle sotto il palmo della mano, la sua fronte liscia e distesa sotto le sue labbra la sera, prima di tornare a casa da una bambina che lui aveva potuto vedere solo neonata.

Bloccò l'ascensore tra il terzo e il quarto piano.

Si appoggiò alla parete e un singulto violento, da scuoterle l'anima in tutta la sua profondità, le salì alla gola.

Poi si vide allo specchio e pensò che lui aveva ragione, l'aveva sempre avuta: lei non era un vero dottore. I veri dottori non vanno in pezzi dentro gli ascensori bloccati.

Premette di nuovo il pulsante e in pochi secondi correva attraverso il corridoio, pronta ad affrontare l'ennesima prova.


– Lisa. –

Wilson l'aspettava nel corridoio, la mano appoggiata al vetro della porta scorrevole. Le tendine erano tirate.

– Wilson, serve un carrello emergenze! Dannazione, dobbiamo sbrigarci! Wilson, levati-di-mezzo... –

Wilson non si muoveva.

Non poteva essere già finita. Per la miseria, ci aveva messo meno di tre minuti tra il parco e il quarto piano.

– Wilson... –

Lui la prese per le spalle e la strinse a sé cercando con lo sguardo un punto lontano, oltre il corridoio, oltre la grande finestra che dava sul prato, oltre le mura dell'Università.

– Lisa, si è svegliato. –

Lei si divincolò dalla presa, ma riuscì solo a fare un passo indietro.

Le lacrime esplosero nei suoi occhi e le rotolarono giù per le guance, lasciandole segni umidi sulla pelle.

Wilson la tenne stretta a sé per un lunghissimo minuto, poi entrarono nella stanza.


– Non posso crederci. –

Camminò pianissimo verso il letto e tese una mano per toccarlo. Era caldo, era un essere umano ancora vivo, poteva sentire il suo sangue pulsare e il suo cuore battere.

– Ha aperto gli occhi come al solito, ma mi ha guardato. Mi ha guardato, Lisa. E' stato... è stato incredibile. –

– House... – Gli accarezzava la fronte, le palpebre chiuse, le labbra silenziose. Wilson distolse lo sguardo.

– Lisa, non so cosa dobbiamo aspettarci. Ma non è più in coma. –

In quel momento, lui aprì di nuovo gli occhi e la vide vicinissima al suo viso, respirò il suo fiato dolce e il suo profumo fu la prima percezione distinta che, dopo anni, giungeva ai suoi sensi obnubilati.

– Ben... bentornato. Non avere paura. – Lei gli prese la mano. – Mi senti? Batti le ciglia. –

E i suoi occhi blu sparirono per una frazione di secondo dietro le palpebre sottili.

Il sorriso che si aprì sul volto di lei gli sembrò un'alba estiva dopo il temporale notturno.

"Il paziente entra nella Fase 3 in data 11 giugno 2014. Parametri vitali stabili, attività cognitiva provata." La penna stilografica di Wilson vergò quelle parole in una calligrafia tremolante per l'emozione, sotto il rigo precedente. Scritto sempre da lui, circa quattro anni prima.


***


Raggiunsero l'ospedale in quindici minuti. In poco meno, una selva di aghi gli avevano bucato la pelle per aspirare il suo sangue o diffondervi qualche medicinale.

Il tox screen arrivò nel giro della mattina, mentre Wilson e Cuddy, affranti, osservavano l'uomo che giaceva immobile al centro di una piccola stanza buia, in Terapia Intensiva. Lei era riuscita a cambiarsi con i vestiti che indossava prima della cerimonia, una tuta da ginnastica grigia e un paio di sneakers chiare. Wilson la guardò bene in volto. Non avevano niente da dirsi in quel momento. La mano nella sua tasca rilasciò l'anello d'oro, il cui brillante, stretto per ore contro la pelle, gli aveva graffiato il palmo. Il piccolo cerchio di metallo ricadde nella tasca e sembrò pesare chili, non grammi.

Lei piangeva in silenzio.

