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Autore: L0g1c1ta    03/06/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Non ricorda di preciso quando il suo lavoro incominciò a diventare noioso e così dannatamente ripetitivo. Forse lo è sempre stato e non se n’è mai reso conto, ma solo ora comprende che vendere biglietti alla stazione di Mosca sia incredibilmente seccante. Deve svegliarsi alle sei del mattino, quando incominciava il suo turno, e finire alle otto di sera. Con una ridicola pausa per il pranzo di solo mezz’ora. Solo per questo piccolo grande dettaglio avrebbe rinunciato subito e avrebbe provato a trovare un altro lavoro, forse più intrigante. Avrebbe voluto anche solo provare a fare il giornalista. Peccato che questo mestiere, in questi tempi, sia piuttosto inutile. Peccato anche che suo padre facesse il controllore sin da quando era ragazzo e che non facesse altro che andare avanti e indietro per varie città dell’Unione. Almeno lui si divertiva. Invece il figlio, appena diciannovenne, già si annoiava a cambiare valute, intascare denaro e consegnare biglietti dietro ad un vetro.

Sono a malapena le otto del mattino e comincia già a pensare ad un modo per fingersi malato e, forse, tentare di restare a casa per qualche giorno. Quasi pensa di farlo, dimenticando che sia solo il suo sesto mese lavorativo. Ma pensa a suo padre e cambia immediatamente idea. Sul lavoro non si scherza, dice sempre. Ed è anche un tipo molto severo. Detesta quando lo delude. Ripensa ai suoi occhi, inclinati malamente verso il naso, quasi cattivi. Da bambino lo odiava per i suoi occhi. Rinuncia definitivamente all’idea, non ne vale la pena. Spera almeno che la pausa pranzo decida di arrivare, perché non ce la fa più. C’è più fermento del solito alla stazione e ne ignora il motivo. Vuole solo uscire da questo cabinato quasi claustrofobo, smettere di vedere persone che non conosce e andare a passeggiare per il centro, soprattutto oggi che è una bella giornata. Solo ora si accorge che nessuno più si avvicina al suo finestrino. Sospira felice, abbandonandosi sulla sedia. In pochi secondi si rilassa completamente.

“Tre biglietti per Varsavia!” il tonfo di un pugno e dei respiri profondi, sfiancati, accompagnano l’esclamazione. Sobbalza, un frammento del suo cuore raggiunge i polmoni e si blocca nella trachea. Si regge al legno dello sportello per non cadere. Con occhi ancora spalancati fa cadere lo sguardo attraverso il vetro. Si ricompone, le spalle cadono, la pelle del viso si rilassa e ritorna di un colore quasi rossastro: tre ragazzini, solo tre stupidi ragazzini che, sicuramente, hanno sbagliato giorno ed ora per venire a disturbarlo. Poggia il gomito sul legno e il pugno sulla guancia. Seccato, sospira, cerca di darsi un’aria cattiva come fa suo padre.

“Sparite, mocciosi, non ho tempo da perdere” ricorda, dopo un po’ di tempo, di non saper imitare suo padre, visto che di lui ha preso solo l’aspetto fisico e non il cuore, che non ha i suoi occhiacci crudeli e che si sta probabilmente rendendo ridicolo. Pensa che, a questo punto, vedendo le sue guance troppo grasse e il suo viso troppo buono, i tre dovrebbero essere abbastanza soddisfatti per andarsene. Errato, sono ancora lì e respirano con più affanno. Questa volta si concentra meglio. Li osserva. Due di loro non sono ragazzini, solo il più basso lo è. Gli altri due avrebbero potuto avere la sua età, forse qualche anno in meno. Non li guarda negli occhi, ma capisce che sono seri. Qualcosa trasmettono in lui, un pezzetto di anima assorbe qualcosa da loro. Capisce anche che sono spaventati. Uno di loro, quello coi capelli scuri, fa scivolare sotto al vetro tre passaporti.

“Ve ne prego, ci servono tre biglietti per Varsavia!” ansima con più energia, deve aver corso tanto. Il fiato bollente del ragazzo tocca il vetro, appannandolo. Non comprende cosa diavolo stia succedendo, ma in qualche modo gli interessa. Finalmente qualcosa di interessante. L’occhialuto volta spesso il capo alla loro destra, verso l’entrata. Dietro di loro il treno fischia, acuto, all’improvviso. Il più piccolo dei tre, agitato, sobbalza per la sorpresa. Lui non si meraviglia: ben pochi viaggiano nell’Unione, soprattutto i russi, e spesso si arriva all’età adulta senza aver mai visto un treno. La loro agitazione gli interessa, ma sa che non può chiedere nulla. Pensa solo di fare il suo lavoro, come se nulla fosse.

“Tre biglietti per dove?”

“Per Varsavia, in Polonia!” corruga la fronte, perplesso. Quella città non l’aveva mai sentita nominare. Forse una volta, quando era bambino e la guerra era alle porte. Ma gli è familiare. Si volta alla sua destra, verso la mappa di treni e stazioni russe. Il suo occhio ruota, gira, svolta per la cartina appena acquistata, nuova e colorata. Se non avesse saputo che sarebbe comparsa una nuova nazione sul giornale di ieri o alla radio, allora si sarebbe meravigliato ancor di più. Immagina già che sia il nuovo paese quel che sta cercando. Vede chiaramente la scritta Varsavia, nera, con caratteri cubitali. Si volta verso i tre.

“Dovete mostrare il permesso” gli occhi chiari del moro sembrano sobbalzare. Deglutisce, non capendo. Il piccolo vicino a lui, tremante, gli lancia uno sguardo esitante, terrorizzato. Il moro non lo coglie. L’occhialuto continua a guardare verso l’entrata della stazione, fingendo indifferenza. Passa qualche secondo di stasi.

“Quale permesso?” sospira, si aspettava una risposta del genere.

“Per viaggiare al di fuori di un paese dell’Unione Sovietica è necessario un permesso della vigilanza di Mosca per accertamenti e precauzioni” spiega ciò brevemente, com’è scritto nel libretto che ha dovuto per forza imparare a memoria per avere questo noioso lavoro. Per fortuna l’ha ripetuto miliardi di volte, sa bene cosa dire. E immagina già cosa gli chiederanno. Decide di anticiparli, vede troppa fretta nelle loro gambe e nelle loro dita, tamburellanti sul legno sotto al vetro. Comincia a seccargli tutta questa ansia “Per farlo dovreste andare in questura e attendere di riceverlo” altri deglutii, questa volta dal più piccolo dei tre che, insicuro, ha preso per mano il più grande.

“Quanto ci vorrà per averlo?”

“Almeno sei o sette mesi”

“C-Cosa?!” anche l’occhialuto sobbalza, attratto dalle loro parole. Non sa bene se dalle sue o da quelle del moro “Non possiamo aspettare sette mesi!” sospira, anche questo se l’aspettava. Per i pochi viaggiatori è sempre una seccatura avere il permesso. Ma nell’Unione funziona sempre così. Le notizie dei giornali internazionali sono perennemente mute o false, viaggiare all’infuori del proprio paese è un tormento e avere un passaporto è difficile, a meno che non si possegga una carica di grande importanza. Anche per lui è una seccatura. Da piccolo avrebbe voluto viaggiare per tutta l’Europa. Ma, come dice sempre suo padre, nella vita non trovi sempre oro. Però lui non ha mai trovato nemmeno una pepita. Ma questo non glielo dirà mai.

“Beh, allora dovreste per forza cambiare destinazione e poi, in un secondo momento, arrivare a Varsavia. Ma senza treno” l’idea, come previsto, non sembra eccitare i tre. L’occhialuto continua a sbirciare alla sua destra, ma, sentita la risposta, decide di voltarsi completamente verso il vetro. Il più piccolo prende il posto di vedetta del biondo e sguscia pian piano alla destra del gruppo, per vedere meglio. Il moro tamburella le dita con nervosismo. Sospira, passa ancora qualche secondo di stasi. Il biondo, forse più piccolo del moro, alza lo sguardo. La fretta li prende ancora.

“Dove ci consiglia di andare?” si aspettava anche questa domanda e ha già la risposta.

“Potreste prendere un treno per Minsk, in Bielorussia, ma, vista la difficoltà nel varcare le frontiere in quanto connessa completamente alla Russia, ve lo sconsiglio. Sarebbe più facile percorrere la catena Baltica e arrivare in Lituania a Vilnius così…”

“Va bene, accettiamo. Andiamo a Vilnius” lo interrompe bruscamente il moro, con le dita perennemente tamburellanti sul legno, agitate. Sospira, detesta la fretta. Controlla i passaporti, prende i contanti, consegna i biglietti. Detesta l’urgenza che gli hanno dato gli occhi dei tre. Detesta l’aria di terrore che respira. Si chiede solo ora per davvero che cosa diavolo dovrebbero fare laggiù in Polonia e perché debbano fare ogni singolo movimento di corsa. E si chiede anche perché guardino ossessivamente verso le entrate, come se inseguiti da un mostro. Questa ipotesi la prende come una certezza. Finito, si ricorda di una cosa.

“Aspettate! Quel baule lo portate nello scomparto bagagli oppure lo tenete con voi, in cabina?” ricorda di chiedere ciò vedendo il grosso baule scuro, trattenuto con forza dalla mano del moro. Si meraviglia che non l’abbia notato anche prima. Il rumore della folla dietro di loro è assillante, copre sillabe e parole. Ora la gente dietro di loro inizia a formare una fila, impaziente. Vede una coppia con un bambino, dietro ai tre ragazzi. Pensa di doversi spicciare.

“No, ce lo portiamo dietro” risponde il moro. Sbatte le palpebre, perplesso. Si sente confuso per il tono usato. Non sa se se lo sia immaginato oppure se lo abbia sentito per davvero. Il gelo della voce del ragazzo lo raggiunge come un pugno allo stomaco. Deve aver toccato un nervo scoperto, una qualche molla all’interno del moro. Da un ridicolo topolino è diventato d’un tratto un feroce lupo. Non sa che occhi siano, ma lo trafiggono e rendono muta la sua bocca. Ignora la sensazione sgradevole. Guarda i volti degli altri due e pensa che siano davvero terrorizzati da qualcosa “Quando parte il treno?”

“Fra cinque minuti circa” si scuotono, come corpi senza anima, riavuti indietro i soffi di vita. Gli occhi di lupo scompaiono, così come sono apparsi. Frettolosamente ringraziano e, letteralmente, fuggono verso le partenze dei treni col baule nero che inciampa nei loro piedi. Allunga lo sguardo verso i tre strani ragazzi, spariti tra la folla irrequieta, un branco di pesciolini, e i capostazione sbraitanti, dei marinai in mezzo ad una tempesta. Perplesso, inizia a fare delle ipotesi: o hanno fatto qualcosa o qualcuno vuole fare qualcosa a loro. O entrambe. Non ha il tempo per pensare: la coppia col bambino attira la sua attenzione e gli fa dimenticare i tre ragazzi. A tarda sera, tornato a casa, avrebbe raccontato dello strano incontro, della paura dei tre e dello strano uomo, alto come un gigante, che, con passo veloce, svoltava i piedi verso i tre, inseguendoli.

Lituania, Estonia e Lettonia corrono. La folla, senza giacche né giubbotti pensanti, cammina lenta. Pare un fiume in piena e gli uomini e le donne dei salmoni trasportati frettolosamente dalla corrente. Li spingono, li urtano, c’è un chiacchiericcio di sottofondo. Passi lenti, quasi morti, passi veloci quanto i loro. Branco di pesci tutti loro. Il fischio dei treni appena giunti a destinazione squarcia l’aria calda, bollente. Sembrano lame di spade e coltelli, i fischi. Tranciano gli stomaci e i polmoni dei tre, tanto sono acuti e fermi. Sono lance scagliate nel letto del fiume, per pescare. Continuano a correre e l’aria calda torna in loro, la folla continua a ferirli, con le pinne taglienti. Riprendono a tenersi stretti fra loro. Eppure il gelo ferma i loro polmoni. Hanno paura, non è ancora finita. Estonia indica un treno lontano, a malapena visibile tanta è la gente. Urla qualcosa. I due fratelli apprendono, anche non udendo le parole. Il fischio era di quel treno, il treno per Vilnius. Pochi minuti alla partenza.

Lituania sente il baule sobbalzare ad ogni passo che compiono. Un passo e il baule singhiozza per il dolore. Un altro passo e Lituania chiede perdono a denti stretti. Anche se leggero, è difficile da trasportare. Sia il baule che Polska, gettato là dentro. Ricorda il passato. Era restio a gettarlo lì dentro, sopra gli stivali, i panini e i vestiti di ricambio per loro. Deglutisce e continua a camminare, aiutato da Lettonia e sorretto da Estonia. Testa bassa, spalle affaticate. Sente il peso della colpa e della paura premere sulle scapole come un tarlo, un parassita sotto la pelle che mangiucchia la carne lungo la colonna vertebrale. E i ricordi bruciano ogni goccia di sangue nelle sue vene. Un baule aperto che lacrima sangue rappreso. Polonia è gettato lì dentro, sanguinante, costole rotte, occhi spalancati guardano la parete di legno come se fosse una creatura demoniaca. Polska viene trascinato nel corridoio. Urla, chiede pietà al suo padrone, invano. Chiede di lasciarglielo, di darlo a lui, di avere compassione per il soldato ucciso. Invano, ogni cosa è inutile, ogni parola ignorata. Sangue sul pavimento. Sangue rappreso. Sangue di Polska.

