Fear
The Neighbors
2.
Clarke finalmente scarica l’ultimo
scatolone dalla macchina dentro la camera del suo nuovo appartamento condiviso.
Con l’avanbraccio si asciuga il sudore dalla fronte, sbuffando. Quel giorno
faceva veramente troppo caldo. Esce chiudendo la porta a chiave, per andare a
salutare sua madre, che le aveva dato un passaggio con il furgoncino dell’azienda.
Si era presa una giornata libera, in modo da poterla accompagnare e salutarla.
«Ho finito, adesso manca solo da
svuotare e sistemare tutto, ma questo sono capace di farlo da sola.» dice,
appoggiandosi al finestrino della macchina.
«Sicura che sei apposto tesoro?»
domanda la madre, scostandosi i capelli sfuggiti alla coda.
«Sì mamma, stai tranquilla.» la
madre le sfiora il volto con la mano, con aria malinconica «Dai, non fare
quella faccia, ci vediamo comunque in officina!» disse la bionda sorridendo, ma
sapeva che comunque quel groppo in gola non sarebbe andato via presto.
Un pizzicotto al sedere la fece
voltare, sorpresa e offesa. Pronta per sferrare un pugno a chi aveva osato,
bloccò il movimento a metà quando sentì una fontana di capelli investirla.
«Clarke!» urlò Raven, buttandosi
tra le sue braccia. L’abbraccio venne ricambiato con altrettanto entusiasmo.
«Raven! Cosa ci fai qui?» domandò
la bionda, sorpresa di vedere la sua amica di quartiere in quella parte del
campus.
«Perché ci vivo forse?! Oddio
quanto tempo!» il sorriso della castana illumina tutto il volto.
«Clarke io vado, che tra poco
ricomincia il turno…» la voce della madre dalla macchina fece girare la bionda,
salutandola con un bacio sulla guancia.
«Ci vediamo presto mamma, stai
tranquilla. Come puoi vedere non sono da sola.».
«Raven! Bada a lei da parte mia!» e
la macchina partì dal parcheggio con calma, lasciando le due giovani
studentesse nel parcheggio.
«In che alloggio sei?» domandò la
bionda, girandosi verso l’amica.
«Il sette.».
«Oh, io sono nell’otto! Siamo
vicine!» disse entusiasta la meccanica. Averla vicino la rendeva più
tranquilla, e il nodo alla gola si allentò leggermente. Si sistemò la spallina
della canottiera, tutta sudata e con residui di olio non tolto perfettamente.
«Vedo che non perdi il tuo fascino
da meccanica sexy.» mormorò Raven, ammiccandole.
«Mollala di scherzare, informatica
dei miei stivali!» disse, dandole un leggero pugno alla spalla.
«Senti, adesso non sono per niente
presentabile, ma se vuoi stasera usciamo insieme!» propose la bionda,
sorridendole.
«Sai benissimo a quale porta
bussare…» disse facendole l’occhiolino mentre si allontanava salutando.
Salendo le scale Clarke notò un
poster fatto a mano di una banda che suona spesso nel pub del campus – Space
Walkers – con il nome di Jasper che troneggiava al centro. Ricordava benissimo
quel giovane ragazzo ingenuo, pronto a rincorrere ogni nuova fiamma per poi rimanere
deluso da ognuno di essa, e la sua fissa per lo spazio e l’universo. Era il suo
vicino di casa prima che la sua famiglia si trasferisse all’estero. Almeno finché
non decise di tornare per l’università. La foto ritoccata lo ritraeva in
atteggiamenti da punkettaro, con le occhiaie coperte da matita nera, le unghie
nere, e i capelli scuri sparati con chili di gel, con un paio di occhialoni
calcati sulla fronte. In secondo piano Monty, il suo migliore amico da sempre
che suona la chitarra, e altri due membri che non conosceva. La data era quella
di oggi, e pensò che forse ci sarebbe potuta andare con Raven, più tardi.
Prese le scale, visto che l’ascensore
aveva deciso di abbandonarla al terzo viaggio di scatoloni da portare in
appartamento. Entrò aprendo la porta, andando dritto in camera.
Si spogliò, buttando le robe sul
letto ancora da fare, prese il cambio e un asciugamano dal borsone a terra, per
dirigersi verso il bagno.
Quando aprì la porta si aprì da
sola si ritrovò faccia a faccia con una ragazza ed entrambe urlarono per lo
spavento.
Clarke perse un colpo. Era quella
ragazza della moto di prima. Ed era di fronte a lei. Con solo un asciugamano
addosso. Completamente bagnata.
Il cuore balzò a mille, diventando
completamente rossa. Dimentica che era in intimo.