Wilson credette di capire. Un'onda di dolore gli invase lo stomaco, sentì un sapore amaro sulle labbra. D'un tratto, le immagini nitide di un futuro prossimo si dissolsero in migliaia di frammenti che gli bruciavano dentro come lapilli.

Non poteva giurarci, ma gli sembrò di sapere che il momento non era lontano.

In quel momento arrivò Taub, con il foglio dello screen tossicologico.

– Oppiacei. Valori assurdi anche per lui. E alcol. Poco, appena sopra il limite. Un cocktail mortale, direi. Guardate. –

Wilson prese il foglio e lesse numeri impensabili.

"Che dannatissimo, maledetto idiota. Come ha potuto..."

La morsa si strinse attorno allo stomaco ed ebbe bisogno di sedersi.

– Mi dispiace moltissimo, Wilson. Non doveva farvi una cosa del genere. –

– Non doveva farlo a se stesso, Taub. –

Sedevano sul piccolo divano del corridoio. Cuddy, ipnotizzata, non si era nemmeno voltata: continuava a fissare il letto e il suo occupante, impietrita.

– E' finita, Taub. E' tutto finito. –

Wilson si alzò e andò nel suo studio.


***


Foreman finì di stringere mani e regalare sorrisi ai venticinque nuovi medici dell'Università di Princeton. Era così assorto nel suo compito ufficiale che non vide Cuddy corrergli incontro attraverso il prato, seguita da Wilson.

– Foreman! –

Li vide, erano a pochi metri da lui. I visi arrossati per la corsa e forse per qualche altro motivo che in quel momento non riusciva a cogliere.

– Foreman, ci serve un neurologo... – La voce di Cuddy tremava, stringeva un fazzoletto bianco.

– Cuddy, siamo nel bel mezzo della festa, il Rettore vorrà pranzare con noi. Non puoi chiamare qualcuno dal reparto? –

– E' per House. – Wilson si avvicinò, l'aria seria, il volto preoccupato. – Responsività muta. Pochi minuti fa. –

Foreman osservò incredulo i due medici che più stimava. I due amici che amava. Le due persone più ferite che conoscesse.

– Wilson... E' stato in coma vigile per quattro anni. Siamo praticamente sicuri che lo stato vegetativo sia permanente. –

– Ha aperto gli occhi... – intervenne Cuddy.

Foreman pensò che Wilson fosse stato un idiota a farla partecipare a ciò che doveva essersi svolto nella stanza 221 del quarto piano.

– I cicli sonno-veglia hanno sempre funzionato a dovere. Non è diverso da ogni giorno, se apre gli occhi. –

– Foreman. – Wilson fece per accompagnarlo dietro il piccolo palco sotto cui si trovavano. – Mi ha guardato. Dritto negli occhi. –

Foreman lasciò cadere il foglio con l'elenco dei diplomati.

– Ci sente. E' tornato. E' tornato davvero. – Cuddy non aveva più segni di emozione sul volto. Solo una grande determinazione.

Foreman ebbe appena il tempo di riconsiderare la maggior parte delle proprie convinzioni mediche.


Wow.

Che piacevole sensazione.

Galleggiare nella luce, niente rumori, niente dolore. Niente. Nessuno.

Ma non sarebbe durato. Non questa volta, lo sapeva.

Il lungo sogno finiva lentamente, mentre la brezza di giugno entrava furtiva dalla finestra socchiusa, e le voci dal giardino giungevano chiare. Risate, colpi di tosse, musica.

Profumo.

Profumo di cibo.

Quanto tempo era passato da quando aveva sentito profumo di pollo allo spiedo?

Fiori.

Qualcosa di forte, forse la lavanda che cresceva nelle piccole aiuole del parco.

Sembrava che le sensazioni tornassero amplificate. Ma era perché tutto, d'un tratto, gli era apparso come nuovo.

E la gamba.

Un piccolo, sottile, costante dolore. Poteva quasi disegnare il percorso che faceva lungo la sua coscia destra.

