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Autore: Adeia Di Elferas    25/05/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Che c'entravo io, con tutte quelle persone?” chiese Giacomo abbattuto, cominciando a svestirsi: “Io... Non ho un cognome importante, non ho istruzione, non ho un titolo e non ho nemmeno una carica come quella di mio fratello.” gettò di lato il costosissimo giaccotto e proseguì, imperterrito: “Sono solo uno stalliere, ecco cosa sono. Quando abbiamo ballato assieme, stasera, tutti ci guardavano e non potevano evitare di chiedersi perché mai uno stalliere stesse ballando con una Contessa, con la figlia di un Duca, la sorella di un Duca, la Tigre di Forlì!”
 Caterina aveva pensato le stesse identiche cose, mentre danzavano, sentendo rafforzarsi in sé la convinzione che di quel passo la loro situazione si sarebbe fatta sempre più critica. Non poteva mostrarsi in pubblico con lui, non doveva più permettersi di lasciar intendere a osservatori indiscreti quello che legava lei e Giacomo.
 Tuttavia, non voleva che Giacomo si sentisse soffocare da quei problemi, così provò a dire: “Non essere così drastico nelle tue valutazioni. Con il matrimonio di Bianca e Tommaso siamo diventati cognati, dunque non c'era nulla di male, nel ballare insieme. E poi, se un Feo è andato bene per mia sorella, non vedo perché la gente dovrebbe...”
 Giacomo non la lasciò finire: “Tua sorella, con tutto il rispetto, è una Landriani, mentre tu sei una Sforza, è qui che sta la differenza.”
 Caterina smise per un momento di sciogliere la complicata acconciatura che la sua dama di compagnia le aveva messo a punto per il matrimonio, e si avvicinò a Giacomo, che stava litigando coi lacci della sottocamicia.
 “Hai ragione – fece la Contessa, cercando lo sguardo del ragazzo – sei solo uno stalliere, per ora. Non posso mostrarmi troppo spesso in pubblico con te, né dovrei lasciarmi trascinare in situazioni come quella di stasera.”
 Giacomo fece un sorrisetto amaro: “Vedi? Lo pensi anche tu: io non sono abbastanza, per la signora di Forlì.”
 Caterina lo prese per le spalle, come avrebbe fatto con uno dei suoi figli e, a voce appena più bassa, chiese: “Vorresti una carica più importante?”
 Il giovane rimase in silenzio per un po', con una strana smorfia in viso, poi, trascinando un po' le parole, rispose: “Non voglio forzarti a trovarmi un ruolo più importante di quello che ho adesso... Solo... Sarebbe più facile, per noi, stare vicini anche di giorno, se solo io avessi una carica sufficiente a giustificare la nostra vicinanza.”
 Caterina soppesò attentamente quelle parole, trovandosi in parte d'accordo con quello che Giacomo le aveva detto, e alla fine concesse: “Vedremo cosa si può fare.”

 L'estate a Forlì trascorse nel segno del caldo torrido e dell'invasione dei grilli.
 I campi soffrirono parecchio la siccità e anche le casse dello Stato risentirono molto delle difficoltà della popolazione. L'idea di Caterina di ridurre all'osso le tasse aveva dato i suoi frutti, in un primo tempo, ma dopo un po' aveva cominciato a mettere in difficoltà i conti cittadini.
 A peggiorare ulteriormente la situazione, c'era stata la fuga in massa degli ebrei, ancora tra i pochi veramente facoltosi a Forlì, che avevano deciso di lasciare la città un po' per penuria di creditori affidabili e un po' per la carenza di cibo e l'annunciato difficile inverno.
 Gian Piero Landriani era diventato ufficialmente il nuovo castellano della rocca di Imola e, poco dopo, il figlio Piero lo era diventato di quella di Forlimpopoli.
 Lucrezia aveva in un primo momento desistito, all'idea di andare a viver a Imola assieme al marito, ma quando Caterina l'aveva rassicurata dicendole che l'avrebbe visitata spesso e che comunque nessuno vietava a lei di andarla a trovare a Forlì, la donna aveva ceduto e si era trasferita.
 Bianca e Tommaso avevano cominciato ad affiatarsi, anche se in un modo tutto loro. Non ci voleva un indovino per capire che ciò che li univa più di ogni altra cosa era lo sparlare di Giacomo e Caterina.