Lituania sale sul treno, trascina con sé il baule. Lettonia, dietro di lui, alza l’estremità e lo aiuta. È più leggero di quel che si sarebbero mai aspettati. Estonia, paziente, deglutendo, aspetta che entrino entrambi. Vede la porticina del treno piena di luce, dietro di sé il buio del nulla e un predatore silenzioso pronto a prenderlo. Lituania e Lettonia non si voltano, continuano ad avanzare nel corridoio della carrozza. Estonia procede sui primi scalini, nemmeno lui si volta. Pensa di essere già in salvo. Trasale, l’anima si agita nel corpo del Baltico, prova ad uscire e a scappare via. Sente il braccio irrigidirsi sotto la presa di una mano prepotente. Una corda di violino stride dentro di sé. La mano lo fa inciampare all’indietro. Estonia ha l’anima agitata e cade. Supera gli scalini, tocca terra. Non è caduto, la mano lo sorregge. La testa è crollata per terra, il cuore pulsa e si lamenta nelle orecchie del biondo. Sente di aver urtato con la schiena qualcosa di molto più grande e solido di lui. Il collo è scoperto, una scarica elettrica lo percorre, agitato, quando sfiora un lembo di sciarpa. Anche se morbida, l’estone l’avverte ruvida e feroce sentendo che stia strappando pezzetti di pelle, lungo la propria trachea. Non vuole voltarsi. L’ombra gigantesca sotto di sé, pericolosa, lo inghiotte. Non prova a liberarsi. Non sa se sia codardia o paura, ma non prova rimorso per sé stesso.

L’enorme ruota del treno, coi bulloni, le leve e il vapore, si muove lenta e cauta sui binari. Il fischio trancia le orecchie della folla e dei passanti, ma Estonia non sente nulla. Il cuore gli fa troppo male, le guance sono troppo rosse e spera di non piangere proprio lì, praticamente poggiato contro Russia. Si trattiene, ingoia i singhiozzi, non vuole piangere. Sarebbe troppo per lui. Non spera nemmeno in qualcosa. Il generale non si muove. Prima paziente, ora veloce, il treno fischia con più energia e le rotaie vengono avvolte dal vapore e dalle potenti ruote del gigantesco macchinario. Alza gli occhi, Estonia, e capisce di essere guardato. Lituania e Lettonia si sono accorti della sua assenza, si sono accorti che qualcosa non va, si sono accorti di Russia. Il treno è veloce, la stretta del suo padrone stringe, forse frustrato, il suo braccio con più prepotenza. Eppure non sente dolore. Non riesce a vedere gli occhi dei suoi fratelli, ma sente. Sente l’umiliazione, la paura e le loro voci. Estonia, per la prima volta, vorrebbe urlargli. Non sa che cosa, ma vorrebbe che lo ascoltassero. Loro lo fanno per lui, fedeli e preoccupati.

Estonia!!!” il treno parte e inghiotte le parole dei due fratelli, allarmati, increduli.

E gli occhi di Russia brillano di un viola quasi inumano.

 

 

 

 

 

Il cuore implora, supplica di fermarsi, di dargli tregua, di non abusare più di lui, troppo stanco. Meccanismo paziente ma troppo pressato è il suo piccolo cuoricino. I flussi di sangue hanno un ritmo troppo veloce, approfittano anch’essi della sua energia. Vene ed arterie sputano sangue e correnti di flusso vermiglio. I muscoli dell’organo si contraggono, espirano ed inspirano fiotti di ossigeno. Hanno nausea per il troppo sforzo, chiedono anch’essi pietà. Le gambe sottili hanno già di sé pochi muscoli energici e quei pochi coraggiosi si sono sfiancati troppo. Malamente reggono il corpo e la carne, le ossa e le braccia. Non ce la fanno più. Malamente cadono, come strappati della vita e dell’anima stessa. Il corpo si lascia cadere, fiacco, sfinito, quasi morto. I polmoni, pressati fino all’esaurimento, cedono ed esultano. Aprono la gola, la trachea e le narici. Pretendono aria per loro e per il cuore, affamato anch’esso di energia. Polonia è caduto sulle ginocchia, ansima in cerca d’aria, sudato ed esausto, la trachea in fiamme.

Lascia che dei passi altrettanto spossati lo raggiungano. Lascia che un corpo quasi più morto del suo cada affianco a lui. Ascolta gli ansimi di Prussia, forse con meno odio di quel che credeva di avere. Il prussiano si è lasciato cadere con la pancia gettata sulla terra bianca, le gambe scomposte, una corona di sudore sui capelli chiari. Sente i polmoni spingere forte contro le costole della gabbia toracica, contro il cuore e le vene povere di ossigeno. Si sente male, la gola è una terra infernale, le ossa rigide e deboli. Si sentiva debole anche prima. Ora si sente morire, svenire per lo sfinimento. Con fatica volta l’intero corpo sulla schiena. Il sollievo lo avvolge: i polmoni non schiacciano più le ossa. Respira con più fatica, ma si sente meglio. Vede il falcone rosso di Polonia poggiarsi sulla spalla del ragazzo, per nulla esausto. Debole, maldestro, getta la mano sopra la propria testa. Le dita incontrano e stringono fiaccamente la poca carne di Polonia. Un penoso tentativo di trattenere il ragazzo. Sbuffa, ancora indignato.

“Non ricordavo che i polacchi…” tossisce, i polmoni protestano “…corressero così forte” altra tosse, altra indignazione della gola. Le narici accolgono aria ghiacciata, troppa per loro. I polmoni ricevono la brezza gelata e la risputano facendo tossire ancora una volta il loro stanco padrone. Polonia sente malamente la mano guantata del prussiano. Immagina che sia ruvida, sudata, appiccicosa. Pesante, fastidiosa, odiosa. Non vuole la sua mano su di sé, ma non ha abbastanza forza per levarla dal proprio ginocchio. È misera, la carne attorno alle sue gambe: Prussia potrebbe stringergli l’intero polpaccio, se desiderasse. Con la coda dell’occhio vede la figura alata dell’aquila poggiarsi sulla terra immacolata, vicino al prussiano. Qualcosa in questi due personaggi fanno sgorgare e capovolgere qualcos’altro dentro al cuore debole di Polonia. Non voleva vedere nessuno. Nessuno.

“Ma perché sei qui…!?” la gola e i polmoni avrebbero voluto urlare. Hanno fatto il possibile, ma l’ossigeno era poco, la pelle della trachea troppo fragile e la lingua disidratata. È uscito fuori un granello di grido, un urlo sottile ed imbarazzante, troppo acuto ed infantile. Detesta questo grido, ma non ha potuto farne altrimenti. Prussia riprende il controllo della propria gola e del proprio cuore. Riesce a respirare con più facilità, ma deve ancora bruciare molto ossigeno. Più calmo, passa la lingua sulle labbra secche. Le dita si sollevano dalla rotula del ragazzo. A Polonia questa mano ricorda un ragno, nero e cattivo, sulla sua divisa, sulla sua coscia. Prussia sbuffa un sospiro.

“Alla fine muoiono tutti, principessina. Dopo un po’ anche il Magnifico ha dovuto tirare le cuoia” conclude, senza emozioni, secca la lingua e la mente. Non vuole ricordare nulla. Non vuole ricordare la sua vita, non vuole ricordare ciò che ha perso. Polonia, spazientito, sbuffa anch’egli. Con le unghie dell’indice e del pollice solleva in malo modo la pelle del guanto e, altrettanto sprezzante, lancia la mano lontano da sé. Toris, sulla sua spalle, scuote le piume e la testolina, preso da un leggero brivido di timore: l’aquila nera non ha mai staccato gli occhi severi su di lui e le iridi di ghiaccio addossate sulle sue piume lo riempiono di tremiti. Ha paura di quest’anima, non sa bene il perché. Anche Polonia smette di boccheggiare, tranquillizzato il fiato.

“Ma perché diavolo mi hai seguito?!” questa volta la voce ha avuto più autocontrollo e forza. È sollevato che non suoni come un latrato o come lo strillo di una ragazzina. È anche rincuorato che Prussia non abbia iniziato a dargli fastidio o a sbeffeggiarlo come faceva sempre. Immagina Prussia ancora più cattivo di come lo vedeva quando era piccolo. Quando Liet gli insegnava a difendersi con la spada e lo scudo. Quando era un principe e Prussia un comandante, nato solo per fare la guerra. Ma la Prussia è nata solo per questo: per combattere ed uccidere. E, anche se i tempi e i secoli sono cambiati, il demone sdraiato vicino a lui non è mutato affatto. I prussiani erano uno degli eserciti più forti e crudeli in Europa e l’anima affamata di sangue e potere non potrà mai lasciare il corpo di una Nazione del genere. Come Russia, come Germania. Polonia è ancora arrabbiato e non crede di poterlo mai perdonare, anche se lo vedeva spesso nella reggia di Vienna, insieme ad Ungheria ed Austria. Anche se, man a mano negli anni, sembrava divenire un po’ più umano in sua presenza, forse perché nacque Germania e Prussia stava cambiando di per sé. Ma Polonia non dimentica. Non dimenticherà mai i bombardieri su Varsavia, il panico nelle strade. La cenere grigia e maleodorante nell’aria autunnale di settembre, sulle foglie e sui ciottoli delle vie. Le fiamme infernali sulle case e le scuole. La pugnalata alle spalle da parte di Russia. Il suo ultimo respiro e occhi violacei, divertiti, che lo fissavano. Polonia non dimenticherà mai. E non perdonerà mai. Uno schiocco insistente di dita, libere dal guanto nero, trapana i timpani del biondo. Sussulta, irritato.

“Hey, hey, il Magnifico ti sta parlando!” il ragazzo, ancora più irritato, ricordate troppe cose, senza avvertire Toris, slancia il peso verso l’alto e si alza. Il falcone rosso lancia un fischio di sorpresa. Le zampe artigliate quasi lasciano la spalla, sul punto di cadere all’indietro. Gli occhietti spalancati, poi confusi, poi irritati. Polonia inizia a camminare nel bianco del nulla, lontano dall’ospite poco gradito. Toris, ancora indignato, col becco appuntito gli tira l’orlo morbido e roseo di un orecchio. Il ragazzo prova ad ignorare il dolore, con grande fatica. Un secondo sibilo del falcone rischia di farlo sobbalzare. Non vuole sembrare goffo di fronte al prussiano. Non vuole essere preso in giro per colpa di Toris. Per fortuna il volatile è attento e smette subito. Vede di nuovo il soldato prussiano, una macchiolina nera stranamente seccante. In silenzio, ora immobile, lo osserva. Prussia corre vicino al ragazzo. Struscia le mani sui fianchi e lo sghignazzo di un demone lascia le sue labbra.

“Ma sei diventato di nuovo sordo?” Polonia non risponde, testardo. Prussia sbuffa ancora una risata, meno energica, meno divertita. Comprende qualcosa di importante. La bocca cade, i denti si celano sotto i lembi delle labbra. L’occhio volta l’iride dietro di sé. Osserva il bianco, sente il battito d’ali dell’aquila sulla sua spalla. Gli artigli seghettati si poggiano cauti su di sé e il nero delle piume si rilassa contro le zampe possenti e sicure. Prussia vede quel bianco come qualcosa di freddo. Ha brividi lungo la schiena e le gambe stanche. Aghi di ghiaccio perforano il suo cuore. L’occhio si poggia, ora, sulle spalle di Polonia. I capelli biondi brillano di riflessi dorati. Sembra oro filato rubato dalla Cina. Ricorda qualcosa.

 

Austria va avanti e indietro per il corridoio, Ungheria si sfrega le mani col nervosismo di una madre preoccupata per il suo bambino, Italia ha gli occhi bassi, lui calmo e poggiato sgraziatamente sulla sedia. Quella porta spera che non si apra, che resti per sempre sigillata. Non vuole quel ragazzo vivo, non vuole che respiri. La Polonia non esiste più da quasi due settimane, non serve chiamare dottori e medici. Non importa sapere se siano austriaci o italiani, oppure ungheresi. Polonia morirà. Quel piccolo miracolo che ha fatto Austria non vale nulla. Polonia non respirerà più. Per questo è calmo e sente la sedia sulla sua schiena morbida e comoda. Non gli importa del principe, non gli importa di quel che abbia fatto Russia del suo cavaliere. Non gli importa affatto.

La porta si apre e uno degli innumerevoli dottori poggia il piede fuori dalla stanza bianca. Il camice immacolato, la barba ispida, gli occhi stanchi per le troppe ore senza sonno. È notte e nessuno riesce a dormire, nessuno ha il coraggio di farlo. Austria blocca le gambe agitate. Vorrebbe essere fermo e pacato, vorrebbe essere autorevole e rilassato, ma non ci riesce. Prussia si chiede perché Polonia lo abbia interessato così tanto, perché Ungheria abbia fatto uno scatto verso l’anziano dottore, perché Italia abbia il volto così scuro. Si chiede perché diano tanta speranza ad un morto. L’uomo li fa passare, fa entrare i tre, ansiosi. Prussia si alza, lento, sospirante, si avventura anch’egli all’interno della porta.