Cercò di passare oltre.

Di esplorare la sensazione successiva.

E la sensazione successiva venne.

Le lenzuola sulle gambe nude, il cotone fresco che gli accarezzava la pelle.

Provò a muoversi.

Fu come un risveglio faticoso, e gli sembrò di scaricare con fatica un peso diventato intollerabile.


Loro entrarono mentre House, la gamba sinistra leggermente piegata sotto il lenzuolo, si toccava il viso con una mano.

– Santo cielo. – Foreman si bloccò sulla soglia.

Wilson gli posò una mano sulla spalla.

Cuddy si avvicinò al letto e prese la mano libera di House tra le sue.

– Siamo qui con te. – Disse. E premette la mano tiepida sul proprio viso. Una lacrima le corse giù per le guance.

– Cuddy. – Era lui. Era la sua voce, in un tono che parve venire dall'oltretomba. Poi richiuse gli occhi.

– Angiografia cerebrale, EEG, TCD, T-Scan e SSep, voglio la squadra qui in dieci minuti. – Foreman afferrò la cartella clinica. Non poteva fare altro che credere a quello che aveva visto.

Wilson corse fuori.


– Buonanotte. – Cuddy accarezzò la guancia ruvida del paziente, che la osservava. Nei suoi occhi blu sembrava che galleggiasse una flotta di parole, come tante barchette di carta. Ma le sue labbra non si schiudevano.

Dannazione. C'era lì Cuddy che gli stava dando la buonanotte. In altri tempi le avrebbe fatto notare quanto era inappropriata quella scollatura. Ora invece non riusciva nemmeno a ricambiare il saluto.

– Lo so. – disse lei.

Cosa sapeva? Lui non aveva detto niente. Beh, aveva pensato... ma non era la stessa cosa. Eppure lei gli aveva risposto.

Concentrò tutto il suo essere nel pronunciare le sillabe in un tono che non sembrasse venire dagli Inferi.

– Buona... –Il resto della parola gli morì in gola. Maledizione.

Lei gli sorrise.

– Ci puoi riprovare domani. –

E con un bacio sulla fronte lo salutò anche per quella sera. La ventinovesima sera della sua seconda vita. Quella in cui non riusciva a infilare due parole di seguito.


– Ciao piccola! – Rachel l'aspettava sulla veranda. In piedi, con la sua bambola stretta tra le braccia abbronzate.

– Sono stata al mare con zio Jimmy oggi! Abbiamo raccolto le conchiglie, poi l'aquilone ci è scappato ed è caduto nell'acqua... –

– ... Già. – Apparve Wilson, i capelli incrostati di sale, la maglia ancora umida e un paio di boxer viola. – Non hai nulla da prestarmi, vero? – Sembrava esausto. – Non posso andare in ospedale così... –

– Posso prestarti la doccia. – Cuddy sorrise. Era provvidenziale che Wilson si fosse preso quella settimana di ferie, proprio mentre lei seguiva un certo caso, che la teneva occupata tutto il giorno.

– Meglio che niente. –

Poco dopo erano seduti a tavola. Rachel leggeva un libro per bambini nel salotto.

– Jimmy, non so come ringraziarti per il tempo che passi con la bambina. –

– Ma ti pare. E' una brava ragazzina. E per me è un piacere aiutarti. –

– Lo so. E so anche quanto ti costa. –

Lo sguardo di Wilson si fece scuro e distolse gli occhi da quelli di lei.

– Ne abbiamo già parlato tante volte. –

– Mai, da quando lui si è svegliato. –

– Lisa, sono passati anni. E'... è finita da tempo, per tutti e due. –

– Lo so. –

Lui le prese la mano e la strinse forte. Era un gesto denso di amicizia, rispetto, rimpianto.

– Pensi che ricordi qualcosa? –

– Non ci siamo parlati molto, negli ultimi quattro anni. –

– Già. Ho solo paura di quando potremo farlo. –

– Anch'io. –

– Forse... – Wilson tacque di colpo.