 Non era infrequente, infatti, scoprirli intenti a occhieggiare verso lo stalliere e la Contessa, mentre si scambiavano fittamente parole di biasimo o di rammarico.
 Caterina ne era abbastanza infastidita, ma finché quell'occupazione non ledeva nessuno – dato che né il castellano né Bianca sembravano intenzionati a far uscire dalla rocca tutte le loro chiacchiere – tanto valeva lasciare loro almeno quell'interesse comune.
 Comunque, per evitare qualsiasi rischio, Caterina aveva fatto in modo di tenersi il più lontano possibile l'ambasciatore di Milano – e con lui tutti gli altri ambasciatori – impedendo loro di entrare nella rocca e ricevendoli solo ed esclusivamente nel palazzo di rappresentanza.
 I lavori per la nuova ala della rocca, quella esterna alle mura originarie, erano finiti. Si trattava in realtà di una piccola nicchia, sufficiente appena per poche stanze, ma fin da subito tutti cominciarono a soprannominarla Paradiso. Caterina ormai passava in quei nuovi alloggi gran parte del suo tempo e con quell'espediente, i suoi incontri con Giacomo si erano se possibile ancora più frequenti e meno accorti.
 Di pari passo anche le ristrutturazioni della cittadella e delle torri andavano avanti senza intoppi e con una spesa contenuta. Caterina aveva preferito rinunciare a vestiti nuovi e feste, pur di mettere in sicurezza l'intera rocca.
 Infine, fuori dalla cinta di mura, la Contessa aveva finalmente allestito un piccolo orticello, costellato anche di piante officinali e piccoli alberi da frutto.
 Tutto sommato, per quanto non fosse facile tenere tutti alla giusta distanza, la Contessa sentiva di avere ancora tutto sotto il suo controllo.

 Il Natale venne celebrato con sobrietà, in rispetto al momento economicamente difficile e al clima immite che stava ancora una volta mettendo alla prova la Romagna.
 Lucrezia Landriani aveva deciso di trascorrere quel primo Natale come moglie del castellano di Imola accanto al marito, facendo pervenire alle figlie e ai nipoti i suoi auguri e qualche regalo.
 Così alla rocca di Ravaldino i festeggiamenti furono ancora più sbrigativi, per quanto allegri.
 La sera di Natale si tenne una cena apparecchiata con gran cura, a base di cacciagione procurata dalla stessa Caterina, uscita assieme ai cacciatori nei giorni addietro. Per quanto la neve avesse reso difficile l'addentrarsi nei boschi e il trovare qualche preda degna di questo nome, la Contessa non aveva deluso i cuochi, né tanto meno gli invitati.
 “Una cena splendida, mia signora, splendida!” si congratulava l'Oliva, quasi a ogni boccone, reso ripetitivo dal troppo vino.
 “Veramente eccezionale.” non mancava di fare eco il capofamiglia degli Orcioli che, assieme a quello dei Marcobelli, sedeva accanto alla Contessa.
 “Non lo vedete che di tempo per noi non ne ha più?” chiese Ottaviano, osservando la madre con occhio torvo, mentre i suoi fratelli Cesare e Bianca lo ascoltavano in silenzio: “Se non ha da fare con lo Stato, se ne sta con quello stalliere...”
 “Ti stava così simpatico...” provò a dire Bianca, che dall'alto dei suoi otto anni si sentiva più matura del suo fratello decenne, perchè sua zia le aveva detto che le femmine erano sempre più avanti dei maschi.
 “Non lo conoscevo bene, prima.” rispose Ottaviano, un po' offeso dal tono che la sorella usava sempre più spesso quando parlava con lui.
 “Non vedete che ormai nostra madre è sempre con lui? Anche adesso...” fece notare Ottaviano, indicando con discrezione la tavolata principale: “Parla con Orcioli, ma continua a guardare verso quel maledetto stalliere...”
 Bianca sbuffò, tornando a concentrarsi sul taglio di carne che le stava davanti, poco convinta dalle elucubrazioni del fratello, mentre Cesare cominciava a credere che Ottaviano avesse più occhio di loro per quelle cose.
 “Di cosa state parlando?” chiese Livio, con la parlata ancora un po' incerta dei cinque anni.
 “Sei troppo piccolo.” lo zittì Ottaviano: “Torna dalle balie con Sforzino e Galeazzo.”
 Livio stringendo i piccoli pugni contro i fianchi, fece una boccaccia al prepotente fratello maggiore e corse subito a farsi coccolare dalle balie.
