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Autore: Sunshiner    20/04/2009    2 recensioni
Prima Parte: Risvegli - da giugno a ottobre 2014 Bianco. Luci. Da qualche parte proveniva della musica jazz a bassissimo volume. Voltò lentamente il viso a sinistra. Sul comodino c'era un iPod, collegato a due piccole casse. E dei fiori gialli. Vide il sole splendere dalla finestra che dava sul parco. Il parco? Il parco del Princeton. Ecco dove si trovava. Richiuse gli occhi per un momento. Come era finito al Princeton? Li riaprì, come per accertarsi che non fosse un sogno. Non lo era. Qualcuno si mosse alla sua destra. Si voltò. – O mio dio. House... – Wilson dormiva su una poltroncina accanto al letto. Si era appena svegliato e lo guardava con un'aria così stupita e spaventata allo stesso tempo, che non poteva dire se fosse felice di vederlo. Richiuse gli occhi.
Genere: Drammatico, Suspence, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'Autrice: inizia qui la seconda parte della storia. Dato che non ho previsto una terza parte, aggiornerò modificando direttamente questo capitolo. Buona lettura.

Seconda Parte: Vite - da ottobre 2014 -

– Tu... tu? Oh, no... – Wilson, le mani tra i capelli, percorreva a lunghi passi il perimetro dello studio.

Lei taceva, seduta alla scrivania, lo sguardo perso nel vuoto.

– Dannazione... Non dovevamo dirglielo. –

– Wilson, io non gli ho detto nulla! –

– Oh, no, certo. Tu... tu hai solo fatto l'amore con lui nel tuo ufficio, quando ancora non riesce a fare dieci passi da solo e perde la bussola quando si emoziona! – Wilson era fuori di sé.

– Forse dovremmo andare da lui... –

– No, io devo andare da lui. Pare che tu non sia in grado di... –

– Wilson, controllati, per favore. –

– No! Tu sei il suo medico! Non io, maledizione! E se gli succede qualcosa sarà solo e soltanto colpa tua. –

Con queste parole, afferrò la maniglia della porta. I vetri tremarono e Wilson sparì nel corridoio.

Lei lo guardò confondersi tra la folla di infermieri e pazienti e si chiese se quel momento sarebbe mai venuto, se lei avesse già avuto il dannato anello al dito.

– Reception? Sono la dottoressa Cuddy. Rimandate i miei appuntamenti di oggi pomeriggio, per favore. –

Le girava la testa. Prese le sue cose e se ne tornò a casa.


Le tendine erano tirate. Wilson fece scorrere piano la porta, temendo di svegliarlo. Ma non dormiva.

In piedi, appoggiato al davanzale della finestra, guardava il parco colorarsi di acquerelli autunnali, lo sguardo vagava per i prati che si perdevano nella foschia del lago, le foglie che vorticavano nel vento.

Vide l'amico, forse per la prima volta, per quello che era. Un paziente stanco, affaticato, uno che ha dormito per anni e rientra con fatica nel mondo vero, quello dove si ama e si soffre: Wilson lo sapeva bene. Vide le sue gambe magre, le caviglie sottili nelle Nike che sembravano di due misure più grandi; vide il busto curvo, le braccia tese che sostenevano il peso contro la finestra e conservavano un segno dell'antica possanza. Vide il viso pensieroso, solcato, lo sguardo addolorato, che però non aveva perso quella luce tutta sua, quella capacità, che sempre aveva avuto, di dire più di mille parole. Fu allora che decise di aprire bocca.

– House. –

Lui si appoggiò al bastone per voltarsi verso la porta. Pareva che non l'avesse nemmeno sentito entrare. Lo guardò senza parlare. Aveva gli occhi arrossati.

– House, forse dovremmo parlare. –

Si voltò di nuovo verso la finestra.

– Vieni. Forza. – Wilson gli cinse le spalle e lo accompagnò verso il letto, sostenendo, ancora una volta, e fisicamente, il peso di un amico tanto raro, quanto complicato.

