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Autore: Adeia Di Elferas    27/05/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “A chi stai scrivendo?” chiese Giacomo, alzandosi dal letto e avvolgendosi in una delle coperte, per non congelare.
 Il camino si stava spegnendo, fuori aveva probabilmente ripreso a nevicare e l'alba era vicina. Praticamente era l'ora più fredda in assoluto e il Paradiso, essendo staccato dal resto della rocca, non godeva nemmeno del calore di locali attigui.
 Caterina, che indossava solo la vestaglia, ma non sembrava avere freddo, alzò una mano per chiedere un minuto, mentre la penna continuava a grattare sulla carta.
 Solo quando ebbe concluso, si voltò verso Giacomo che stava in piedi dietro di lei e gli spiegò: “A mio fratello, Gian Galeazzo.”
 “Quello che ha problemi con la moglie?” chiese il ragazzo, afferrando lo sgabello e sedendosi accanto alla Contessa.
 “Sì, diciamo così.” concesse Caterina.
 “Ancora non si decide a...?” si informò Giacomo, cercando di sbirciare la lettera scritta da Caterina, ma senza riuscire e leggere più di qualche parola.
 Anche se la Contessa aveva fatto in modo che il precettore dei suoi figli desse qualche lezione anche a Giacomo, il ragazzo pareva proprio negato tanto per la lettura, quanto per la scrittura.
 “No, non si decide.” confermò Caterina, con un sospiro, prendendo la ceralacca per chiudere il suo messaggio.
 “E che gli hai scritto stavolta, per convincerlo?” domandò lo stalliere, con un sorrisetto un po' insinuante.
 “Gli ho detto che il matrimonio va visto come una battuta di caccia e che la partita non è chiusa fino a che non si ottiene una preda.” rispose Caterina: “Gli ho assicurato che sarà esattamente come uscire per braccare qualche animale particolarmente raro. Una volta che sentirà l'odore del sangue, non saprà più fermarsi.”
 Giacomo incrociò le braccia sul petto, facendo arricciare la coperta che lo avvolgeva: “È così che vedi l'amore?”
 Caterina lasciò colare la ceralacca e mentre apponeva il sigillo, disse: “Mio fratello ha avuto quasi la stessa scuola che ho avuto io. Nostro padre ci ha istruiti grazie alla caccia, ci portava spesso fuori con lui. Gian Galeazzo era troppo piccolo, forse, per ricordarsi bene, ma so che ha preso anche lui questa passione da nostro padre.” diede un'occhiata a Giacomo, che faceva del suo meglio per seguire il ragionamento: “Mio padre paragonava molte cose alla caccia, quindi ho pensato che usando lo stesso metodo, riuscirò a farmi capire meglio da mio fratello.”
 Giacomo fece un'espressione di circostanza, lasciando intendere che aveva perfettamente compreso, anche se in realtà era rimasto molto perplesso e poco soddisfatto dalla spiegazione.
 In ogni caso, pensava fosse assurdo che il fratello di Caterina fosse sposato con la benedizione del mondo e che ancora non avesse capito che grazia aveva ricevuto. Era un Duca eppure non sapeva nulla... Se Giacomo avesse potuto essere al suo posto, se avesse potuto vivere appieno il suo amore... Era proprio vero, il detto popolare che recitava: a chi il pane, a chi i denti...
 “Sposami.” disse piano Giacomo, guardando in terra.
 Caterina si voltò verso di lui, facendo stridere le gambe della sedia contro il pavimento grezzo.
 “Voglio essere tuo marito, senza dover nascondere più nulla.” continuò Giacomo, le gote appena più rosse del solito e le pupille sempre puntate al terreno.
 Caterina scosse subito il capo, per quanto quelle parole le avessero fatto saltare il cuore nel petto: “Se ti sposassi e non nascondessi nulla, la mia signoria sarebbe in pericolo. Potrei perdere le mie città e la mia reggenza.”
 “Non ti farei mai un torto simile.” si affrettò a precisare Giacomo: “Io non vorrei nulla per me, tutto resterebbe nelle tue mani.”
 “Non agli occhi del mondo – lo contraddisse Caterina, trovandolo bello come non mai, mentre la luce del primo sole filtrava dalla finestra, illuminandolo di concerto con le candele sulla scrivani – e  poi potresti trovare comodo e bello avere tanto potere...”