 “Dobbiamo fare qualcosa...” disse piano Ottaviano, spostando svogliatamente con la punta del coltello la sua porzione di selvaggina, ancora intonsa nel piatto.

 “Da quando gli ebrei se ne sono andati, la situazione è precipitata...” stava dicendo il Magistrato, che presiedeva la seduta del Consiglio: “Non ci sono più soldi. I poveri sono sempre più poveri e anche la classe benestante comincia a non saper più come trovare il danaro...!”
 Caterina ascoltava in silenzio, battendo di quando in quando due dita sul tavolone di legno che occupava la sala del consiglio del palazzo di rappresentanza.
 Quelle stesse persone che le avevano impedito con mille scuse di creare un Monte di Pietà ora si stavano lamentando con lei del fatto che i poveri erano poveri. Si trattava di un paradosso così eclatante che a Caterina quasi scappava da ridere.
 “Che fare, dunque, se non istituire un Monte dei Pegni?” chiese allora il Magistrato, con una gravità nella voce che tradiva tutta la teatralità di quella farsa.
 “Mi spiace...” fece allora Caterina, assumendo un'espressione candida e sprovveduta: “Ma ora i soldi per farlo non ci sono. Anche se non si tratterebbe di un vero e proprio Monte di Pietà, ma solo di un Monte dei Pegni, chi metterà il capitale? Gli ebrei, lo avete ricordato voi stesso, se ne sono andati. Aumentare le tasse? Non se ne parla. Far pagare i proprietari terrieri? Assolutamente no. Far contribuire i cittadini facoltosi? Che assurdità. Lasciare che la sbrighino le famiglie più nobili e antiche di Forlì? Mai.”
 Il modo in cui Caterina aveva snocciolato tutte le alternative fece sbiancare molti volti. La Contessa, dopo circa due anni, aveva riproposto loro, con una precisione ineffabile le stesse opposizioni che il Consiglio aveva mosso alla proposta di istituire un Monte di Pietà.
 Tutti gli uomini presenti cominciarono a guardarsi l'un l'altro, in evidente imbarazzo. Qualcuno dei nuovi, che non poteva ricordare l'aneddoto, provò a controbattere debolmente, frenato dal pessimismo evidente del resto del Consiglio.
 Caterina attese che tutti quanti si ritenessero sconfitti, e, quando anche l'ultimo dei Consiglieri si rabbuiò in volto, colto da visioni apocalittiche del futuro della città, la Contessa disse, con semplicità: “Ho già avuto cura di interpellare otto esperti.” fece un segno alla guardia che stava sulla porta e otto uomini entrarono nel salone: “Vi spiegheranno loro come creare un Monte dei Pegni senza mandare in bancarotta anche i pochi rimasti a galla. Ora datevi da fare.” concluse la donna, alzandosi e lasciando il palazzo, sicura che gli otto saggi che aveva scovato fossero quello che serviva al Consiglio per ritrovare il senno.

 Risolta la questione del Monte dei Pegni a Forlì – presa definitivamente in carico da uno degli otto scelti da Caterina – si accese, sempre nel febbraio del 1490, un nuovo problema a Imola.
 Il partito dei guelfi e quello dei ghibellini, mossi probabilmente dalle agitazioni tra Roma e Napoli, di cui si parlava continuamente, si erano dati battaglia per giorni, con accoltellamenti in piazza e inseguimenti nel centro della città.
 La Contessa era stata sul punto di intervenire di persona, senonché il Governatore di Imola era riuscito a sedare le rivolte imponendo pesantissime pene pecuniarie a tutti quelli che vi avevano preso parte.
 Quando arrivò il messaggio ufficiale da parte del Governatore con cui si annunciava la fine delle ostilità, Caterina si sentì in dovere di brindare alla ritrovata stabilità.
 Prima di ritirarsi al Paradiso per la notte, la Contessa ricevette altre tre lettere. Trovava incredibile come per settimane nessuno si ricordasse di lei e poi, tutto d'un colpo, arrivassero a Forlì ben tre o più messaggi.
 Il primo che aprì era del Segretario del papa. Le annunciavano formalmente che in maggio sarebbe arrivato un messo papale per consegnare alla comunità religiosa di Imola i fondi e permessi per costruire un nuovo convento su alcuni terreni ceduti in via permanente alla suddetta struttura. Tutta quella benevolenza da parte del papa era da imputarsi, secondo lo scrivente, alla chiara presenza della Madonna in quelle terre.