Le pareti sono bianche. Il pavimento è in legno, ma gli ricorda troppo il bianco, tanto è chiaro. Il ferro del letto è talmente lucido da splendere di un bianco perlaceo. Le lenzuola e il materasso brillano anch’essi di un bianco innaturalmente luminoso. In quel momento, in quell’istante, Prussia odia il bianco. Vorrebbe essere abbastanza bastardo da sputarci sopra, da allontanarsi dal letto e da andare via da quel posto. Quel bianco sa di morte e Prussia, anche se comandante di battaglie e guerre, non ci è abituato. Non in un luogo così lontano dalle campagne militari. Sente i cuori battenti di tutti e tre. Sente le mani di Ungheria, agitate, sulla sua gonna e, anche se lontane da lui, le avverte tra le sue dita, sudate e rossicce per il troppo sfregiare. Qualcosa brilla nel cuore di Prussia e sboccia come un fiore nel suo petto, prima grigio ed insensibile. Guarda gli occhi e i capelli di Ungheria ed un istinto gli ordina di stringerla forte al suo petto e di pregarle di non piangere. Ma ricorda Austria e l’odio che prova per lui è più forte del suo istinto. Non lo fa, sente che accadrà qualcosa di forte, più forte di tutti loro.

Guarda Polonia e non lo riconosce. La pelle è di un violaceo che stona contro il bianco del cuscino. Strappi e sfregi chiusi da bende e non da pelle. Il collo troppo sottile e il pomo d’Adamo fatica a salire e a scendere. La gola sembra compiere un’odissea per portare aria dolce nel corpicino troppo gracile. Anche gli occhi scuri faticano ad aprirsi. Prussia sente che tutto quel che stia vedendo sia sbagliato. Il bocciolo nel suo cuore apre piano i petali e le foglie. Qualsiasi cosa si stia formando lì, nel petto, brucia. Fa male, ma è un male diverso da quello che conosce tra il fango e il sangue dei soldati. Con fatica e stanchezza, Polonia riesce a poggiare gli occhi su Ungheria. Non è spaventato, la riconosce, prova ad alzare gli angoli della bocca, gli occhi brillano. Prussia non è certo che quello sia un sorriso, tanto è brutto e straziato. La sua amica, ansiosa e commossa, si avvicina al piccolo principe. Vede i tremiti delle sue mani e dei suoi occhi pietosi e toccati. Un altro bocciolo nasce nel cuore del comandante. Ungheria è buona, crede che sia tutto finito. Chiede al ragazzo se stia bene. Lui non dice nulla, gli angoli della bocca s’abbassano, le labbra schiuse, gli occhi lucidi e stanchi per lo sforzo.

“…sta bene?” mormora, la voce un sussurro lento, quasi una supplica mormorata a bassa voce.

“Chi, tesoro?”

“…Liet” la stanza si ghiaccia. Il bianco delle pareti è vorace, inghiotte e penetra sotto i vestiti di tutti i presenti. Ognuno di loro sente la stessa cosa, ognuno di loro prova le stesse sensazioni. E gli aghi di ghiaccio scavano, crudeli, sotto le carni, bucando i cuori pulsanti. Li ferma, li incatena in un abbraccio di morte. I volti bianchi e scuri di tutti loro sono sguardi di attesa ed esitazione per Polonia, troppo stanco per notare tutto ciò. Non è il destino indefinito del suo amico ciò che trema nell’anima di Prussia. Polonia ha chiuso gli occhi per tutti quei giorni e quelle notti di orribile attesa. Mai la bocca riuscì ad aprire, mai delle parole riuscì a pronunciare. Prussia non sa se si senta vuoto o pieno di meraviglia e compassione. Si sente malvagio, un bastardo, un uomo crudele. Guarda Ungheria. Sta per piangere, sente che piangerà. Ma è una donna forte, tanto da sorridere, anche se gli occhi pretendono di liberarsi dalle lacrime.

“Sì, amore, sì. Liet sta bene”sghignazzerebbe, in un’altra situazione. Bugiarda, le griderebbe, preso dalle risa. Il corpo quasi morto sul letto espira tutta l’aria che ha nei polmoni, come liberato di un grande peso, più grande di lui stesso. Gli angoli delle labbra tentano ancora una volta di alzarsi, più forti e decisi. Nel cuore di Prussia si spacca qualcos’altro. Questo apre una gigantesca crepa e fa schiudere il bocciolo. Apre i petali e libera nell’aria ogni suo sentimento. Quella stanza bianca puzza di carne, di sangue, di lacrime. Italia sta piangendo vicino a lui. Non si è fatto sentire, pietoso, immobile, quasi nascosto dietro Austria. Non alza gli occhi sull’austriaco, non ne ha il coraggio. Polonia inspira forte, i polmoni si riempiono di gioia.

“…gli dirai che gli voglio bene?” Prussia trattiene un sobbalzo e le labbra bianche si schiudono. Vorrebbe urlare, gridare ed implorare Dio di avere pietà di lui. Sente che è una punizione mandata dal Signore per ciò che ha fatto. Ma il desiderio viene smorto. Un’altra crepa trancia il cuore del prussiano e spacca in due i muscoli del petto. Il fiore nel suo cuore si agita e lascia il polline vaporoso in aria. Vola nella bianca stanza, la sofferenza di Prussia che non può mostrare: un vero prussiano non è debole, non può piangere, nemmeno se perde una battaglia. Nemmeno se muoiono i propri fratelli. Nemmeno se la propria amata sposa il proprio peggior nemico. Ungheria piange, le lacrime troppo pesanti. Non geme, non vuole mostrarsi debole di fronte al principino. Annuisce più volte, i capelli spettinati cadono sul volto, s’intrecciano con le scie di lacrime bollenti sulle guance.

“Sì, amore, sì, glielo dirò. Mi ha detto di dirti che ti vuole tanto bene anche lui” un’altra bugia. Prussia vuole scappare, ma i piedi sono incatenati nel legno troppo chiaro e freddo. Vorrebbe andare via e lo farebbe anche, ma il suo cuore è ancora rotto e ciò che sta vedendo è troppo nuovo, misterioso e orribile per essere ignorato. Polonia mostra ancora quella brutta copia di un sorriso, forse una riproduzione più bella e serena. Forse più sollevata e familiare. Ma dura poco. Le labbra, più lente, cadono. La pelle smette di tirare, la gola di sollevarsi ed abbassarsi. Gli occhi di brillare. Continua a guardare fisso di fronte a sé, Polonia, guarda Austria e l’aristocratico non sa se gli stia rivolgendo lo sguardo o se abbia rancore verso di lui. Austria ricambia, bianco più di quella stanza. Crede che possa riconoscerlo, che possa fargli qualcosa che nemmeno lui immagina. Sente il pentimento dell’austriaco persino all’interno delle ossa. Eppure Polonia non dice niente e continua a fissarlo. Una consapevolezza striscia sulla schiena di Prussia, questa gli fa spalancare le iridi. Il cuore si sfracella in tanti piccoli pezzettini, muore il fiore nato nel suo petto. Il medico vicino a loro prende il polso del ragazzo.

Non batte. C’è un nuovo movimento improvviso. Altri uomini in camice bianco s’avventano sul letto. Urla, esclamazioni, timore di tutti. Vengono fatti uscire fuori da un altro dottore e la porta si richiude. Anche se lontani dal disastro, sentono ancora le voci e il panico nella sconfitta. Morirà, sentono dietro alla porta. Questo viene ripetuto più volte. Il corpo di Austria trema, le mani piantate veloci, vergognose, sul volto. Come un debole, come un codardo, corre via. Prussia è indignato, lo lascia andare. Ferma Ungheria che vuole raggiungerlo. La mano intreccia le sue dita con quelle della donna. Le lacrime agli occhi, la preoccupazione e il tormento in volto non scalfiscono nulla nella mente di Prussia. Il suo sguardo la obbliga di non andarsene, di non seguire il suo falso marito, che per Prussia quell’uomo non la merita. Ungheria lo guarda e pare che il mondo si capovolga. Il comandante si sente più debole e lo sguardo severo e crudele viene stravolto da un altro, più misericordioso e dolce. Lei, dolce, se ne va, corre dietro a suo marito. Il corridoio è morto. Per la prima volta Ungheria l’ha tradito.

Corre dietro di lei. Una stanza è chiusa malamente. Sente odore di lacrime, gemiti di pianto e suppliche inconsolabili. Prussia guarda fra lo spazio aperto della porta. Austria piange, chino sulle mani, pentito di tutto ciò che ha fatto, non solo nel corridoio pochi minuti fa. Ungheria sente la stessa lama di ghiaccio che ode ora Prussia. Vede un uomo che non conosce, che prima giudicava male. Che forse odiava. Non ha mai visto Austria piangere. Prussia è incredulo. Nemmeno lui ha mai visto Austria chino sulle proprie mani, a gemere come un bambino. Mormora perdono a Polonia per il male che gli ha fatto e che forse sta continuando a fare. Prima lucido, chiede perdono alla sposa per essere visto in questo modo. Poi, col cuore spaccato, continua il pianto e i perdoni mai pronunciati. Ungheria, trasportata, benevola, accompagna col pianto anche lei il proprio marito. E lo stringe forte al seno, lei, materna e buona. Quello fu il primo passo che fecero insieme loro due, senza di lui.

Prussia torna indietro. Trova Italia, rannicchiato, nascosto contro l’angolo della stanza. Lo fa alzare e lo stringe forte a sé, che queste cose non dovrebbe vederle nessuno. Nemmeno un povero ragazzino, troppo innocente per quel mondo. Nemmeno lui stesso, abituato, anche se dovrebbe esserci abituato. Anche Italia chiede perdono, anche lui non vuole essere visto così fragile. Prussia lo stringe al petto, nasconde il suo volto nelle forti braccia. Gli mormora di non piangere più, che andrà tutto bene, che Polonia si risveglierà e starà meglio. Italia gli crede e lo abbraccia, senza lacrime, ma con occhi rossicci. Prussia si sente sporco. Pensa di star dicendo la menzogna più grande della sua vita.

Non sa di aver detto la verità. Non sa che Polonia riaprì gli occhi un’altra volta, anche se in male.

 

Il bianco di questo posto nuovo, malato, freddo ed insensibile, lo mortifica. Pare investirlo e premere contro la propria coscienza. Il falcone di Polonia non ha smesso di fissarlo fino ad ora. I suoi occhiacci neri lo scrutano malamente, autorevoli e curiosi. Rabbrividisce, Prussia e i suoi brividi si ripercuotono sull’aquila nera addossata alla sua spalla. Il vecchio pennuto lancia un’occhiata di ghiaccio al volatile più piccolo. Gli occhietti neri si sciolgono, le piume rosse prendono vita e si acquietano. Pare intimorito, il piccolo che, svelto, si volta dal lato inverso, tocca col becco acuminato i capelli biondi del principe. Polonia è dritto, fermi i passi, le braccia incrociate dietro la schiena, i capelli liberi dietro le proprie spalle. Prussia sente lo sguardo dell’aquila nera su di sé. Non deve litigare col polacco, sa che non deve farlo. E, comunque, non ha ragione per farlo. Piuttosto vorrebbe scusarsi, i sensi di colpa lo attanagliano e s’accasciano sulle proprie carni. Si rivede ancora lì, in quella stanza bianca insieme ad Ungheria e ad Austria e si sente triste.

“Polonia, io… volevo chiederti scusa per… per quel che ti è successo, insomma…” sente di aver iniziato male. Non è abituato a scusarsi, anche se, questa volta, deve per forza. Polonia arresta le gambe e nemmeno ora l’eleganza è morta dentro di sé. Prussia pensa che ora somigli molto ad Austria. Forse è per questo che, alla fine, si sono affezionati entrambi l’uno all’altro. Il falcone rosso volta piano la testa piumata e l’osserva interrogativo, eppure l’occhio serio e calcolatore rimane fra le palpebre gravi. Prussia deglutisce e sospira “So che queste cose non si dovrebbero fare. So che non avrei dovuto permettere una cosa del genere, ma, lo sai, è accaduto, e… beh…” perde le parole, si sente quasi patetico. Forse ha un po’ di rossore in volto. Polonia ha ancora lo sguardo di fronte a sé, muto. Prussia teme una sua reazione. Il vecchio pennuto, ancora sulla sua spalla, poggia gli occhi sui suoi. Prussia ne rimane rapito per un po’ e lentamente sorride piano “Vorrei che fra di noi non ci fossero conti in sospeso. Volevo… chiederti semplicemente scusa, Polonia” il falcone rosso volta ora lo sguardo sul biondo. Il polacco è ancora muto e fermo, non ricambia lo sguardo di Toris. Passano i secondi e il ragazzo sbuffa, indignato.