«N-Non ti hanno insegnato a bussare…!?»
sbraitò Lexa, rossa in volto. E corse verso il salotto, dirigendosi verso una
delle camere che, Clarke si ricordava benissimo, erano entrambe vuote prima che
arrivasse lei.
«S-scusa!» balbettò, guardando il
muro mentre lei spariva dietro la porta.
Chiudendo la porta del bagno dietro
di sé, Clarke riprese a respirare. Potendo così sprofondare di nuovo nell’imbarazzo
più totale. Si accucciò tenendosi le mani davanti alla bocca, bloccata in una
espressione tra l’emozione e la vergogna.
Poi un odore dolce catturò la sua
attenzione. Il bagno era pregno di quel profumo che sapeva di pesca. E vide
candele sparse per il soprammobile, ancora accese, che emanavano un profumo che
catturava la mente e la trascinava verso la pace e la quiete.
Sembrava il set che si era
immaginata Clarke quel pomeriggio all’officina.
«Dannazione…!» mormorò fra i denti,
mordendosi il labbro.
“Come farò a vivere con una gnocca
simile in casa mia…?”. L’immagine di Lexa in asciugamano le mandò un’ondata di
caldo e scosse, mugugnando leggermente.
Aprì l’acqua della doccia. Fredda.
L’orecchio teso di Lexa sulla
porta, quando sentì l’acqua scorrere si portò la mano alla bocca, mordendosi le
unghie. In faccia un volto preoccupato, ancora con le guance infuocate per l’emozione,
e il cuore che non smetteva di battere. Poi, come riprendendosi, tornò ad avere
il volto freddo e duro, riprendendo il controllo delle sue emozioni. Non poteva
permettersi un’altra svista. Un’altra cotta. Un’altra debolezza.
Dopo Costia, quel “meccanico-femmina”
non doveva scalfirla.
Per la mente le passò il reggiseno
nero che contornava il suo petto, e scocciata diede un calcio ad uno scatolone.
«Concentrati, Lexa. Hai cose
migliori da fare, che non pensare a…».
Maglia scollata sporca d’olio.
«…Dannazione.».
Sono ore che Octavia gira e rigira
per il campo alla ricerca di questa ala nuova, con in mano una mappa disegnata
dal fratello. Dopo l’ennesimo giro a vuoto lo lanciò dentro un cestino.
Girandosi, vide un uomo rasato
osservarla. Octavia lo squadrò, ricambiando lo sguardo.
Era sexy. Si avvicinò.
«Ehi, ciao!».
Ma lui non rispose, continuando a
fissarla. Era uno sguardo enigmatico, e quegli occhi scuri erano così belli e
affascinanti da sprofondarci.
«Ehm…ho bisogno di andare all’ala
nuova, dove ci sono i nuovi dormitori…mi aiuti ad arrivarci?». Era leggermente
inquietata da quello sguardo. Anche se le spalle larghe e le braccia muscolose tatuate
cancellavano l’inquietudine per trasformarla in qualcosa di più eccitante.
L’uomo, sempre senza parlare,
afferrò i borsoni e si diresse con passo sicuro verso uno stabile.
«Ehi, aspetta…!» urlò la ragazza,
correndo dietro quell’uomo così tenebroso eppure così affascinante.
«Oh, cazzo…» ansimò Bellamy,
piegato sulle panche dello spogliatoio vuoto, nudo e ricoperto di sudore. Una mano
scorre sulla sua schiena, afferrandogli i capelli ricci. Non sente quello che
dice l’uomo Bellamy, è troppo concentrato a venire.
Qualche altra spinta, e l’altro
esce per venire anche lui pochi secondi dopo sulla sua schiena.
Sudato e soddisfatto, si abbandona
disteso sulla panca. L’erezione che lentamente scema, mentre cerca di
riprendere a respirare.
Murphy sogghigna.
«Grazie per il giro, dolcezza, ma
adesso devo andare.» dice, mentre si riveste.
Il rumore della zip fece voltare
Bellamy, ancora con il volto sconvolto e rosso.
«Devi proprio andare…?» mormora, in
un soffio. Il giovane si sposta i capelli all’indietro, congelandolo con gli
occhi chiari.
«Non sono la tua puttana.» disse,
incazzato. Il moro abbassa lo sguardo. Sente una mano afferrargli i capelli con
forza, portando il suo volto vicino a quello di Murphy. Quegli occhi ghiacciati
gli bloccano il respiro e il pensiero. Ed erano arrabbiati. Molto.
«TU sei la mia puttana. E decido IO
quando e quanto scopare. Fine.» lo molla di peso, uscendo dallo spogliatoio
accendendosi una sigaretta.
Bellamy si alza, e apre il
rubinetto di una doccia. Scaglia un pugno al muro, incrinando la mattonella. Un
leggero rivolo di sangue cola, mischiandosi all’acqua che scorre…insieme alle
lacrime.
«Dannazione!».