Lo sguardo interrogativo di lei lo fece proseguire.

– Se non ricorda nulla, forse non dovremmo essere noi a... –

– Jimmy! Vuoi mentirgli? – Lei tolse la mano.

– Non proprio. –

– Ma non appena potrà, se non ricorda nulla, ci chiederà cos'è accaduto. –

– Un'overdose di Vicodin. Quello che poi è stato. Conta qualcosa che sia accaduto in una Sinagoga, mentre noi due ci scambiavamo le promesse di matrimonio? Conta qualcosa che volesse farla finita? –

Lei taceva, gli occhi spalancati.

– Lisa, avrebbe potuto accadergli ovunque. E per caso. –

– Forse hai ragione. –

– Devo andare, il turno al Pronto Soccorso inizia tra un quarto d'ora. Cameron mi ucciderà se non mi sbrigo. Da quando è incinta è molto meno accomodante... –

Cuddy sorrise.

Rachel arrivò di corsa dal salotto.

– Arrivederci ragazze. – E con due grossi baci sulle guance, Wilson le lasciò sole.


La prima cosa che fece, quando vide che non c'erano pazienti urgenti, fu di salire in camera di House.

Gli era mancato così tanto.

Mentre lo osservava dormire, il dolore e il rimpianto di averla persa per sempre scivolarono via dal suo cuore ferito, per lasciare spazio alla gioia di avere di nuovo il suo amico.

– Ehi. – Aveva aperto gli occhi e lo fissava, con quello sguardo pieno di significato che riservava alle persone, ora che le parole non sempre lo aiutavano.

– Ciao... Io... Io non volevo disturbarti. –

Oh, Jimmy. Perché mai non si decideva a entrare? Formulare l'intero invito gli sarebbe costato l'incenerimento dell'area di Broca, se lo sentiva.

Wilson fece per andare via.

– Maledizione. Entra. –

Due parole.

Ce l'aveva fatta.

Wilson si voltò con un sorriso.

– Ok. Cameron si arrangerà. –

Sorrise anche lui.

Era piacevole ritrovare la tensione delle guance, le labbra tese, sentirsi sollevare gli angoli degli occhi. Un piccolo piacere ritrovato. Decise che l'avrebbe sfruttato di più, da quel momento.


***


Passavano i giorni e la distanza cresceva, incommensurabile, tra l'uomo che giaceva immobile e il resto del mondo dei vivi. E cresceva, altrettanto incommensurabile, la distanza tra le due persone che più lo amavano.

Lei passava ogni ora libera dal lavoro al suo capezzale, gli parlava, cercava di trattenerlo, di non lasciarlo scappare via dalla vita. Ma quando Wilson entrava nella stanza per il proprio turno di veglia, lei si allontanava in silenzio, senza guardarlo negli occhi.


La musica di Chopin avvolgeva la stanza, qualche libro sul pavimento e il camino acceso, mentre Cuddy cullava la sua bambina e pensava alle casualità della vita. Era tutto finito, per sempre. Non ci sarebbero state promesse, anelli, vino e gente che ballava.

Bussarono alla porta.

– Ciao. –

Era lui.

– Ciao Lisa. –

– Entra, fuori diluvia. Ho dovuto accendere il camino... –

Wilson entrò, impacciato.

Si accomodarono sul divano, mentre lei teneva stretta la piccola, che scivolava lentamente tra le braccia di Morfeo.

– Lisa, io... – Gli si incrinò la voce. – Vorrei sapere come stai. –

– Bene, insomma, ho un sacco di cose da fare, incombenze, l'amministrazione preme per i nuovi finanziamenti. –

– Lisa... – Lui le staccò delicatamente la mano dalla copertina di Rachel e la prese tra le sue. – Dopo quello che è successo... –

– Wilson, dovresti essere tu di turno questa notte, forse è meglio che torni al Princeton. – La sua voce si fece dura. Si alzò e andò a portare Rachel in camera.

Lui la seguì e la osservò mentre depositava la piccola nella culla. L'aveva chiamato per cognome.