“Certo… dopo aver ucciso i miei soldati, distrutto Varsavia e dopo avermi eliminato dalla cartina geografica, tu mi chiedi scusa” afferma, pacato, ironico, cattivo. Ha una nota orribilmente prepotente e irata l’ultima frase. Prussia deglutisce ancora una volta. Si sente in trappola fra due fuochi, non sa bene il perché. E una piccola vena di paura s’ingrossa, piano, vicino al suo cuore. Proprio affianco alla sua anima. Il comandante non avrebbe voluto vedere Polonia, anche se morto. Avrebbe viaggiato per l’eternità nell’Inferno piuttosto che trovarsi con le spalle scoperte di fronte al polacco che lui stesso ha ucciso. Avanza, incerto, qualche passo verso il più piccolo. Polonia è ancora molto più basso e magro di lui. Da tempo non lo vedeva, non direttamente. Durante la guerra è riuscito a guardarlo in volto solo attraverso il suo cadavere sanguinante. Ha un brivido lungo la spina dorsale. Quel corpo morto, quegli occhi stagnanti e scuri, i litri di sangue addossati su ogni parte del corpo lo fanno sentire piccolo e colpevole. Prussia si sente colpevole. Polonia muove il collo, punta il mento sopra di sé, respira una grande boccata d’aria. Il prussiano non vede i suoi occhi, non vede che l’oro dei capelli e la pelle lattea “Perché?” Prussia sobbalza.

“C-Come?”

“Perché mi chiedi scusa?” Prussia rimane senza parole, confuso, messo all’angolo.

“Ecco…”

“Te lo dico io il perché” la voce prepotente di Polonia paralizza i suoi occhi cremisi. La sensazione di essere un condannato di fronte ad un giudice lo attanaglia, non gli permette di respirare. Il cuore fatica a tenere il passo coi polmoni chiusi, senza ossigeno. Polonia sembra paziente, controllato, sospira. Prussia sa che non è così, lo conosce abbastanza bene per sapere che non è così. Il biondo sospira ancora “Perché sei stato sconfitto, Prussia” gli occhi del comandante ricevono un lampo bianco di sorpresa “Perché tuo fratello è probabilmente sotto ad un cumulo di terra a far compagnia ai vermi” una palpebra sobbalza, scatta “Perché sei morto, Prussia. E perché ora ti trovi qui insieme a me. Perché non vuoi sentirti un vigliacco e non perché ti senti in colpa” ha un sobbalzo di rabbia nascosta. Prussia lo vede chiaramente, anche senza guardarlo in faccia. Polonia è sempre stato un bambino prevedibile. Eppure, ora anche lui è arrabbiato. Il ragazzo non ha il diritto di giudicare lui e suo fratello.

“Hey, questo non è vero!”

“Lo è totalmente!” deglutisce, Prussia. E, come ha detto il biondo, si sente un verme. La voce di Polonia è acuta e straziata. Non ricorda se mai l’ha visto arrabbiato. Il polacco non si arrabbia mai, preferisce nascondersi dietro a delle maschere e ingoiare il dolore. Non vuole perdere tempo ed energie in chiacchiere che forse non potrà mai vincere. Prussia non aveva bisogno delle parole di Ungheria per notarlo. Polonia ha voltato del tutto il corpo verso di lui. Il falcone sulla sua spalla è curioso e perplesso da ciò che sta accadendo. Prussia sente il proprio cuore diventare una poltiglia brutta e gommosa. Gli occhi saettanti, felini, furibondi del biondino, sanno di sale e sangue bollente “E che dovrei pensare?!” la voce ancora acuta e irosa “Tuo fratello mi ha ucciso. Russia mi ha ucciso. Tu mi hai ucciso!” il bianco attorno a loro assorbe la voce, l’ultimo urlo del polacco. Anche il corpo del comandante assorbe l’energia rossa e crudele dello strazio di Polonia. Ha brividi, non sa di cosa, lungo le scapole e dietro al collo scoperto. Il cuore per un attimo si ferma. Sospira più volte, il ragazzo. Non avrebbe voluto urlare “O-Ora spiegami come potrei accettare le tue scuse, idiota! Cioè, avrai avuto, tipo, le tue ragioni per ammazzarmi e uccidere il mio popolo…”

“Non abbiamo mai iniziato la guerra per uccidere qualcuno” un grido dentro la gola di Polonia, viene spezzato e, nullo, muore dentro i suoi polmoni. Le labbra sottili, schiuse, si serrano. Le palpebre ancora spalancate, ancora prese dai tremiti di sdegno. Come un blocco di cemento, come un’anima senza corpo, Polonia rimane tacito e statico. Prussia ha occhi irrequieti, non riescono a posarsi su quelli del ragazzo, né sulla sua divisa, né su Toris. È nervoso, nota il piccolo principe, ha paura di me, capisce. La mano guantata di nero passa, veloce, sui capelli biancastri. Indecise, le iridi pensano di puntare verso il bianco sotto di sé “Vedi, tu non sai cosa vuol dire avere l’umiliazione di aver perso la guerra più grande mai esistita al mondo” Polonia vede gli occhiacci sanguigni, prima preoccupati, ora cauti e presi dal ricordo. Non apre bocca “Non sai cosa vuol dire pagare tutti quei soldi, tanti soldi, e lasciare che Inghilterra e Francia ti strappino territori e carne dalle ossa. Forse pure lo sai, ma non sai che cosa vuol dire avere una continua crisi per più di vent’anni e… sì, costruire orologi a cucù… e venderli per due centesimi alle altre Nazioni stramaledettamente più ricche di te. Non sai nemmeno quante volte si ammalava West… Era… era uno strazio, Polonia” i tedeschi e i prussiani non sanno piangere, ricorda Polonia. Infatti, sente uno sbuffo quasi frustrato. Niente lacrime, niente rosso sulle gote. Il principe crede di capire molte cose “Poi abbiamo avuto delle buone idee, abbiamo creato armi nuove e più potenti e, alla fine, abbiamo deciso di iniziare la guerra. Per questo sono andato da Russia, per questo ti ho invaso” un altro sbuffo, la voce si fa più mite. L’aquila nera, imponente, con spalle larghe, raddrizza la testa, severa “Pensavamo di iniziare da te: eri il più piccolo, il più gracile, il più idiota…” questa volta a sbuffare è stato Polonia “…il più vicino e debole” il fiato del ragazzo si spezza “Dovevamo solo occupare la capitale, fare in modo che i politici e i soldati non potessero combatterci in futuro e averti dalla nostra parte. Volevamo creare una grande Europa, con a capo io e West, tutti insieme. Anche con Ungheria, Austria e, già, anche il piccolo Ita” una chiave d’argento apre una porticina dentro il cervello del polacco “Ma Russia deve aver avuto un motivo per… per ultimare il lavoro” Polonia si sente sgonfio di una rabbia, nemmeno del tutto nata. Sospirano insieme.

“Cioè, credevo che lo sapessi: russi e polacchi si odiano. Russia ce l’aveva ancora con me per la guerra del ’19” uno scatto e una scintilla argentea brillano negli occhi di Prussia. Il nervosismo e il pentimento cadono, vengono mostrati sotto un riso sguainato del più grande. Parte di sé non è ancora del tutto calma. Si sente ancora un verme, ancora non è stato perdonato. Lo sghignazzo ora è una risata. Ricorda molte cose di quel tempo. Ricorda che non dovrebbe ridere, ma piangere. Non c’è mai nulla di buono in una guerra. Prussia avrebbe dovuto saperlo secoli prima. Eppure solo ora se ne rende pienamente conto. Polonia, stanco, abbozza un sorriso triste. Di quel periodo non ha nessun ricordo felice. Toris piega il capo verso di lui. Non comprende. Già… Ho sempre pensato che Liet avrebbe dovuto vivere insieme a me, come nella Confederazione… pensa dentro di sé, senza sospiri, senza alcun tono di voce. Senza lacrime, senza emozioni. Prussia smette di ridere, le labbra si abbassano. Ricordano qualcosa che avrebbero voluto dimenticare.

“Diavoli, Polonia… Credimi, almeno prima di morire avrei voluto sapere che fine abbia fatto il tuo amico” Prussia si rivede nel buio della stanza. Tra la muffa e la polvere, con Gilbird sulla sua spalla. Col sangue sulla sua divisa. Aveva visto i tre Baltici, ricorda. Sforza la memoria, ricorda. Ricorda di aver visto, nell’oscurità, fuori dalla finestra, Lituania. Lo ricorda bene. Ricorda anche le risate sprezzanti contro il gigante bianco. Gilbird pigolante di paura. Lo sparo. Il collo spezzato. Deglutisce, sente la saliva e la bile dentro la trachea e con grande sforzo non si sfiora la gola. Polonia sospira, non ha bisogno di sapere come stia Liet. Involontariamente, un lieve sorriso impregna le labbra del ragazzo.

“Quindi… quindi anche tutti quanti hanno saputo quel che mi è successo…” un filo di tensione si spezza. Prussia ghigna e annuisce, i denti bianchi e appuntiti sporgono fuori dalle labbra “Come l’hanno presa Austria ed Ungheria?” Prussia si mordicchia il labbro sottile. Riflette per pochi attimi. Ricorda. In un’altra occasione avrebbe sbuffato e chiuso il discordo con un’alzata di mano. Non gli era accaduto nulla di magnifico, al contrario. Ma ora ha Polonia, occhi curiosi ed infantili, un piccolo nanerottolo che nemmeno gli raggiunge il petto. Prussia tossisce e la risata acuta fa sobbalzare il piccolo Toris, affatto abituato.

“Mi ha rincorso per tutta casa per prendermi a padellate” gli occhi di Polonia brillano come quelli di un bambino, ascoltata una storia mai sentita prima. Senza rendersene conto, iniziano a passeggiare nel bianco del nulla, cartaceo e vuoto. Il più piccolo lo guarda interrogativo, i denti indecisi se scoprirsi o meno. Prussia ritorna ad aggredire il labbro “Sono serissimo! Sapevo che gli ungheresi fossero pazzi ma… Vedi, ora di racconto: dovevo dare la notizia a Vienna, da Austria. Mi aspettavo di trovare solo lui, allora sono entrato, come sempre, nel retro, nelle cucine. E sai chi c’era lì? Ungheria, a cucinare! E lo sai un’altra cosa? Già sapeva che avevi tirato le cuoia!” esclama per ultimo Prussia, alzando la testaccia nivea e roteando gli occhi al cielo. Polonia, ancor più impaziente ed incredulo, fa scattare la fronte bianca in avanti.

“Lo sapeva già?” Prussia annuisce quasi scocciato, roteando ancora gli occhi con un cipiglio nello sguardo che ricorda guai “E che è successo, poi?”

“Ha iniziato a parlare e ad insultare il Magnifico, come al solito con ‘Ma come hai potuto farlo?’ e anche ‘Ma sei andato ubriaco in guerra?’ e alla fine è finita con ‘Ti ammazzo, maledetto prussiano!’ e così ha iniziato a rincorrermi… e dato che era in cucina, come ti ricordo, si è portata dietro una padella. Bollente…” Prussia fa strascicare verso il mento il labbro. La sua paura e il rancore del ragazzo sono morti sotto le risate di Polonia. In un’altra occasione, il comandante lo avrebbe afferrato per i capelli. Irritato, il prussiano alza il braccio, riuscendo a farlo tacere. Le risa brillano fra i denti del principe “Già. Correndo correndo siamo arrivati fino al salone. E lì c’era la Signorina Austriaca a sorseggiare tè. Ovviamente non poteva che notare la mia magnificenza e si è alzato da tavola”

“Lo sapeva anche lui?”

“Certo, se lo sapeva quella pazza di sua moglie, allora doveva saperlo anche lui”

“E che è successo?” il labbro straziato di Prussia ritorna piatto e le sopracciglia cadono. Una perla di sudore, cristallina e pura, rimembra del ricordo, scivola fluida lungo la guancia.

“Non me l’aspettavo proprio: ha preso il fucile sopra al camino e ha cominciato a spararmi” Prussia rialza gli occhi al cielo, non volendo vedere la reazione del più piccolo. Le labbra di Polonia si schiudono, fanno uscire i denti. L’eccitazione scarica scintille nel proprio cuore e il cervello prova a vedere la scena appena raccontata. Immagina Ungheria. Immagina la gonna balzante nella corsa, gli occhi di fuoco che ha già visto in passato, i capelli onde al vento e l’arma nella mano. Gli viene quasi da ridere. Immagina Austria. Lo immagina arrabbiato. Non gli è difficile, l’ha già visto furioso vivendo a casa sua. Ma non riesce assolutamente ad immaginarlo con un fucile in mano. Non ricorda di aver mai visto l’aristocratico con un’arma tra le dita. Si chiede come sia essere inseguiti dai due sposi, furiosi entrambi. Il brio della narrazione lo fa tremare di felicità. Toris, sulla sua spalla, sbatte le ali, indignato per il movimento improvviso.

“E com’è finita?”

“E come dovrebbe finire? Il Magnifico Prussia ha dovuto fare una ritirata altrettanto magnifica. Meglio non mettersi in mezzo fra moglie e marito, credimi” una nota di rimpianto giace nella voce di Prussia. Polonia, ancora eccitato, non nota nulla.