 Le labbra di Giacomo si incrinarono: “Di me puoi fidarti. Non ti farei mai una cosa del genere.”
 Caterina allungò una mano, passandola con delicatezza sulla guancia del ragazzo, resa appena ispida dalla barba che stava ricrescendo: “Io non posso fidarmi di nessuno.” e prima che Giacomo potesse dire qualcosa, la Contessa aggiunse: “Nemmeno di te.”
 Indisposto da quell'insinuazione, Giacomo si alzò, stringendosi nella coperta e mettendosi a misurare la stanza a piccoli passi nervosi: “Allora sposiamoci di nascosto.” propose alla fine: “Se nessuno saprà, nessuno potrà intromettersi e aspettarsi che io prenda il tuo posto.”
 Fu la volta di Caterina di non capire i ragionamenti del ragazzo: “Ma cosa cambierebbe? Già adesso viviamo come se fossimo sposati di nascosto...”
 “Cambierebbe che sarei tuo marito agli occhi di Dio.” fece Giacomo, con ovvietà.
 La Contessa si abbandonò contro lo schienale della sedia: “Tu credi in Dio?”
 Giacomo, finalmente, cercò lo sguardo della sua donna: “Tu no?”
 Caterina fa un breve sorriso: “Non lo so.”
 Il ragazzo sospirò, rimettendosi seduto sul letto. Caterina capiva solo in parte la sua richiesta. Anche lei, ovviamente, avrebbe voluto poterlo sposare in pubblico, davanti agli occhi del mondo e poi vivere senza più nascondersi. Non capiva, quindi, che attrattive ci fossero in matrimonio segreto.
 “Ci penseremo, va bene?” chiuse il discorso la donna, tirandosi in piedi: “Ormai sta sorgendo il sole... Rientro alla rocca, voglio cominciare presto, stamattina. Voglio controllare i rivellini per vedere se ce n'è ancora qualcuno danneggiato dalla neve.”
 Giacomo, ancora molto abbattuto, annuì e non rimase avviluppato nella coperta, mentre la sua Caterina si preparava per una nuova giornata da Contessa.

 “Ah, che roba...” si stava lamentando Lorenzo Medici: “Con questa nostro cugino Lorenzo, che adesso si fa chiamare 'il Magnifico', pensa di aver sistemato sua figlia e tutto quanto!”
 Giovanni, il fratello minore, lo guardò con la coda dell'occhio, muovendosi impercettibilmente, ma abbastanza per far sbottare Sandro Botticelli: “Per favore! State fermo! Sto definendo dei dettagli importanti!”
 “Il papa ha concesso a quel buono a nulla di Franceschetto Cybo la contea di Anguillara... Ci scommetto la testa che a suggerire questa mossa è stato nostro cugino.” continuava il fratello maggiore, dando piccoli colpetti alla lettera: “Nostro cugino non ha fatto altro nella vita, se non arricchirsi coi soldi degli altri!”
 Giovanni non disse nulla, ben conoscendo le sfuriate del fratello Lorenzo, omonimo di quel cugino che aveva arrecato loro tanto danno da lasciarli senza nemmeno un centesimo dell'eredità paterna.
 Quando il Magnifico e il fratello Giuliano avevano preso Lorenzo e Giovanni sotto la loro protezione diventandone i tutori, tutto sembrava essersi risolto per il meglio. I due ragazzini avevano avuto il privilegio di conoscere artisti e letterati e di istruirsi presso una delle corti più vive della penisola, accrescendo la loro cultura e il loro senso per il bello.
 Dalla congiura dei Pazzi che era costata la vita al povero Giuliano, Lorenzo il Magnifico aveva cominciato a trattare con sufficienza i due cugini, permettendo loro di vivere sempre a corte, ma privandoli progressivamente di tutti i privilegi che invece aveva accordato loro con gran liberalismo fino a poco tempo prima. Appena Lorenzo, che aveva quattro anni in più di Giovanni, era diventato maggiorenne, si era scoperto che della cospicua eredità lasciata dal padre Pierfrancesco, non era rimasto nulla.
 Il Magnifico aveva speso fino all'ultimo soldo tutto il patrimonio e solo un contenzioso legale durato anni aveva permesso ai due fratelli di recuperare almeno un paio di proprietà al Mugello e una villa a Cafaggiolo.