 Caterina riteneva più probabile che una simile dimostrazione di simpatia fosse da imputare più che altro a un maldestro tentativo di Innocenzo VIII di tenersi buoni gli Sforza.
 Da quando il figlio di Lorenzo il Magnifico aveva sposato una Orsini, Firenze aveva fomentato la famiglia della sposa e, come spesso avevano dovuto fare i suoi predecessori, il Santo Padre cercava qualcuno che lo proteggesse da Firenze. Che il Magnifico volesse mettere le mani sulla Romagna era una storia vecchia, o almeno, era quello che i più sospettavano, dunque Innocenzo VIII voleva solo dare a Caterina un motivo per essergli grata. Anche se un convento, secondo la Contessa, era un po' poco per comprarsi la sua fedeltà.
 La seconda missiva, invece, era ancora di Isabella d'Aragona, ormai pressoché disperata, che implorava senza più ritegno Caterina di intercedere in qualche modo. Si diceva perdutamente innamorata di Gian Galeazzo e ben decisa a non permettere a suo padre di chiedere l'annullamento del matrimonio, sia per non dover rinunciare alla carica di Duchessa, sia per evitare di perdere la faccia davanti alla cugina Beatrice, che presto sarebbe andata in sposa a Ludovico il Moro.
 'La peggio maritata delle donne' chiudeva la sua lettera scusandosi per l'insistenza, ma sottolineando una volta di più quanto fosse in difficoltà.
 Caterina non sapeva come reagire a una simile reiterata richiesta di aiuto. Aveva scritto a Gian Galeazzo, più di una volta, ma senza mai ottenere né una risposta né, evidentemente, una reazione di qualche tipo. Che altro poteva fare?
 Infine, la terza lettera arrivava direttamente da suo zio Ludovico. Si trattava, in realtà, di un messaggio davvero strano.
 A prima vista, poteva sembrare parte di una corrispondenza tra vecchi amici, mentre Caterina ne intuiva la pericolosità.
 Dopo le prime lungaggini sul clima e sul tempo che passava, Ludovico aveva scritto: 'Mi auguro che in Forlì e in Imola tutto sia in ordine. Una vita disordinata, mia cara nipote, male si addice a una donna di potere. La moglie di Cesare, dicevano i latini, deve essere al di sopra di ogni sospetto. Ancor di più, dico io, se Cesare è una donna, comprendetemi bene. Vostro fratello Gian Galeazzo mi dà già molto a che pensare, qui a Milano, giacché sembra impossibilitato a fornire un erede al Ducato, dunque mi auguro di non dovermi preoccupare per il motivo opposto lì a Forlì. State attenta ché una vita di disordini può portare molti grattacapi e quando una cosa è fatta, è impossibile tornare indietro. E certi guai, se si combinano con qualcuno che vale hanno un peso, ma se si combinano con chi di valore non ne ha ne hanno tutt'altro.'
 In chiusura, poi, Ludovico ribadiva una volta di più il suo augurio di ottenere una ricompensa per l'aiuto fornito a Caterina in occasione della rivolta degli Orsi, anche se dalle parole usate si capiva benissimo che quello non era il motivo che l'aveva portato a prendere carta a inchiostro.
 Caterina rilesse attentamente la parte centrale della lettera, ben capendo quello che suo zio intendeva dirle. La stava apertamente accusando di avere un amante e da come scriveva, poteva anche essere che ne sapesse l'identità.
 Chi poteva aver fatto la spia? L'ambasciatore? Poco probabile... Quell'uomo era ottuso e non avrebbe capito nulla neppure se fosse stato al Paradiso a vedere coi suoi occhi quel che accadeva in quelle stanze.
 Chi altri?
 Caterina si mise una mano sulle labbra. Le pareva impossibile, ma...
 Scosse con forza il capo e portò con sé l'ultima lettera, con il preciso intento di buttarla nel fuoco appena fosse arrivata al Paradiso.
 Non riuscendo a resistere alla sua natura che, se sfidata, voleva strafare, quella notte Caterina non lasciò a Giacomo un attimo di tregua, convinta a quel modo di farla in barba a suo zio e a tutte le sue raccomandazioni di stare attenta. Se un guaio, come lo definiva suo zio Ludovico, doveva arrivare, almeno quella volta sarebbe stato per amore.

   
 
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