“Scommetto che Ungheria ti ha preso. Ha una mira perfetta, mica come la tua, eh” lo sguardo malandrino, quasi serpentino di Polonia viene messo a tacere dagli occhi vermigli del prussiano. Orgoglioso e superbo, alza il mento. Altre gocce di perlaceo sudore rigano la fronte e le guance.

“Ma che diavolo dici? Ovvio che me la sono cavata alla grande! Sono o non sono il migliore?” col mento alto, lo sguardo fiero, ma il sudore copioso e tremante fra le ciocche di capelli, Prussia si massaggia poco sotto il fianco. Sente ancora la natica infuocata e il ferro incandescente della padella sulla pelle e sulla spina dorsale. Per colpa sua non ha potuto sedersi per due mesi. L’ha maledetta e ha maledetto il suo inutile ed insulso marito. Anzi, ex marito. Ritorna il ghigno sulle labbra e il canino torna a brillare e a scintillare di orgoglio. Spento, smorzato, le labbra lo ricoprono: quel maledetto di un polacco ritorna a ridere di gusto.

“Cioè, col cavolo che ti credo!” e ritorna a ridere. Riguarda la scena nella sua mente. La rivede ancora una volta. E ancora una volta. Rivede Prussia correndo lungo il giardino della villa di Vienna. Lo vede in modo abnorme, comico, ridicolo. Lo sente urlare come una fanciulla terrorizzata, correre, inciampare nei rami e le radici degli alberi e venire colpito. Polonia immagina già dove, ha visto il movimento per nulla discreto del prussiano. E ride ancora più forte. Nemmeno con Toris ha mai riso così tanto dopo la sua morte. Si sente felice e forse più confortato. Prussia non gli è mai stato simpatico ma, in qualche modo, lo fa sentire più vivo, felice. A casa.

Smette, chiede altro, chiede più notizie. Prussia accetta di raccontare. Di Italia sapeva ben poco: era West quello più vicino a lui e quello con cui aveva più rapporti. Non ha potuto dargli notizie di Polonia. Ma ricorda gli occhi tristi e il dispiacere nel dover nominare in continuazione i suoi territori, poi in mano tedesca. Gli occhi scuri, il sorriso insicuro, il ricciolo al lato della testa molto più smorto. Le spalle cadenti. La testa verso il grembo. Sapeva che erano amici e non c’era bisogno per Prussia di immaginare la reazione dell’italiano. Polonia ascolta e annuisce silenziosamente. Anche per lui Italia ha sempre avuto un cuore grande e docile. E’ grato di sapere che gli sia interessato di lui, che in qualche modo gli mancasse. Prussia continua. Involontariamente, la morte del ragazzo ha creato indignazione in Europa. Persino Francia ed Inghilterra, che avevano deciso di non intervenire, erano rimasti increduli per quel che è successo. Forse avevano avuto paura di loro due, di lui e di West. Forse per questo che Francia aveva deciso di aprire il suo territorio, senza spingersi fino alla fine, senza rischiare l’inevitabile. Ma Inghilterra non era codardo, non ha mai abbassato la testa di fronte a loro. Si è spinto al massimo, ha dichiarato Francia un codardo ed è andato per la sua strada. In qualche modo ha vinto e lui è stato la loro prima vera sconfitta.

“Poi siamo cominciati sempre più a scendere. Pensavamo anche di togliere dai piedi Russia, ma vedi com’è finita, alla fine” dice, scrollando le spalle. Polonia ha ascoltato ogni parola. Ha già saputo tutto da Toris, ma raccontato da Prussia è diverso. Forse perché è più concentrato del solito sul suo racconto, forse lo vede in modo diverso da come lo vedeva alla reggia di Vienna o forse perché un barlume rossiccio brilla nelle sue iridi, ma il biondo ascolta con piacere. Prussia sembra più uomo e autoritario ora, col petto alto e i passi fermi. Ferma il racconto. Polonia alza gli occhi. Prussia non ricambia lo sguardo. Le iridi forti e vermiglie sono ferme lungo il bianco dell’infinito. Non si scrollano dall’orizzonte e non vogliono farlo. Il principe immagina che voglia dirgli qualcosa, ma si ferma, pensieroso. Toris bacchetta sulla sua tempia, piano e cauto. Voltata la testa, il falcone gli punzecchi il braccio. Polonia ubbidisce e lo alza. Il pennuto ha occhi concentrati. Si fa strada oltre il gomito del polacco ed incontra la pelle esposta. Continua a marciare, badando agli artigli acuminati ed incontrando il polso coperto dal guanto. Col becco apre le falangi incerte e le unghie s’appoggiano sulle dita più lunghe. Con l’equilibrio ristabilito, Toris lo fissa, forte nello sguardo. Polonia non è perplesso. Polonia ricorda.

 

“Sono mortificato per quest’incidente, ammetto che non era nemmeno nei miei piani”

“Ti sei anche scusato a sufficienza, russo. Ti concediamo la metà del territorio, ma che non riaccada più, se deve riaccadere di nuovo”

 

Rivede il piccolo pulcino fra le sue dita e il mondo mutare attorno a loro come carta colorata. Le strade della città macchiata di ciottoli scuri e il cielo colorato d’un azzurro quasi marino. L’aria di città e i pigolii del piccolo Toris. Vede di nuovo i tre uomini di fronte a lui. Vede la divisa sovietica di Russia e le mani imbrattate di sangue. Lo sguardo di disprezzo del prussiano e l’indignato del tedesco. Nessuno di loro due voleva la sua morte. Polonia sa di aver capito qualcosa di importante. Il falcone rosso agita le ali e, veloce, ritorna al suo posto, sulla spalla del ragazzo. Polonia pensa ancora a quel che aveva visto anni fa e crede che abbia fatto un grosso errore. Ricorda meglio: Germania e Prussia avevano fatto a cambio di ruoli durante quella guerra. Il minore guidava l’esercito, il maggiore la politica interna. Ricorda di averlo sentito da Inghilterra e Francia, quando erano venuti a casa sua per avvertirlo. Non aveva creduto nemmeno a loro. Ora ricorda meglio: Germania lo aveva invaso. Ricorda di averlo visto, così come aveva visto Russia nei suoi ultimi attimi di vita. Ma Prussia non c’era, probabilmente a Berlino. Proprio questo, accanto a lui, passa una mano fra i capelli, sospirando in cerca di parole.

“Senti, Polonia… Te lo ripeto: non volevamo uccidere nessuno, nemmeno te” le parole s’impiastricciano, poco abituate, fra la lingua e le labbra. Polonia alza gli occhi, così come fa Toris. Un angolo del labbro s’alza commosso verso l’alto. Trova Prussia patetico e ridicolo. E forse per questo sorride “Volevamo, sì, occuparti, ma poi basta. Non era necessario e non volevamo cancellarti dalla cartina geografica. Credimi, ci ho pensato seriamente in questi anni e penso che hai ragione ad essere arrabbiato…”

“Prussia, falla finita e stringimi la mano” gli stivali delle due divise smettono di sfregiare il bianco della carta. Il guanto piccolo e un po’ largo di Polonia si alza. Le dita tese verso il prussiano. Perplesso e cauto, il comandante posa gli occhi sul sorriso calmo del ragazzo “Mi hai comunque eliminato dal mappamondo” Prussia deglutisce “Ma faremo, tipo, finta che la cosa ora non ci interessi. Credo che dovremmo smetterla totalmente di farci guerra anche qui. Che ti pare?” la mano più piccola viene stretta violentemente. Polonia quasi ode la propria pelle strapparsi e le ossa inclinarsi e spezzarsi. Gli occhi verdi sono spilli sbigottiti e i tremiti sulla spina dorsale ora sono briciole di panico. Prussia stringe troppo forte e con troppa fretta la sua mano. Polonia guarda attonito il ghigno soddisfatto e rassicurato del prussiano e non sa che pensare.

“Idea magnifica, Principessina!” e la mano viene sbattuta lontano da loro. Polonia ha temuto di seguire con l’intero suo corpo il braccio volato via. Ancor più che incredulo, osserva la camminata baldanzosa del comandante. Non ascolta ciò che dice, temendo troppo per la mano dolente. Muove veloce le dita e nota che nulla è rotto o fuori luogo. Però il dolore e la sorpresa l’hanno preso di sfuggita. Prussia continua la camminata e pare volare nel bianco tanto è felice e libero dal brutto pensiero ora risolto.

“Ti muovi o no? Il Magnifico non può aspettare!”

Polonia, a malincuore, deve corrergli dietro.

 

 

 

 

 

Le ginocchia hanno fremiti così forti da far tremare i braccioli e le gambe della sedia. Il pavimento scuro accoglie l’ombra di Estonia e la inghiotte nel buio della stanza. Ingorda, spietata, dura, sbrana anche il coraggio del ragazzo, la stanza spoglia e morta. La puzza di sali e terra è assillante e punzecchia le narici e il respiro sussultante. Il freddo penetra fin dentro lo stomaco del biondo, senza vestiti, i vestiti regalatogli da Russia, quasi del tutto nudo come un neonato. Le spalle non hanno solo brividi di freddo. E mai il respiro e i sussulti sono stati così tanti, dopo tutti questi anni di pace. La pace appena uccisa e perduta. Estonia vorrebbe nascondere il volto in grembo, e il corpo ancora non comprende di non poterlo fare. Di essere paralizzato dal terrore su di una sedia. Di essere legato come un condannato.

La rivoltella, appena caricata di nuovi proiettili, scatta dentro il metallo della pistola. La debole lampadina del seminterrato, dove Polonia ha dormito la scorsa notte, è un tormento di cigoli e di luci maledette. C’è poca vita anche nella lampadina avvitata male che scarica a stenti l’energia nel vetro ed accende e spegne la propria essenza, come un soldato ferito indeciso se vivere o morire in pace. I guanti neri e caldi di Russia passano fra le linee di metallo dell’arma, ammaliato e pensante. Il cappotto pesante, fermo, quasi vorrebbe toccare terra. Estonia, ora più che ora, sente ancora più freddo.

“Bene, Estonia, vediamo se riusciamo a rinfrescare la tua debolissima memoria” pare una filastrocca, una barzelletta ironica e disumanamente dolce, quella che pronuncia Russia. Ha qualcosa di familiare ma comunque insolito, la sua voce. Il generale è tornato spietato e maligno. Estonia se ne rende conto e dentro di sé piange, più di quanto abbia fatto ore fa, quand’era giorno, quando il russo l’ha spinto e legato là dentro. Quando l’ha abbandonato lì, con la pancia vuota e i tremiti di freddo. Non ha provato nemmeno a liberarsi. È inutile e quasi giusto. Fosse stato Russia, Estonia avrebbe fatto lo stesso. Non avrebbe mai sputato sul cambiamento del proprio padrone. Gli mancano i suoi occhiali, più di qualsiasi altra cosa ora. Forse più di Lituania e Lettonia, ma non ne è certo.

La lampadina forse decide di morire e di lasciare la propria anima. La lucerna si spegne piano e, cauta, chiude gli occhi al mondo, forse per sempre. Il buio ritorna mastro di questo buco nel terreno e il ragazzo sente la paura strisciare, come aggrovigliato da serpenti. Sente le loro squame ruvide e ghiacciate sulla sua schiena e i tremori raggiungono anche le braccia. Russia, al buio, camminante verso di lui, oscuro e misterioso, gli sembra un mostro pronto a strappargli le carni. E lui è la sua preda preferita, gettata apposta come sacrificio in questo stanzino. L’istinto lo precede ed appiattisce la sua schiena all’indietro, contro il legno freddo ed instabile. Il cuore pulsa come una rondine in gabbia: Russia si è fermato. E la pistola è in mano sua. Di nuovo. Estonia deglutisce e il buio fa di lui una carcassa piangente. Vorrebbe scappare e non tornare mai più qui, in questa casa. E dimenticare tutto e tutti. Le mani di Russia carezzano piano ed incerte il metallo fra le dita.

“Dimmi: Lituania e Lettonia dove sono andati con quel cadavere?” come ore fa, come quando il sole riusciva ad entrare dalla botola sopra di sé, come quando i suoi raggi arrivavano a penetrare nel buio, accarezzandogli la carne fredda, Estonia tace. Reprime il gemito di paura ed esasperazione. Non sa da quanto tempo sia lì, ma sente la testa girare e le ossa indolenzirsi sotto le strette corde della sedia. Il legno dov’è imprigionato trema insieme a lui. Russia ha atteso fin troppo e la sua figura imponente annuisce sommessa. Estonia guarda in alto e gli sembra di vedere gli occhi brillanti della bestia di fronte a sé, avvolti dal buio della notte senza luna né stelle “Bene, allora dovrò essere cattivo anche ora” anche se con la stessa aspettativa, Estonia trema e tira su il naso. Non ha idea di cosa voglia fargli ora.

La schiena si è reclinata ancora più indietro e le ciocche bionde sfiorano il muro dietro di lui. Non toccano pietra fredda. Estonia vuole distrarsi, vuole pensare a qualsiasi cosa tranne che a tutto questo. Per questo volta piano il capo e sente bene la fragilità di ciò che ha dietro. Gli occhi toccano il muro e riescono a vedere, anche se senza luce. La grande e larga cartina dell’Europa comprime la pietra scura della stanza e si poggia piano dietro la testa e il collo del ragazzo. È confuso, ma consapevole, Estonia. Russia ha fatto di tutto per farlo parlare, ma questo è strano. E proprio perché è qualcosa di mai visto prima che lo fa temere per la propria vita. Russia fa dei passi indietro. L’ombra scura s’adagia anche sugli occhi violacei.