 Dunque Giovanni comprendeva bene e in parte condivideva il profondo odio nutrito da suo fratello nei confronti di colui che avrebbe dovuto far loro da guida e da tutore, ma non sopportava più di sentirlo dare su tutte le furie ogni volta che arrivava una missiva che aveva come soggetto Firenze o il suo signore.
 “Lasciamo perdere, fratello – tentò Giovanni, mentre Lorenzo prendeva fiato tra un'invettiva e l'altra – nostro cugino soffre ogni giorno di più per la gotta. Sta già pagando per i suoi sbagli e continuerà a farlo fino alla sua morte. Non rovinarti la giornata per un motivo tanto stupido.”
 Lorenzo, dal viso schiacciato e dagli occhi piccoli e scuri, fissò un attimo le iridi chiare del fratello e sbuffò: “Come dici tu, Giovanni. Sei più lungimirante di me, forse, te lo concedo. Solo che non lo sopporto!”
 Sandro Botticelli attese che il suo modello tornasse nella posizione di partenza e che stesse zitto una buona volta e poi diede una nuova pennellata di luce sulle labbra carnose che si erano appena incurvate in un placido sorriso.

 “E a Ferrara c'è brutto tempo come qua?” domandò Ludovico Sforza, sfregandosi le grosse mani per scaldarle un po'.
 Benché fosse già marzo inoltrato, Milano restava coperta da una cappa di nebbia ghiacciata, eccezion fatta per i momenti in cui dal cielo fioccava timidamente un po' di neve, che poi si accumulava in terra, rendendo le vie della città una lastra scivolosa e quasi impraticabile sia a cavallo sia a piedi.
 “Pioggia, pioggia e ancora pioggia.” si lamentò Francesco da Casate, l'ambasciatore milanese appena rientrato da Ferrara per parlamentare con il suo signore: “Se questa è una primavera, io sono un faraone d'Egitto!”
 Ludovico ridacchiò, mentre il cancelliere Bartolomeo Calco, seduto al suo fianco, restò impassibile, quasi infastidito da quelle facezie. Il motivo che aveva portato l'ambasciatore a tornare a Milano di persona era serio, mentre il Moro sembrava prendere tutto come un grande scherzo.
 “Oh, sapete che ho appena fatto venire a corte un norcino che sa fare delle salsicce veramente...” cominciò a dire il reggente del Duca, ma Calco tossicchiò per interrompere sul nascere l'ennesima dissertazione su quanto il nuovo norcino fosse bravo nel confezionare insaccati e succulente salsicce.
 “Bene, bene...” mangiò la foglia il Moro, ricomponendosi: “Allora, ditemi qual è il messaggio urgente che Ercole Este ha voluto che voi mi riferiste in persona.”
 “In realtà si tratta di due cose.” cominciò Francesco, mentre il sorriso gli si spegneva sulle labbra: “Per prima cosa, Ercole Este non è contento del fatto che il matrimonio tra sua figlia Beatrice e voi sia stato posticipato al prossimo anno. Non so perché se ne stia lamentando solo ora, dato che la decisione era presa da tempo, ma sembra impaziente.”
 Ludovico annuì, con fare annoiato, mentre si guardava le unghie di una mano.
 “La seconda questione è più... Delicata.” proseguì l'ambasciatore, lanciando un'occhiata dubbiosa a Calco, che lo fissava torvo.
 “Non badate a lui...” buttò lì Ludovico, indicando il cancelliere: “Da anni è la mia ombra e non mi ha tradito nemmeno una volta. Parlate liberamente.”
 “Ecco, mio signore, mi è di recente capitata tra le mani una lettera di Giacomo Trotti, l'ambasciatore di Ferrara che risiede qui a Milano.” fece Francesco.
 “So bene chi è Trotti.” disse Ludovico, infastidito da quell'inutile giro di parole.
 “Ebbene, ho copiato qui l'intero testo – disse l'ambasciatore, porgendo un foglio a Ludovico – era indirizzata a Ercole, ma temo che anche la vostra futura suocera l'abbia letta...”
 Il Moro prese con un gesto repentino il pezzo di pergamena e cominciò a leggere a mezza bocca: “Si dice che il male del signor Ludovico è causato dal troppo...” la voce gli si spense in gola.