Si avvicinò e le cinse i fianchi. Lei si voltò di scatto, ma vide sul suo viso solo i segni di una grande tristezza.

– James. –

Lui la guardò negli occhi. Stava solo aspettando che lei trovasse la forza per dirglielo. L'aveva vista allontanarsi sempre di più, la stava perdendo.

– Mi dispiace. Mi dispiace tanto. –

Ed era vero, lui lo sapeva.

Poche ore dopo, da solo, nella notte estiva ancora umida della pioggia serale e fredda come solo certe notti di luglio sanno essere dopo una tempesta, Wilson seppelliva l'anello nella terra bagnata della pioggia e delle sue lacrime.

Il parco del Princeton era deserto e l'uomo in impermeabile sedette sulla riva del lago, i gomiti sulle ginocchia, accarezzando col pensiero quel cerchietto di metallo che adesso giaceva solo nel buio, come il suo migliore amico.


***


Si osservarono per lunghi minuti, nel più totale silenzio.

– Bei boxer. –

Wilson sembrò risvegliarsi da una specie di sogno ad occhi aperti. Dimenticò in un istante l'anello e la terra umida sotto le dita. Si guardò i boxer viola, ora quasi asciutti. Sorrise.

– Dico davvero. –

– Ehi, com'è che adesso sei così loquace? –

– Recupero. –

– Si vede. –

Nel tono scherzoso con cui pronunciava queste parole, Wilson non avrebbe potuto mettere una gioia maggiore. Due parole. Quindi una frase minima. Soggetto, predicato. Predicato, avverbio. Sostantivo, attributo.

– Wilson. – Il tono di House era cambiato. Serio.

– Dimmi... –

– Due passi? –

– Due... due passi? –

Era impazzito. Dove diavolo voleva andare, a piedi?

House lo guardò con quello sguardo tutto suo. Cosa doveva provare un uomo che non si alzava da anni?

– Vado a prenderti una sedia a rotelle. Torno tra un minuto. –

Wilson si alzò.

– Jimmy. –

– Ma non puoi alzarti... Non ti reggeresti. –

– Aiutami. –

– House, questa non mi sembra una buona... –

– Per favore. –

Santo cielo, Jimmy. Che ci voleva a offrire una dannata spalla? Era una noia mortale quella stanza, mai nessuno da psicanalizzare, mai una malattia strana, un sintomo sospetto. Mai niente. Si chiese se l'avessero imprigionato in una stanza privata con il preciso scopo di evitargli compagnia. In fondo voleva solo fare un giro, maledizione. Dare un'occhiata alle infermiere nuove. E controllare che dessero ancora le repliche notturne di General Hospital. O magari rubare un leccalecca dal bancone della reception. Tutti quei ricordi gli rifluirono alla mente come sangue che riprendeva a scorrere.

Wilson si chinò.

– Forza. –

Gli prese un braccio e se ne caricò il peso sulle spalle. Con il braccio libero lo prese per la vita e tirò. Bene, era seduto al bordo del letto.

Doveva essere facile. Una cosa che non dimentichi. Una gamba, poi l'altra.

Posò a terra un piede e rabbrividì al contatto con il pavimento freddo.

Poi provò con l'altro. Wow, stava funzionando. Beh, a dire il vero il peso lo stava portando il povero Jimmy, ma l'idea della camminata la si aveva.

– House... – Jimmy, le guance in fiamme per lo sforzo, lo guardava da sotto la sua spalla. Una piccola lacrima gli spuntò all'angolo dell'occhio destro. Poi un'altra, dall'altro lato. No, Jimmy in lacrime l'avrebbe fatto scoppiare in una risata fragorosa. Avrebbe svegliato l'intero reparto.

– Smettila. – Cercò di mantenersi serio, ma un sorriso irresistibile, di quelli suoi che spuntavano furtivi e di sbieco, gli si stava formando sul viso.

Proseguirono.

Cinque minuti dopo riuscirono a varcare la porta della stanza 221 e House, dopo quattro anni, fu nel mondo. Di nuovo.