“Bene, se non vuoi parlare allora parlerò io!” fanciulla, bambina è la sua voce. Il ragazzo non la ode da anni questa ragazzina maledetta e riascoltarla è come un pugno da parte di Lituania, oppure vedere la propria bandiera bruciare tra le mani del nemico. Gli occhi stanchi e provati di Estonia bruciano e le palpebre diventano impercettibili filamenti di carne. Ha paura, tanta paura. Eppure non si libera. Sa che è inutile, questo l’ha imparato con anni ed anni di torture. La pistola passa di mano in mano, giocosa e puerile fra le dita avvolte nel nero. La cicatrice dell’uomo pulsa e s’infiamma di dolore. Sotto il guanto, sotto le bende, si è aperta e presto avrà un’altra sorella ad accompagnarla.

“Dunque, questa volta ti spiegherò qualche mia ipotesi” ancora immatura e mielata, questa voce comincia a far male. Fa male risentirla. Più tremiti e voglia di scappare. Con un guizzo la sicura scatta. Una pugnalata nel povero cuore del ragazzo “Il treno può essersi diretto a Minsk, in Bielorussia…” il braccio, veloce predatore, salta in avanti e il grilletto viene premuto. Urla non è riuscito a trattenersi: il proiettile si è lanciato poco lontano dal suo braccio. Questo sussulta e perde i fremiti per poco, per poi ricominciare con più disperazione. Estonia guarda il proiettile conficcato nella cartina e Minsk scompare, bruciata dalla lama rovente, appena scomparsa dentro al muro. Estonia, incredulo e miserabile, non può credere a quello che sta vedendo. La gola brucia e i polmoni pretendono molta aria, anche se la gola disidratata secca la propria angoscia. Pochi secondi e la rivoltella scatta ancora “Oppure a Kijev, in Ucraina…” la voce rimbomba fra le quattro mura come un eco maligno e divertito. Estonia urla e sobbalza dalla sedia: il proiettile, caldo e doloroso, ha toccato la propria pelle e la spalla inghiotte quel male insopportabile. Urla ancora di dolore, tanto il bruciore è potente, tanto sangue vede sgorgare dalla ferita, anche se superficiale. Estonia non può credere di essere così debole.

Paura.

I passi di Russia sembrano comprimere e spezzare la pietra sotto i propri piedi, impaziente e forse infuriato. Cuore battente, cuore di un coniglio, quello di Estonia. Il generale, calmo, quieto come colui che sa di vincere, ma che in sé non lo desidera, si porta dinanzi al poveretto. E questo ragazzo trema fin dentro l’anima e le lacrime cristalline pretendono di essere libere di soffrire anch’elle, ma fuori dalle iridi bollenti. Russia, mantello d’oscurità di fronte ad Estonia, si fa attende poco e per l’estone è come aspettare la morte con la falce nella destra e la propria testa bionda e insanguinata nella sinistra “Oppure potrebbe essere andato nel Baltico, forse a Tallinn, in Estonia, per un motivo che ancora non so” e conclude ora la voce, non più bambina né ingenua. E il tono adulto ferma i sussulti del cuore. Ma teme di farlo piangere e gridare, Russia, alzato il braccio. E la canna della rivoltella ferma poco più sopra del naso dell’estone. Fra gli occhi, dietro di lui, Tallinn è riparata dal corpo gracile e penoso del ragazzo. Il metallo della pistola non lo tocca, ma Estonia sente comunque il freddo della morte strisciare nelle sue vene. Né bambino, né adulto, Russia si piega piano verso il ragazzo e le labbra sorridenti sembrano brillare come il viola dei suoi occhi. Bestia, crudele, tradito, sussurra al suo orecchio, al povero ragazzo “Mi sto avvicinando, Estonia?”

Estonia non trema più, ma lo fanno i suoi occhi gonfi e rossi “Mi perdoni, non me lo ricordo. Non… non credo di saperlo” pure la voce, con la schiena, si appiattisce, allarmata. La figura gigantesca del russo pare un orso pronto a morderlo e a strappargli carne e pelle con i denti mordaci e seghettati. Il sorriso del mostro muore e pare molto più brutale. Gli occhi brillano per il rancore e la ferita ancora aperta dentro al proprio cuore. Russia non avrebbe mai accettato tutto questo, non fuori da queste quattro mura. Il corpo si rialza, le iridi violette sono fari di luce in quel buio senza anima. Attesa, terrificante ed orribile attesa. Russia sembra pensare a tutto e a niente. E la pistola scende piano.

“Vi avrei dato la mia anima…” non ha nulla, la sua voce. Ancora non ha nulla e non è nulla. Estonia potrebbe credere di aver sentito male. Alza gli occhi con timore e i lampi tra le palpebre sottili di Russia sembrano pretendere la carne del ragazzo “Perché mi avete tradito?” è un soffio innocente, piccolo, dolce, crudele, ingannato, carico di collera repressa e di aspettative bruciate questa mattina. Estonia abbassa gli occhi, compreso tutto. In qualche modo, sente di essere lui l’artefice di ogni cosa. Non avrebbe mai fatto tutto questo, non dopo il cambiamento avvenuto nell’anima di Russia. Gli occhi, affranti, pieni di rancore, tra le spire delle palpebre, sembrano urlare il proprio dolore “Cosa ho sbagliato, ora, Estonia?”

Estonia vorrebbe piangere e le lacrime riempiono gli occhi blu, macchiati del rosso delle vene. Vorrebbe rispondergli e dirgli qualcosa. Sente di aver sbagliato tutto, di aver ingannato per anni Russia, anche se diventato buono. Sente di essersi maledetto per l’eternità. Ogni cosa, distrutta o rovinata, mai potrebbe cambiare. Non si può tornare indietro, ma il ragazzo lo vorrebbe fare. Vorrebbe aver impedito a Russia di ritrovare il cadavere di Polonia. Vorrebbe aver impedito a Lettonia di acconsentire di celebrare funerale. Vorrebbe poter ritornare nella loro stanza e di chiuderla a chiave, per fermare Lituania, per impedirgli di raggiungere il corpo del suo amico. Qualche lacrima, piccola e pentita, lascia le ciglia e cade, sbatte contro il grembo di Estonia e scivola giù, sul legno della sedia. Le ciocche bagnate di sudore si sporgono dov’è caduta la goccia salata. La invidiano e l’ammirano.

“Però mi avete comunque tradito” gli occhi, prima lucidi, ritornano sfere di vetro, spalancate e fredde. La nuova voce di Russia fa più male di quella fanciullesca che conosceva “Credo che tu sappia che in Russia il tradimento è punito molto più duramente dell’omicidio” ritorna, non il tono di bambino, ma la rabbia nascosta del generale, adulto e crudele. La rivoltella è ferma nella sua mano, ma pare tentennare nel calare sul cuore del ragazzo “Sai, credo sia più credibile che siano andati a Riga, in Lettonia. Se bisognasse prendere un’altra ferrovia o un’altra strada, sarebbe conveniente andare dritti al cuore” e il cuore vero, battente, terrorizzato di Estonia, dietro alla canna della rivoltella, sbatte forte contro la cassa toracica, desiderando fuggire da lì. Il corpo, invece, ancora pentito, ancora indignato di sé stesso, è immobile come la cartina dietro le spalle dell’estone. Debole, quasi piangente, Estonia non fa nulla, né dice nulla. Accetta ed è pronto per essere sparato.

Il barlume lo prende, appena poggia gli occhi su quelli luminosi di Russia. Non brillano, né sono carichi più di odio. Lo guardano nel buio e carezzano piano le lacrime di Estonia. Un abbraccio caldo e straziante soffoca il ragazzo. Ricorda il dolore. E altro.

 

“Estonia…” il sussurro morto esce fuori piano dalle labbra screpolate, strappate dal vento e dalla neve, maligne e pericolose per il ragazzo nel letto. Estonia rabbrividisce e un frammento di cuore si spezza e si abbandona al freddo della sua carne. Estonia si sente freddo più che mai e non lo dicono solo i suoi occhi, calmi e severi. Non parlano solo loro. Il biondo ha passi affatto forti, affatto prepotenti. Tristi e fragili, le proprie ossa rimangono ferme vicine al letto. Il maggiore, pallido, stanco, provato, poggia gli occhi lucidi su di lui. Sa di ghiaccio e di inverno, lo sguardo di Estonia. Sa di morte e calore, quello di Lituania.

Estonia è muto, ma Lituania legge e comprende. Il corpo rigido ed immobile, proprio di fronte a lui, pare pietra insensibile e apatica. Gli occhi blu hanno il sapore delle scure gemme di zaffiro abbandonate in una caverna vuota. Vorrebbe essere forte, Estonia, ma ha paura di esserlo e di sbagliare un’altra volta. Si muovono gli occhi blu e gli zaffiri dimenticati brillano di orgoglio, di debolezza, di falsa insensibilità. Estonia è provato e non vuole mostrarsi in questo modo, non dopo quel che ha fatto il fratello per dimenticare il dolore.

Lituania sente le braccia cucite. Muove piano le stanche dita. Queste tirano la carne sopra le vene e le ossa. Sente pigramente la debolezza del proprio corpo e del proprio spirito. Si sente vecchio, malato, ma non sofferente. Quest’ultima sensazione è scomparsa del tutto da sé stesso. Ed Estonia lo guarda e le iridi chiedono, quasi pretendono di vedere qualcosa che si possa muovere in questa stanza dimenticata e cupa. Vorrebbe che uno dei due parlasse e che iniziassero a litigare e ad insultarsi. Lo preferirebbe al silenzio di stasi di ora.

Il maggiore non riesce a parlare, ma gli occhi azzurri si liberano della stanchezza e le palpebre si aprono forti e decise. Non c’è vita né luce nelle iridi di Lituania e il fratello spera che non abbia perso ogni cosa col suo gesto. Ancora silenzio, ancora gli occhi del moro sono posati sui suoi. Estonia non sa cosa dire e sa che Lituania non ha la forza per dire nient’altro che il suo nome. Aspetta ancora. Pensa di lasciarlo lì dentro, di chiudere la porta e di far rinascere il buio in questa stanza. Sarebbe una piccola ma lieta vendetta. Vorrebbe che il ragazzo soffrisse, solo perché ha fatto soffrire lui. Ma pensa a Russia e alla sua promessa e pensa di non fare nulla.

Il braccio fasciato, tremante per il dolore, s’alza e si poggia. Estonia ha un tremito nell’animo quando le sue dita si intrecciano con quelle del fratello. La mano di Lituania è fredda ed ossuta. L’istinto fa muovere le sue dita e prova a scaldare le ghiacciate del fratello. Ora i suoi occhi sono ghiaccio sciolto. La luce degli occhiali rende incandescenti le sue iridi. Le ciglia sono erbacce sbattute contro il vento. Posa di nuovo lo sguardo su quello del fratello e capisce. Le ginocchia cedono, commosse, e cadono piano sul pavimento duro. Gli occhiali lasciano il loro posto dal viso. Ora la fredda pietra che era è diventata bollente raggio di sole. Estonia brilla di commozione mentre la mano del fratello percorre il proprio volto e i capelli spettinati. Passa alla guancia e il pollice troppo magro asciuga dolcemente una lacrima pesante. Lituania vorrebbe sorridere, ma non ci riesce e forse non dovrebbe per il ricordo del suo animo malato, ora guarito. O sul punto di guarire.

Estonia ha l’anima bollente di tenerezza. Vede il proprio fratello e lo riconosce come tale. Sente di vedere per la prima volta dopo mesi il vero Lituania. Le palpebre squarciate sono stanche e vogliose di sonno, poco il sangue e la forza di muoversi. Ma Lituania è tornato buono, dopo aver salutato Polonia. Il braccio cade con calma dietro la nuca del più piccolo. Lo tira dolce a sé e il letto si riempie anche di Estonia. Guida il corpo del più piccolo sopra al suo. Conduce la testa verso il proprio cuore e la mano verso la propria mano. L’anima di Estonia si crepa e la fornace nel suo cuore straripa di calore.

Sopra al letto, addossato sul fratello malato, piange. Le lacrime sono salate, il corpo un fremito di battiti e di un cuore morto per l’ira troppo forte per lui stesso. Estonia non odia più Lituania. Sente di amarlo e di volerlo proteggere più di quanto abbia fatto in tutta la sua vita. Anche il cuore si spezza e getta via il sentimento di rancore verso il fantasma del principe, la rabbia verso il fratello e l’esasperazione nell’essere il nuovo cuore per loro tre, tristi e soli. Estonia dimentica ognuna di queste sensazioni e viene calmato con le dita del maggiore fra i suoi capelli. La mano gracile cade dietro la nuca e culla con le dita le ciocche bionde dell’occhialuto. Sente odore di sale sulle coperte e sulla propria pelle. L’altro braccio si muove e sfiora il pugno chiuso, dolorante per il caldo, di Estonia. Le dita, sorelle fra loro, s’intrecciano e si stringono forte, o quanto più possano fare le loro compagne più chiare e sofferenti. Il biondo riesce a calmare le lacrime e si abbandona alle carezze del moro. Sospira di stanchezza e dolore, il ragazzo.

