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Autore: Aisu Yuurei    12/04/2009    2 recensioni
Faceva freddo, tanto freddo, troppo freddo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Faceva freddo. Tanto freddo. Troppo freddo.

I miei soli indumenti erano: due sudice scarpe, uno straccio a righe che doveva essere un vestito, ma che a me dava più l’impressione di essere un sudario. Sapevo che in quei giorni io non ero. Non esistevo. Solo toccandomi capivo di essere vivo, anche se a volte, pur toccandomi, avevo come la sensazione che il mio dito attraversasse la materia. Non avevo neanche la certezza di consistere. Potevo essere un fantasma in un mondo evanescente, per quanto mi era concesso di sapere.

La notte si era inoltrata già da parecchio tempo, ma per noi non faceva nessuna differenza, in quella terra di nessuno dovevamo continuare a spalare la neve. Quel movimento, su e giù e su e giù, all’inizio sembrava massacrante, ma adesso, a distanza di sei mesi, è diventato rilassante. E’ come essere sotto ipnosi, a volte mi capita di veder luccicare la neve e allora mi dico che sono morto e che quello è il paradiso, sorrido. Se quell’espressione senza denti può chiamarsi sorriso, è ovvio.

Sono arrivato qui quasi un anno fa. Nella mia altra vita facevo il poeta, era un mestiere per cui mi sentivo fortunato. Non c’era bisogno di faticare fisicamente, però il lavoro mentale era al di fuori di ogni discussione. Ero un gran viaggiatore, mi piaceva osservare ogni cosa, fosse stato anche solo il movimento di una foglia, per me tutto il globo era materiale di lavoro. Ho scritto circa sessanta poesie, sono state tutte pubblicate ed hanno avuto un discreto successo, e adesso, pur avendo settant’anni, scopro cosa significa dover mettere sotto sforzo un corpo malridotto giorno e notte per sopravvivere, un po’ mi rammarico per aver condotto una vita abbastanza agiata. Sarà questa l’espiazione dei miei peccati?

Non mi sono mai ritenuto un uomo senza peccato, per nessuna ragione, ma so che nella mia vita ho sempre cercato di non far del male a nessuno, anche gli insetti per me erano importanti. Tutto il creato lo era, indistintamente.

Facevo parte di un organizzazione di ambientalisti, donavo al mese una quota prestabilita per la piantagione di nuovi alberi e la protezione degli animali, a volte partecipavo attivamente alle manifestazioni. Ritenevo il mondo una cosa oltremodo preziosa, e non mi andava che l’uomo la distruggesse così.

Nonostante tutto, non ho mai avuto un animale domestico, il motivo era abbastanza semplice. Non ero quasi mai a casa e quando c’ero ero assuefatto dal lavoro. Non potevo badare a quella bestiola come si deve e questo mi faceva andare in bestia. Così decisi prontamente di portare sempre con me del cibo e infatti ogni volta, nelle mie esplorazioni quotidiane, davo sempre da mangiare a quei poveri animali di strada che avevano un espressione di terrore mista a disperazione dipinta negli occhi. Alcuni scappavano, altri scorgevano sul mio volto fiducia, ed erano loro a farmi compagnia spesso e volentieri, la loro presenza riempiva il mio cuore di gioia.

Nella mia vita non ho mai avuto una donna, il mio vero amore è sempre stato la natura e, se avessi potuto, sarei convolato a nozze con lei. In tutte le mie sessanta poesie non parlo mai d’amore. Forse, a volte, qualcosa di sottinteso c’è, ma mai nessuna donna mi ha fatto battere il cuore. Ho sempre provato affetto per loro, così come per gli uomini. Si dice che i poeti siano coloro che s’innamorano meglio, allora bisogna ricredersi, perché io non lo sono mai stato.

Non c’è natura, qui. Anzi, mi correggo, non c’è nulla qui. Davanti a me vedo solo un grossa bocca che continua a sputare fumo, nero. Che io detesto, tranquillamente. Una volta, mentre spalavo la neve, sentii due uomini che borbottavano e ascoltai senza farmi notare.

<< E’ una catastrofe, prenderanno anche noi prima o poi...>> disse il primo, canuto e torvo come una pianta che aspetta solo di morire.

<< Già, manca poco e poi saremo materiale per saponi.>> rispose l’altro, alto e magro come un cencio.

<< Dobbiamo scappare.>> gli tremava violentemente la voce.

<< Tu sei matto, non c’è scampo e lo sai, vedi di accettare il tuo destino. Lo sapevi benissimo quando ti hanno preso.>>

<< Ma come diavolo fai ad essere così tranquillo??>> urlò di rimando.

<< Abbassa la voce, deficiente. A me non importa, non ho più una vita e di conseguenza non m’importa.>>

<< Ti sta bene morire così...?>> aveva iniziato a piangere sommessamente e si distingueva il groppo in gola nella sua voce. L’altro, invece, aveva una voce più che ferma, che terrorizzava.