– Wow. Fant... –

– Fantastico? –

– Già. Fantastico. –


Erano nella clinica. Seduti sulle sedie di plastica della sala d'aspetto. Un paziente e un familiare come tanti, agli occhi della gente in attesa.

Come fossero arrivati fin lì, se lo chiedevano entrambi. Ci erano volute circa due ore. Mezz'ora per arrivare all'ascensore, mezz'ora per il giro in saletta medici (sì, General Hospital era ancora nei palinsesti notturni), un'altra mezz'ora per lo spuntino di mezzanotte al bar e poi il tragitto fino alla clinica. Le spalle di Wilson bruciavano di fatica, mentre il suo cuore urlava di gioia.

– Grazie. – House non lo guardava. Wilson si chiese quanto gli stessero costando quelle due ore.

– Non c'è di che. –

– Wilson... –

– Sì? –

– Come... –

Wilson capì che il momento era arrivato. Sapeva che sarebbe accaduto, anche se non pensava così presto.

– Come sei arrivato qui? –

– Sì. –

– E' stato... il Vicodin. Hai esagerato. – Tagliò corto.

House abbassò lo sguardo. Sembrava andargli bene, come spiegazione. Almeno per il momento.

– House! Che accidenti ci fai qui? –

Cameron, il camice un po' troppo stretto sul pancione, spuntò da una tendina che riparava chi l'aveva schizzata di sangue e fango. Teneva circa cinquanta centimetri di garza sterile e filo da sutura.

– Un giretto. –

– Questo lo vedo. Wilson, cosa ti passa per la testa? Sarà esausto... Deve riposare! – Lei prese la piccola pila da taschino e la puntò dritta negli occhi di House.

– Ahi! Piantala... –

– Sempre il solito. –

– Sempre. –

– Vado a chiamare Chase. Vorrà salutarti, è un po' che non passa di sopra, non ha mai tempo. –

E Cameron sparì, con pila, garza e filo, tenendosi la schiena.

– Scappiamo? –

– Scappiamo. –

Mentre i due ripetevano la faticosa procedura, una donna sui quaranta cadde riversa a terra, le pupille dilatate, incapace di articolare parola o di rialzarsi.

House si voltò. Gli bastò uno sguardo.

Era così facile. Tre parole. Due e mezzo, una era un composto. Ma a chi importava?

– Sifilide Meningo-vascolare. –

Wilson quasi mollò la presa.

Quando Cameron e Chase ritornarono, non restò loro che soccorrere la paziente. La mattina successiva, le analisi confermarono la diagnosi di House.


– Rivoglio - la mia - squadra! –

House, in camice e Nike, seduto a gambe incrociate su una grossa sedia a rotelle, batteva a terra il bastone ad ogni parola pronunciata. Il parquet appena lucidato dello studio di Cuddy vibrava ad ogni colpo.

Lei era al telefono.

– Sì... Non c'è problema, il Consiglio delibera oggi pomeriggio. No, non si deve assolutamente... House! Dannazione!–

Lui si bloccò, il bastone a mezz'aria, un sorrisetto obliquo, gli occhi scintillanti.

– ... Mi scusi, sì, dicevo che presenzierò personalmente al Consiglio di Amministrazione, d'altra parte il mio ruolo mi impedisce di... –

Colpo di bastone.

– ... Di non essere a favore di una tale... –

– Rivoglio - la... –

– Va bene! –

– Ok. –

Sempre con il sorriso in tralice stampato sul viso, House fece retromarcia.

Ma lei fu più veloce e, abbandonato il telefono, lo afferrò per la maniglia della sedia a rotelle. La gomma delle Nike stridette contro il pavimento. Era ancora troppo debole per farle resistenza. Che maledetta strega.

Con l'altra mano riprese il ricevitore.

– ... Di una tale offerta. Devo andare signor Barnes, la richiamo io. –

– Cuddy, che diavolo fai... –

Lei lo attirò a sé.