 Il Moro strabuzzò gli occhi e, finendo di leggere nella mente, si alzò in piedi di scatto, e, battendo un piede in terra esclamò: “Come osa scrivere certe cose?! Come osa accusarmi di aver perso la salute perché troppo... Troppo impegnato con Cecilia?! Che ne sa lui di quello che faccio con la donna che amo?!”
 “State attento, mio signore. Siete in procinto di sposare un'altra fanciulla.” lo redarguì Calco, a voce bassa, riportandolo subito a un piano più ragionato: “Qualcuno potrebbe sentire.”
 Ludovico si rimise a sedere e, rileggendo ancora una volta come Trotti avesse descritto Cecilia alla stregua di una cagnolina che lo seguiva ovunque e sempre, si sentì del tutto incapace di reagire.
 “Temo sia per questo che gli Este vogliono accelerare le nozze. Vedono in voi il possibile futuro Duca, checché Gian Galeazzo sia adulto e sposato e temono che la presenza della Gallerani, che voi avevate giurato se ne sarebbe andata almeno un anno prima del matrimonio, possa in qualche modo indurvi a tergiversare ancora. Vista la situazione che si sta creando tra il giovane Duca e Isabella d'Aragona – soppesò Francesco da Casate – gli Este vogliono che Beatrice dia a voi un erede prima che Isabella lo dia a Gian Galeazzo. A quel punto, voi sareste una scelta più stabile per il Ducato e i nobili di Milano vi sosterrebbero più volentieri, a discapito di vostro nipote.”
 Ludovico non aveva seguito nemmeno mezza parola, immerso nel pensiero atroce di doversi separare da Cecilia, dalla sua Cecilia...!
 “E allora che proponete?” chiese Calco, pacato, benché avesse già maturato un'idea in merito.
 “Fate sposare la Gallerani con un uomo di vostra fiducia e cacciatela da palazzo. Se vorrete, la potrete vedere ugualmente, ma almeno non vivrà più a corte e darete al tutto una parvenza di rispettabilità.” disse Francesco, che aveva passato quasi tutto il viaggio da Ferrara a Milano a rimuginarci sopra.
 Calco annuì: “Quello che avevo pensato anche io.”
 Ludovico li guardò sconvolto: “E con chi?”
 “Questo sta a voi deciderlo.” fece Calco con un'alzatina di spalle: “Ma vedete di fare in fretta, prima che sia troppo tardi.”

 Caterina scosse il capo, quasi divertita: “Non ci credo... Un pugnale colpisce un'immagine della Madonna su un muro e tutti la vedono sanguinare. E dicono anche che si tratti di un miracolo.”
 Bianca, che stava ricamando seduta accanto a lei, smise un attimo il suo lavoro e le chiese: “Che c'è di male? Un secondo miracolo in così poco tempo non può che giovare alle tue città. La gente comincia a pensare che la Madonna è tornata in queste terre perché ci sei tu.”
 Caterina fece un mezzo fischio che per poco non svegliò Sforzino, che le dormiva tra le braccia: “Bastasse così poco a essere certi che la Madonna è davvero al mio fianco...”
 “Tu non credi in niente, vero?” la pungolò Bianca, con un mezzo ghigno, tornando al suo ricamo: “La Leonessa della Romagna, che non ha bisogno di niente e di nessuno...”
 Caterina aggrottò la fronte, perdendo improvvisamente tutta l'ilarità che l'aveva animata nel parlare di quella che già chiamavano 'Madonna della Ferita'. Da qualche giorno Bianca le lanciava frecciatine di ogni tipo, a volte spiazzandola completamente. Non l'aveva mai considerata capace di tanta sfacciataggine, ma avrebbe dovuto immaginare che fosse così. In fondo quella sua giovane sorella aveva dato prova di avere un carattere molto forte, durante la congiura degli Orsi e nel corso della prigionia.
 “Tutti hanno bisogno di qualcuno.” buttò lì Caterina, accarezzando lentamente la fronte di Sforzino, che andava avanti a sognare beato.
 “Anche a costo di mettere tutto quanto in pericolo, vero?” fece Bianca, mentre Galeazzo Maria si avvicinava un po' al fuoco, per stare più al caldo mentre giocava con il suo piccolo cavaliere di legno.
 “Scusa...?” soffiò Caterina, che si era effettivamente distratta, intenta a tenere d'occhio il figlio poco più che quattrenne che si stava appropinquando al camino.