<< No, ma guarda in faccia la realtà, solo uno stolto può desiderare una bella morte.>>

Con questo chiuse la discussione e con passo malfermo impugnò la pala ricominciando a spalare. L’altro non riusciva a reggersi in piedi e singhiozzando cadde in ginocchio tenendosi la testa tra le mani, non passò molto che arrivò un tenente altezzoso e gli diede tranquillamente un calcio tra le costole blaterando qualcosa in tedesco. Quel vecchio dapprima urlò, poi lentamente prese anch’esso la pala e riprese a spalare.

Io rimasi basito, cioè non più di tanto ad essere sincero, sapevo che non ci avevano trascinati lì per farci fare un bel pic-nic, però non avevo ben capito cosa intendeva con “materiale per saponi”, anche se una vaga idea l’avevo.

Beh, e allora? Cosa ci potevo fare?

Quando quella notte finì e ci diedero venti minuti per dormire, io scrissi dei versi, in realtà avevo molta paura, solo che esternarla non mi avrebbe di certo aiutato. Così scrivere mi servì a sciogliere il magone che provavo dentro, nessuno poteva impedirmelo, scrivere era la mia migliore arma contro la disperazione, anche se effettivamente mi ci gettava dentro senza pietà. Ma non erano i saggi che dicevano che il peggior modo per dimenticare i problemi è il non affrontarli?

Nascondevo il taccuino sotto quella cosa che chiamavano materasso e avendo ancora cinque minuti di tempo sostai di fronte ai vetri di quella finestra ingiallita e dimenticata. Le finestre sono come gli occhi, offrono una veduta del mondo più o meno nitida, permettendo alla mente di spaziare a piacimento. La sfiorai, quel freddo vetro mi fece rabbrividire, ma non per il freddo. Rabbrividii perché mi resi conto che la mia vita stava per finire, non riuscii a capire cosa sentivo ed era strano perché io lo sapevo sempre. Rimasi sconvolto nel comprendere in quell’istante come avessi preso alla leggera la permanenza in quel posto. Non ero mai stato rimproverato e nonostante vivessi in completa miseria non riuscivo a sentirmi triste, la mia maledetta anima da scrittore mi permetteva di trovare delle belle sfumature anche in quel lavoro monotono che svolgevo ogni giorno. E allora perché stavo piangendo? Perché queste dannate gocce avevano inumidito queste guancie avvizzite? Perché questi miei occhi azzurri si erano velati? E’ così che la consapevolezza della morte riduce un uomo? E’ così che lo stende? Allora anche coloro che sono appena nati, una volta resisi conto che stanno vivendo, urlano? Dovrei fare la stessa cosa anch’io che so di stare morendo? Se avessi urlato, forse mi sarei liberato. Forse. Ma non lo feci. Continuai a piangere sommessamente, fino all’arrivo dei soldati che ci ributtarono poco gentilmente a spalare quella maledetta neve, che di magico non aveva più niente.

Mi sentivo depresso, non badavo agli sguardi atroci e inumani dei tedeschi, di loro non m’importava un bel nulla. Piuttosto badavo alle persone intorno a me, il loro non era uno sguardo, sembravano piuttosto marionette senza vita che continuavano a spalare meccanicamente, qualche volta taluno piangeva, qualche altra taluno gridava, ma non si spingevano più di così. La nostra vita era finita e io, da stolto quale ero, l’avevo capito solo in quel momento.

Mentre avanzavo nel mio spazio vidi un cumulo di neve rialzato, mi sorpresi perché fino ad allora la neve era sempre stata piatta. Posai la pala e m’inginocchiai titubante sulla sporgenza, la scostai piano e vidi un cucciolo di cane tremolante. Rimasi di sasso, appena poggiai le mie mani piene di calli sul suo corpicino, lo trovai freddo, immobile, ghiacciato. Mi spaventai pure a sollevarlo temendo che si spezzasse. Era sdraiato di fianco e dal suo tremolio convulso capii che era ancora vivo, io rimasi fermo come un fesso e lo guardavo aspettando chissà cosa, in quell’istante lui girò il muso verso di me e mi fissò coi suoi occhi lucidi, la nuvoletta che condensava i suoi sospiri si assottigliava sempre più e lui continuava a fissarmi. Lo presi, lo accoccolai alla bell’e meglio tra le mie scheletriche braccia e singhiozzai sopra di lui. Il suo corpo sembrò sciogliersi, ma le mie mani sentivano che il suo cuore batteva sempre più lentamente, fino a fermarsi. Quella povera bestiolina era morta, era volata via proprio come avremmo fatto noi di lì a poco.

La seppellii. Con ancora gli occhi pieni di lacrime ricominciai a spalare, adagio. Quel tedesco mi stava fissando, probabilmente mi avrebbe picchiato, poco importava. Poteva pure uccidermi, poco importava.

In quella terra di nessuno la vita non aveva rilevanza, in quella terra di nessuno dove gli ebrei erano rigettati, stuprati della loro dignità.

Nel cuore di quelle persone che ormai non erano più, faceva freddo, tanto freddo, troppo freddo.

  
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