Lituania si sente fratello di Estonia. Estonia si sente fratello di Lituania.

“Ti voglio bene, Lituania”

Lituania non riesce a rispondere, ma Estonia sente e apprezza il bacio dietro al proprio orecchio. E l’amore verso il maggiore cresce come girasoli in estate.

 

Sobbalza forte, il corpo di Estonia. La sedia abbraccia il fisico gemente e spezzato. I gemiti, non più freddi, ma bollenti come fuoco incandescente, bruciano anche negli occhi. Le lacrime si liberano, fiumi infuocati, straziano le guance del ragazzo. Estonia vede la pistola tentennare e, incerta, allontanarsi piano da lui. Non è un’incertezza per il pianto liberato, Estonia non lo sa e ora lo ignora, sentendosi degno di una punizione. Ma non per incolpare anche i propri fratelli.

“M-Mi dispiace, signore” e la voce, singhiozzante e strascicata, abbandona vergognosa le labbra di Estonia “Mi dispiace per tutto questo. So che è stato molto buono con noi, ma… ma…” ancora strascichi e tentennamenti nelle lacrime. La rivoltella ora è lontana da Estonia “Non avrei mai voluto fare tutto questo. Ma… ma… è tutto molto più difficile” tira su il naso, si sente cattivo e disgustoso “Non l’ho voluto fare io. L-Lituania ha voluto partire, ma non l’ha fatto perché non vi vuole bene… Non pensate male di noi” un gemito lungo e altre lacrime più amare che salate “L’ha fatto per lui. Per Polonia” il nome del principe fa male ad entrambi “Perché è il suo cavaliere. Perché sono amici e perché si vogliono bene anche loro. Lettonia l’ha seguito perché vuole bene a Lituania e non voleva che gli succedesse qualcosa. Io… io l’ho fatto per loro due, perché non volevo che si facessero del male” piange e piange, ma il disgusto verso sé stesso è più forte “Non volevo che Lituania si sentisse male come anni fa. Non volevo che anche Lettonia soffrisse per colpa mia. L’ho fatto per loro, signore. Avrei potuto impedirli di partire, ma non l’ho fatto” tira su con più forza la bile che scende dal suo naso. non alza gli occhi, vergognoso “Sono io l’unico cattivo. Non faccia del male a loro, sono andati via perché non gliel’ho impedito” occhi ancora bassi, fermi i gemiti e i sussulti “Punisca solo me, sono qui solo per questo. Non faccia del male ai miei fratelli”

Russia ha qualcosa che non va, pensa Estonia. Pensa che nessuno mai in vita sua gli abbia chiesto di venire punito. Ma non è solo questo. Il ragazzo lo intuisce. Sente l’uomo di fronte a sé più quieto e sensibile. Sembra pensare a qualcosa. I secondi non vengono più scanditi e l’attesa diventa semplice tempo abbandonato e dimenticato. Estonia teme che il verdetto sui suoi fratelli sia diverso da quello appena pronunciato da lui stesso. Russia si scongela, ritorna in vita. L’estone lo sente e lo vede. Le ginocchia del gigante si chinano e si piegano sulle cosce. Russia incontra gli occhi del ragazzo. Il generale sorride e il cuore di Estonia cade sullo stomaco.

“Visto che alla fine me l’hai dimostrato?” un brivido di panico ingiustificato serpeggia tra le spalle del ragazzo. Non capisce. Gli occhi violacei dell’uomo ritornano seriosi e il sorriso muore un’altra volta “Ma mi hai comunque fatto del male. Devo punirti in qualche modo” il panico muore, consapevole della punizione e l’attende, col capo chino sul grembo. Altra attesa, Russia non muove un muscolo, le ginocchia ora stese e la sciarpa bianca, luminosa e pura. Lo sguardo di Russia è ancora fermo e adulto, ma non minaccioso. Avanza veloce, l’enorme mano, e la corda della sedia, stretta alla mano di Estonia, si srotola sul pavimento. Il ragazzo alza lo sguardo, incredulo, muto “Il resto fai da te” non aggiunge altro, il generale, ancora in parte arrabbiato. Estonia, ancora più confuso, si libera da sé. Passa ai piedi e ripensa alle parole di Russia. Cade un’altra corda e anche una barriera di confusione nel proprio cervello. Giorni più tardi, con un panno umido in mano, chino sulle scale della villa, ricordò.

 

“Anche se non puoi difendere nemmeno te stesso, potresti almeno provare a difendere qualcun altro”

 

Russia esce fuori da quel buco nel terreno e l’aria ghiacciata della notte brilla sulla sua pelle. Bielorussia, come immaginava, è fuori ad ascoltare. Lo sguardo torvo, confuso anch’ella, forse indignata per le sue parole. Russia non apre bocca. Né spiega, né vorrebbe essere compreso. Continua il cammino, finge semplicemente di non importargli ora di sua sorella. La ragazza, ancor più che incredula e confusa, rimane ferma dov’è stata vista. Vede suo fratello togliersi i guanti e tastare la nuova benda sul polpaccio della mano, per poi afferrare dalla giubba il fascicolo preso da lei stessa sulle partenze dei treni di quella mattina. Russia rientra in casa, nel suo studio, a rileggere le sue ipotesi.

Bielorussia, quasi arrabbiata, con passo pesante, ritorna nella casa per controllare ancora una volta Katja e le sue condizioni, sdegnata per la nuova natura di suo fratello. Ma quella sera si pentì di non essere stata insieme alla sorella maggiore. L’urlo s’infranse per tutta la villa. L’urlo di rabbia, di sdegno e di paura fu udito anche da Ivan. Si precipitò nella stanza e vide ciò che vide anche la sorellina. E l’incredulità e gli spiriti fraterni urlarono insieme come sorelle nella notte.

Ucraina era sparita.

 

 

 

 

 

Ungheria piano, materna e dolce, continua a canticchiare sottovoce, quasi all’orecchio di Polonia. Lo culla come una madre culla il proprio bambino. Il capo in grembo alla donna, i capelli d’oro carezzati sommessamente, ma il respiro affaticato e il cuore galoppante nel petto. Le lacrime e i gemiti bassi di terrore. Il pianto neonato tra le ciglia. Respira pesantemente, Polonia, che pare venire strozzato da un assassino. E Ungheria continua a cullarlo, con ancora più tenerezza. Il canto continua, purtroppo Polonia non lo sente. Ma capisce ugualmente. Capisce che lo stanno accudendo, che non è solo, che ha qualcuno che gli vuole bene. Non sanno bene cosa stia pensando il povero ragazzino, ma questo smette di gemere. E la mano gracile al petto cessa di stringere forte il cuore impazzito.

Ungheria continua, smette il canto. Italia, impotente, la boccuccia vacillante e gli occhi affranti, reprime l’agitazione. La donna, angelo di bontà, convince il corpo del polacco ad alzarsi. Inizia a scalciare, spaventato, confuso dal movimento improvviso. Altre carezze, altri gemiti bassi di un cucciolo strappato dal calore del proprio nido. Ungheria supplica alle braccia magre di portarsi dietro le proprie spalle. Polonia lo fa. Qualche lacrima bambina lascia le iridi smeraldine. Ha paura, glielo legge negli occhi vuoti. Italia riesce ad avvicinarsi. Ungheria acconsente. Il giovane servo, commosso, affonda lentamente la mano fra le ciocche dorate. Non lo sente ma lo vede, Prussia. Sono morbide come seta. Questo nuovo contatto spaventa il malato e il gemito acuto tronca il silenzio. Italia ritira la mano, preso di sorpresa, Polonia si stringe forte al nuovo calore e nasconde con immane terrore il proprio volto. Non capisce cosa o chi sia, ma sente che Ungheria sia buona, per questo affonda anche la fronte nel collo della guerriera.

Le ciocche brune vengono tirate indietro, in malo modo. Un gemito più forte affonda tra le pieghe del vestito della donna. Italia ha occhi gonfi. Si scusa. Ungheria è buona. Gli sorride. Non è stata colpa sua. Polonia piange ancora, più confuso, più bambino. Ha paura di quel che gli stia succedendo. Geme ancora, più piano, ancora attutito dal collo della guerriera. Ungheria ricomincia a cullarlo e a cantargli. Gli dice che andrà tutto bene, che non gli sta succedendo nulla di brutto. Che riavrà Lituania. Che ritornerà a casa. Polonia non sente una parola, ma smette di gemere. Ora è solo pianto, sconnesso e disordinato, ucciso nel collo e dai capelli morbidi dell’ungherese. La paura svanisce, ma il disordine nella sua testa c’è ancora, per questo continua a piangere.

Prussia guarda Italia, addolorato e vergognoso, e lo tira forte al suo fianco. Gli dà due pacche sulle spalle. Non è colpa sua quello che è successo. Prussia guarda Ungheria cantare e cullare il biondo e non capisce. Non capisce perché canti. Non serve, non la sente e non la potrebbe mai sentire. Ma lei è sempre stata testarda, per questo lo fa. Prussia comunque non capisce, così come non capisce perché Austria non sia lì con loro. Ma ora non è importante. Polonia è guarito, ma è stato strappato bruscamente dalla propria terra e questa è ormai morta. L’aveva detto ad Austria di non farlo, che non sapevano che cosa gli sarebbe accaduto, se sarebbe sopravvissuto. Ora lo sanno e l’hanno saputo con le urla del ragazzo e i suoi occhi terrorizzati nel vedere il nero attorno a sé e nel non sentire nulla, nemmeno la propria voce. Il medico è stato quasi crudele nel rivelare ciò che era accaduto, che era accaduto a Polonia.

“…Perdonateci, abbiamo fatto il possibile… Le condizioni fisiche sono state risanate… Ma il ragazzo è cieco e sordo, e probabilmente anche muto…”

 

Lo stivale di Prussia sbatte contro qualcosa di duro. Trattiene un sobbalzo di sorpresa. Fischi di metallo prezioso sbattuto sul pavimento di marmo. Eppure in questo bianco assillante non esiste nulla. Nemmeno il marmo. Nemmeno del metallo prezioso. Nemmeno la luce gialla e pura che tocca ciò che ha sbattuto. Polonia, più sveglio, affatto confuso per ricordi infelici del passato, reagisce più velocemente. Afferra da terra quella cosa. La alza, un sopracciglio biondo s’attorciglia verso il basso e la confusione è anche sua. Le dita fasciate nei guanti girano e tastano l’oro di quello che dovrebbe essere una piccola coroncina. Troppo piccola per lui. Per un bambino. Troppo piccola per un gatto e troppo grande per un topolino. Le gemme colorate gli bruciano gli occhi. Troppo tempo passato nel bianco. Strizza gli occhiacci di demone e anche Toris sembra fare lo stesso, ma senza confusione né perplessità.

“Ma che ci faceva qui?” chiede, ma Prussia non risponde. Il falcone rosso concentra la vista. Gli occhi neri e profondi si perdono nel suo riflesso macchiato nell’oro. Ora indifferente e scocciato, si scrolla e le piume s’arruffano tra il rosso e il nero. Polonia decide di ignorarlo “Perché non l’ho mai vista prima…?”.

La coroncina le viene strappata dalle mani. Polonia sobbalza e gli smeraldi ai suoi occhi diventano spilli. Anche il falcone sulla sua spalla ha temuto di lasciare la presa dal corpo del principe. Toris sibila, arrabbiato. Prussia ignora entrambi e la minuta coroncina s’incastra perfettamente nel suo pollice fasciato di nero. Sghignazza e ride, felice di aver trovato qualcosa per dimenticare altri ricordi. Giocherella e la passa da dito a dito. L’aquila nera è sparita. Ride forte e mostra al cielo la piccola meraviglia.

“Finalmente qualcuno capisce chi è il migliore qui!” si vaneggia e la tira in alto “Il sovrano di Prussia ha di nuovo la sua corona!” Polonia, incredulo e spazientito, sbuffa aria calda dalle labbra. Corrucciato, spalle cadenti, sospira. Vorrebbe controbattere e riavere indietro il piccolo tesoro che aveva in mano, ora eccitato per aver trovato qualcosa di nuovo in questo mondo cartaceo. Non ha il tempo di aprire bocca, né capisce bene che cosa voglia fare di sbagliato il comandante, ma gli occhietti sbarrati di Toris lo risvegliano. Ancora muto, il volatile sembra trattenere il fiato nel becco socchiuso, prima che si liberi. La paura traspare nelle piume frementi. Il sibilo di allerta fora un orecchio a Polonia. Guarda Prussia. Lo vede sul punto di indossare la coroncina. Non capisce lo sbaglio, ma lo vuole comunque impedire.