 “L'amore fa fare follie, vero?” domandò Bianca, mettendosi a rimirare gli ultimi punti dati al pezzo di stoffa che teneva in grembo.
 “Che intendi?” chiese Caterina, innervosendosi.
 “Che tu ti stai volontariamente gettando in uno scandalo per amore. Che c'è di più folle, per una donna nella tua posizione, una donna che è quasi in odore di santità?” il tono di Bianca era quasi derisorio, carico di uno strano rancore che si poteva spiegare in un solo modo.
 “Che c'è di più folle, dici?” rilanciò Caterina, decisa a mettere a tacere la sorella: “Non so, forse sposare un uomo pur sapendo che ama un'altra donna.”
 Bianca si paralizzò. Con lentezza abbandonò il ricamo sul tavolino e, pallida in viso, si alzò dalla poltroncina imbottita: “Sono stanca, meglio che vada a riposare.”
 Caterina mosse appena il capo, appena a disagio per il colpo basso inflitto alla sorella minore, ma felice di essere riuscita a troncare il discorso prima che nella stanza entrasse qualcun altro.
 Mentre osservava la sorella uscire, Caterina si ritrovò a pensare ancora una volta alla lettera che le aveva spedito suo zio Ludovico.
 Sforzino corrugò la fronte, forse per via di un brutto sogno, così Caterina gli diede un rapido bacio sulla guanciotta paffuta.
 Doveva essere stato qualcuno di molto vicino a lei a riferire quelle cose al Moro, ma si rifiutava di pensare che potesse essere sua sorella. Anche se...
 
 “Dov'eri?” chiese Ludovico, con scarsa curiosità.
 Era troppo preso dai suoi pensieri, per ascoltare davvero la risposta di Cecilia che, con un sorriso, aveva detto: “Ero al circolo, assieme al maestro Leonardo. Oggi ci ha stupiti tutti, mettendosi a suonare una meravigliosa melodia di sua invenzione...”
 Lo sguardo accigliato del Moro fuorviò Cecilia che, credendolo adombrato per via della sua risposta, sorrise: “Non sarai geloso di Leonardo... Lo sai che ha dei gusti particolari... Io non sono il suo genere...!”
 Ludovico, però, non accennava a distendere la fronte.
 “Ma si può saper che c'è che non va?” chiese allora la Gallerani, mentre il reggente del Duca continuava a camminare nervosamente avanti e indietro.
 Qualcuno bussò alla porta e quando Ludovico diede il permesso di entrare, un uomo di una certa età, ben curato e ancora in forma, fece il suo ingresso.
 Cecilia lo guardò un momento, cercando di ricordarsi chi fosse, ma non ci fu bisogno di sforzarsi troppo, perché il Moro le diede subito la soluzione: “Lui è il Capitano Ludovico Carminati, parente del mio carissimo amico Bergamino, morto, come ben sai, a Faenza qualche tempo fa.”
 Cecilia fece una riverenza a Carminati, che le sorrise con un velo di tristezza negli occhi luccicanti.
 “Vi sposerete.” concluse Ludovico.
 Cecilia fece per protestare, ma il Moro la fermò: “Sarà solo un matrimonio di facciata e non avrà luogo subito. Per il momento sarete solo ufficialmente fidanzati. Tu andrai a vivere lontana dalla corte e lui ti farà visita di quando in quando in modo tale da convincere tutti quanti.”
 La giovane guardò di nuovo Carminati. Non poteva negare che fosse un bell'uomo e che avesse un tratto felice, di certo era anche galante e gentile, ma da lì a sposarlo, anche solo per finta...
 “Ormai è deciso. Finirai di posare per il ritratto e poi ti trasferirai.” concluse Ludovico: “Carminati sa bene cosa comporterà averti per moglie ed è d'accordo, dunque non vedo che altro ci sia da discutere.”
 Cecilia sapeva che sarebbe arrivato un momento come quello, prima o poi, solo che non era pronta a fronteggiarlo.
 Sentì le lacrime farsi strada e lottare per riversarsi sulle guance, ma riuscì a fare un profondo inchino a entrambi gli uomini presenti, prima di uscire frettolosamente dalla stanza e scoppiare in un pianto dirotto, mentre correva come una furia verso i suoi alloggi.

   
 
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