Il vento di ottobre spazzava il parco e piccoli vortici di foglie danzavano fuori dalle finestre luminose. Quattro lunghi mesi, infiniti giorni e notti avevano accompagnato il risveglio di un uomo, il suo lento, faticoso ritorno alla vita.

– Cuddy... –

Lei lasciò la sedia a rotelle e lui poté voltarsi, per vederla, seria, commossa, sorridente, mentre lo osservava.

– Sei tornato. – Mormorò.

– Ti sei persa qualcosa ultimamente... –

– House, sei tornato davvero... –

Sentì il tocco di lei, come seta, sulla sua guancia ruvida, come la prima volta, mesi prima.

La osservò a propria volta, terrorizzato. Non poteva essere quello il momento, non era pronto, non sapeva cosa aspettarsi. Ma lei sembrò non pensare a nulla di tutto ciò, mentre si sedeva sulle sue ginocchia. Le sue braccia si aprirono per accoglierla, senza che se ne accorgesse, senza che pensasse di abbracciarla per davvero.

Così seduta per traverso, un mano tra i suoi capelli e l'altra stretta nella sua, lei iniziò a baciarlo delicatamente.

Cielo, che sapore delizioso.

Dolce.

– Cuddy, siamo nel tuo ufficio. –

– E a chi importa? –

Continuò quella specie di incantesimo. Forse il piano era quello di rimandarlo al Creatore a forza di baci: non avrebbe avuto più bisogno di interrompere le sue telefonate per lui. Sperò di ritrovarla all'Inferno, prima o poi. Si sarebbe sentito terribilmente solo, altrimenti.

– Non osare... – Cuddy smise di baciarlo. Passò ai lacci del camice. – Non osare lasciarmi sola, mai più. –

Lui sentì la portata di quella minaccia. Sentì la buia solitudine, il disperato distacco dal mondo dei vivi, le voci irraggiungibili, le sensazioni che non riusciva a fare sue. Non voleva morire, non voleva andarsene.

– Cuddy, tu sei impazzita. – E ricambiò il bacio, infiammato dall'attrazione che non riusciva a contrastare. Tremava.

Lei si fermò per un attimo e lo fissò dritto negli occhi.

– Andrà tutto bene. –

E iniziò uno strano balletto, mentre i due, appollaiati in precario equilibrio sulla pesante sedia a rotelle, cercavano l'uno la pelle dell'altra, il tocco delicato, le labbra avide.

Lei lasciò cadere la giacca e la camicetta di raso, mentre lui le accarezzava le cosce sotto la gonna ancora leggera, immaginandola svolazzare nel vento di quel giorno. Cercava gli anni perduti, i momenti non condivisi, le parole taciute per forza. Mentre i loro corpi si aiutavano nella ricerca l'uno dell'altro, mentre lei sosteneva le sue mosse disabituate e lui godeva della scioltezza di lei, aspirando dalla sua pelle la vita, le loro lacrime evaporavano sulle labbra calde, lasciandole umide di piacere e leggermente salate.

Fecero un amore scomodo, disperato, avido, faticoso.

No, non voleva andarsene.

Improvvisamente, mentre riposava dentro di lei, un fiotto di immagini sfocate gli si riversò nella mente. Fumo, incenso, vino, due figure che si prendevano la mano. La gamba che gli dava il tormento.

– Cuddy... – Sussurrò.

Lei sollevò la guancia dalla sua spalla e vide la sua espressione mutare al ritmo delle immagini che scorrevano. Credette di capire.

Non aveva mai voluto andarsene.

Ma ora scivolava faticosamente fuori dallo studio, il camice mezzo aperto, le mani che spingevano sulle ruote.





Nota dell'Autrice: ho riunito le precedenti tre parti della storia in un unico capitolo, per non spezzare troppo l'andamento narrativo. Siamo arrivati ad un vero punto di svolta nella vicenda e da questo momento inizia la seconda parte del racconto. Grazie a tutti i miei lettori per l'affetto con cui seguono i miei sogni. Alessandra


   
 
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