– Allora, vuoi parlarne? –

– No. –

– Dovresti. –

– No, tu vorresti parlarne. –

– Questo non è vero. Beh, sì, è vero. –

– E allora parla. Ascolto. –

Wilson capì che, forse, quello a cui le spiegazioni erano dovute era chi, per quattro anni, non aveva vissuto nel mondo reale.

– House, tra me e Cuddy non c'è nulla. Non più. Non sono nemmeno sicuro che ci sia mai stato qualcosa, in effetti, da parte sua. Io, beh, sai che uscivamo... Io l'amavo. Ma credo che lei cercasse soltanto qualcuno a cui già voleva bene e su cui poter contare. E forse l'autosuggestione, in un momento difficile, l'ha portata a credere di ricambiarmi. La bambina era ancora in fasce, ricordi anche tu quanto si sia sentita inadatta, all'inizio. –

House taceva, le mani strette sul lenzuolo. Guardava Wilson con occhi affamati di ricordi, come uno che non potesse perdersi niente di un programma registrato, che a malincuore non aveva potuto vedere in diretta.

– E così le ho chiesto di sposarmi e lei ha accettato. Noi... noi due non ci siamo parlati per mesi. Ho pensato che avresti potuto reagire così, ma era la mia... la mia vita. – Wilson distolse lo sguardo. Si sentì un imbecille egoista.

– Wilson, per favore, va' avanti. –

– E poi, improvvisamente, un giorno che avevo cercato di ricucire per l'ennesima volta, e tu mi avevi sbraitato contro, mi hai telefonato dopo qualche ora. In una sera tutto è tornato normale. Come prima. Lei era felice che le cose tra noi avessero ricominciato a funzionare, ma aveva assunto un'aria inquieta già da qualche giorno. Non so cosa avesse capito, ma doveva avere intuito qualcosa. –

– Non c'era niente da intuire... – House alzò lo sguardo verso un punto indefinito. Ricordava? Wilson pensò alle famose illuminazioni che rendevano il suo amico il miglior diagnosta del Paese. Ma non aveva casi, in quel momento.

– Io sono stato un idiota, mi sono lasciato prendere dalla gioia di averti ritrovato e dalla felicità per il matrimonio che si avvicinava. E non ho voluto vedere. –

– Wilson. Non c'era niente, niente da vedere... –

– E invece c'era! E avrei dovuto capirlo, maledizione. Tu non hai visto la sua espressione attonita quando sei svenuto nella Sinagoga. Tu te ne stavi là, mentre Foreman ti faceva un EEG alla settimana, e Taub e Tredici ti passavano dentro e fuori il magnete della risonanza, e Cameron portava caffè a tutti mentre Chase rimandava interventi su interventi per farmi compagnia. Tu te ne stavi là... sdraiato, immobile... – Wilson si bloccò. Il viso arrossato, gli occhi lucidi, la voce che parve incrinarsi per un momento e poi divenne un sussurro. – Mentre lei, senza più una lacrima da versare, passava le giornate a incolpare me e se stessa della tua uscita di scena. –

– Wilson... – House sembrava aver realizzato qualcosa. O meglio, sembrava aver appena ricevuto una conferma.

– Cosa c'è? Pensi che non debba, che non dobbiamo sentirci in colpa per il tuo tentativo di lasciarci in pace per sempre? Oppure pensi che io abbia desiderato che riuscissi ad ammazzarti? E' questo che pensi? – Wilson si era alzato, le mani sui fianchi, e guardava a propria volta il parco attraverso la grande vetrata. In realtà non vedeva nulla, perché cercava solo di nascondere le lacrime che non era riuscito a trattenere oltre.

– Wilson. – Il tono di House era diverso adesso. Fu questo che fece voltare Wilson, mentre si asciugava una guancia con la manica della camicia, ostentando una disinvoltura inesistente.

– Wilson, mi faceva male la gamba. –

– Che... che cosa... La gamba ti faceva sempre male. –

– Non così. Ho sempre pensato che dipendesse anche da fattori psicologici. –

– E quindi stavi così male che hai pensato di farla finita. –

– No. Volevo solo riuscire a stare in piedi. – House fissò lo sguardo negli occhi castani dell'amico. – Mentre testimoniavo al tuo matrimonio, voglio dire. Non ho mai pensato di... di uccidermi. –

   
 
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