“A-Aspetta! Non sappiamo cos-!” ma il prussiano non lo ascolta e i suoi occhi vermigli si sbarrano come quelli neri di Toris. Guarda il nulla e sembra guardare il mondo, le guerre e il sangue del proprio popolo in una terra straniera. Ma non è la guerra che vede, né sangue, né il mondo. Vede Berlino, il cielo rosso, gli occhi di West che stonano con i suoi. Ricorda. Ricorda, anche se non vede bene. Ma sente chiaramente. La coroncina gli urla le parole e lo sdegno. E la pazzia. E il proprio cuore battente di paura. Di perdere anche suo fratello.

 

“Proprio così, West! Io, tuo fratello, ho firmato quelle carte! Che c’è vuoi rifarmi la ramanzina e dirmi che queste cose non si fanno? Sono tuo fratello, West, e molto più grande di te”

“…Perché l’hai fatto?”

“Perché siamo i migliori, West, e i migliori devono esistere soli al mondo. O si inchinano di fronte a noi, o muoiono. Così abbiamo fatto fino ad ora”

“Non ci posso credere… E tu mi hai ingannato per tutti questi anni…?”

“…Ingannato? No, fratellino, io ti ho reso il migliore. L’ho fatto per te, non capisci? Così non avrai nessun altro più in alto di te! Così nessuno ci farà più del male! Non capisci, West? Perché non capisci?! Almeno ora che ci stanno per uccidere, capiscimi, idiota! Non guardarmi in questo modo!”

“Ma ora è tutto più chiaro! Proprio ora che Berlino sta per essere presa da loro! Proprio ora che Inghilterra ci sta bombardando! Ora è tutto più chiaro! Tu mi hai mentito per quasi cinque anni. E solo ora me ne rendo conto!”

“No… non ti ho mai mentito. Solo quelle carte… solo quelle…”

“No, Prussia, non sono solo quelle carte! Mi hai sempre detto che noi siamo i migliori, che dovevamo governare il mondo solo noi due…”

“Infatti! Non ci siamo quasi riusciti?”

“Era tutto falso, Prussia! Non esiste quel che mi hai detto fino ad oggi. E il peggio è che ho dovuto vedere Russia fuori dalle mura di Berlino per rendermene conto! E ho dovuto vedere dei ragazzi gettati in una guerra inutile per proteggere questa città! Prussia, come hai potuto farlo? Io sono tuo fratello! Questo paese è governato da me e da te!”

“West, veramente, non ti ho mai mentito… Credimi ancora… Hey, non guardarmi così… West, West? Fratellino, che stai facendo?! Dove vai?!”

“Non ne posso più di bugie, Prussia. Se smettere di vivere in questo castello di carte vale a dire di arrendersi, allora lo farò. Mi consegno agli inglesi, non ne posso più di questa follia”

“West…? West, non andartene! West, idiota, torna indietro!”

 

Lo strappo è stato più prepotente di quel che credeva. L’aquila nera pareva ruggire nel cielo per l’indignazione del proprio protetto e l’ha colpito. La coroncina dorata balza via dalle mani del prussiano e rotola lontano da loro. Prussia sente il proprio cuore venire percosso tra le costole della gabbia toracica. Sordo, tranne che per il battito impazzito, respira con affanno. I guanti tremano e il capo cade verso gli stivali. Il rapace scuro atterra sulla sua spalla, elegante e saggio. Gli occhi blu, alti e possenti, osservano dall’alto il comandante. Lentamente, Prussia riprende il controllo di sé. Sussurra un ringraziamento al proprio compagno, che annuisce con piume ferme e occhi chiusi. Per un attimo ha dimenticato Polonia. Il ragazzo ha ripreso la coroncina e ora è vicino a lui. Prussia non immaginava che il piccolo fosse così veloce.

“Cos’è successo?” e vorrebbe piangere, Prussia, che sente il proprio cuore spezzarsi per la domanda indiscreta. E anche gli occhietti forti e severi del ragazzo lo spingono a tenere la testa abbassata. Con tutta la forza che ha in corpo, il comandante non versa lacrime.

“Non volevo tutto questo…” l’aquila nera riapre gli occhi e gli azzurri trapassano i vermigli del protetto.

“Eh?”

“Niente, non puoi capire” alza una mano e la agita, inducendo il biondo a chiudere il discorso. Ma Polonia vuole risposte e Prussia capisce che dovrà per forza averle “Quando ho poggiato sulla testa la coroncina, ho visto delle cose… cose della guerra. Cose brutte, Polonia” non piange, non geme, non singhiozza. Un prussiano non deve mai piangere. Soprattutto se il proprio maestro è vicino a lui. Polonia, confuso ed interessato, poggia di nuovo la coroncina sulla propria testa. Prussia non si aspetta nulla, per questo non si meraviglia nel vedere il turbamento del biondino. Non accade niente, il ricordo è scomparso, bruciato da egli stesso. O forse, semplicemente, non è il ricordo di Polonia, per questo non si mostra. Prussia passa l’indice sotto al naso, più velocemente di quel che credeva di poter fare. Si concentra per ignorare il dolore al cuore “E se ne cercassimo altri, di oggetti?” il falcone di Polonia già da un po’ ha iniziato ad occhieggiare nel paesaggio attorno a sé “Credo che troveremo qualcosa di interessante da vedere” anche senza parole, l’idea interessa al polacco.

Toris è più veloce e con un battito d’ali si alza in cielo e comincia la ricerca. Senza parole, con l’euforia negli occhi verdi, Polonia comincia a correre dietro al volatile. La coroncina viene nascosta discretamente dentro alla tasca della divisa verde. Non gli parla, non lo guarda. Prussia, ora, non vuole essere nemmeno notato. Insegue il ragazzo e chiude la bocca. Anche l’aquila si alza in volo, ma piano muove le piume e altrettanto piano raggiunge i due che, curiosi, si sono fermati in un altro spazio bianco e vuoto. Prussia ferma gli stivali e le labbra sottili del principe, alzate timidamente all’insù, lo scuotono. Il falcone rosso è fermo, ora al terreno. Gli artigli sono saldati sopra all’oggetto nuovo. Polonia lo afferra con due mani e Toris svolazza fino alla sua spalla. Il lungo bastone che ha fra le dita è sottile e leggero. Brilla, l’argento, come brillano i suoi occhi di stupore. La punta all’estremità è spessa e man a mano s’arrotola su sé stessa, fino a rendersi acuminata e aguzza. La lancia argentata viene piantata con fierezza vicino al fianco di Polonia. Al prussiano sfugge una risata ironica.

“Mica porti così una lancia, idiota!” Prussia lascia uno sghignazzo divertito. Con la schiena dritta, il braccio premuto nell’angolo sbagliato del bastone e la punta troppo in alto per il biondino, il comandante ricorda il Vecchio Fritz e le loro vecchie lezioni. Fosse stato di fronte al suo maestro in quella posizione lo avrebbe preso per le ciocche e strattonato per tutta la Prussia. Fa un segno di rinnego e fraternamente abbassa il braccio del polacco e gli rilassa la schiena. Vorrebbe aggiungere qualcosa, ma non sa più cosa dire.

Entrambi sussultano, entrambi sbarrano gli occhi. Nessuno lascia la presa dal bastone argentato. Con la coda dell’occhio, Polonia vede Toris con tre piume nel becco. Queste bruciano e s’abbandonano nel bianco, non più cartaceo. Lo spazio argenteo si colora di verde, figure di carta prendono forma attorno a loro e anche queste s’intingono di colori. Gli occhi del ragazzo pizzicano per questo cambiamento improvviso. Guarda Toris e non capisce perché l’abbia fatto. Questo è serio e resta in silenzio. Accuccia il proprio corpo sulla spalla gracile e le zampette vengono nascoste dal piumaggio scarlatto. Nemmeno un occhio attento sul polacco. Sente Prussia deglutire e sobbalzare e mai lascerebbe la presa dalla lancia. Polonia alza di nuovo gli occhi e l’iride smeraldina viene toccata dal pallido bianco di una luce nivea.

Delle mani forti, decide, per nulla esitanti, lasciano su quella collinetta, fra il verde dei fusti d’erba e i fiori giallognoli, un fagotto altrettanto bianco e puro. Le mani di uomo, di un freddo guerriero, abbandonano il fagotto e svaniscono, così come sono apparse. L’aria su quella collina ritorna calda, il vento riprende a fischiare sui fasci d’erba. Il fagotto bianco si muove. Le manine di neonato, addormentate e goffe, sporgono dal cantuccio caldo e materno e sentono per la prima volta il freddo. Non è spaventato, il piccolo, non è nemmeno confuso. Sente di conoscere quel posto. Dell’uomo bianco nemmeno una traccia. Dalla copertina pesante e familiare, spunta fuori il faccino tondo. Le guance bianche e il nasino schiacciato. La fronte liscia e i ciuffi biondi tremiti al vento. La copertina pare bruciare nell’aria. Pare frantumarsi in fibre ghiacciate d’inverno. Così come le mani, così come l’uomo e il bianco candore, la copertina si dissolve e si sbriciola in minuscoli fiocchi di neve morente al caldo del sole. Il bambino fa uno sforzo e riesce a mettersi in piedi. Dimentica le braccia del padre. Dimentica di essere stato abbandonato.

I passettini schiacciano impaccati il muschio imperlato di rugiada e gli occhietti vispi tengono d’occhio i ditini paffuti, attenti a non calpestare qualcosa di cattivo. Il bambino sente di sapere dove sta andando, ma di non avere un luogo preciso dove dirigersi. Indifferente e ancora più curioso, prende coraggio e i passettini divengono più sicuri e coraggiosi. Orgoglioso di sé stesso, le guanciotte brillano di rosso e il sorriso aperto, senza dentini, splende sul visetto di neonato. Guaisce entusiasta, si aggrappa alle cortecce ruvide degli alberi. Capisce che sono parte di sé e del proprio corpo e premette di ricordarsi della loro ruvidezza. Per la prima volta sente la spensieratezza e la felicità spiccare il volo nel proprio cuoricino, anche senza aver fatto nulla.

Il sole cala e la notte passa col sonno indisturbato del piccino. Il giorno ritorna in cielo e il bambino si rimette in piedi. Ricomincia il viaggio senza meta. La curiosità è mastra negli occhietti verdi. Le manine all’aria, per tenere dritto il corpicino, il passo tremolante e i ciuffetti biondi sono le uniche cose che possiede. Ma è un bambino e i bambini sono felici anche senza nulla. Trova un campo vuoto e degli steli verdi più bassi di quelli che ha visto in precedenza. È felice, sa cosa sono. Poggia scioccamente le manine sul terreno morbido e lascia cadere il corpo. La distesa verde è piena di piante di mirtilli. La schiena morbida torna verso il cielo e le ginocchia grassottelle affondano nel muschio profumato.

I ditini grassocci e le unghiette ancora corte afferrano con sicurezza il morbido frutto blu. Gentilmente la piantina glielo concede, al principino di quella foresta, ancora troppo piccolo ed innocente per mangiare qualcosa di più grande di lui stesso, anche se più saporito. Ma la creatura non conosce altri sapori, non più del mirtillo fra le gengive ancora morbide. Il frutto viene schiacciato fra le due pareti di carne e il succo turchino bagna la gola del piccino. La linguetta sporge dalle labbra fine e le guance s’imporporano di rosso. Il mirtillo è dolce e scivola facilmente nella gola. Sente il pancino riscaldarsi un po’. Il bimbo capisce di avere fame.

Consapevole ed affamato, sporge la manina verso altri frutti blu e le ginocchia gattonano per il muschio morbido ed umido. La veste leggera e bianca, lasciatogli dal padre, s’imbrattata della rugiada trasparente e degli steli spezzati che, sanguinanti di linfa, sporcano anch’essi l’indumento bianco e puro. Le manine innocenti s’impiastricciano di blu e presto anche le labbra e le guanciotte mutano dello stesso colore. Sporco, perso, ma allegro, il bambino gioisce della pancia piena. Capisce che questo gli è sufficiente, che non deve per forza mangiare troppo. Che sarà felice anche solo con questi pochi frutti.

Beato, coi ciuffi biondi al muschio, in ritardo si accorge di essere osservato. Di vedere il ferro di poche ma lucide armature, di vedere lance appuntite e ululati feroci di cani. Il bimbo è intimorito da queste cose. Coraggioso ma confuso, rialza la schiena dal nuovo giaciglio. Vede soldati e cacciatori, vede cani e falconi da caccia. Vede punte affilate e occhi scuri verso di sé. Intimorito, arriccia le labbra verso il basso, il piccolo bambino. Inquieto, alza gli occhi verso i nuovi sconosciuti, ma non riceve risposte o incoraggiamenti. Qualcuno dalla calca si muove e, veloce e preciso, lo afferra e riesce a portarlo via da casa sua. Il bambino sa chi sono quegli uomini, ma in qualche modo gli fanno paura. Non protesta, non scalcia né si arrabbia. Non è della sua natura, per questo non lo fa. E anche perché spera che non gli facciano del male. Il piccolo sa che siano anch’essi parte di sé, ma non è certo che siano buoni. Istintivo, poggia la tempia sul lucido metallo dell’armatura. Vorrebbe essere stretto forte e al caldo, ma il ferro luminoso è ghiacciato più della notte trascorsa da solo, ma felice. Timoroso, confuso, vede la foresta svanire e un sentiero diretto in città lo rende perplesso. Vede la foresta morire dietro alle sue spalle e si chiede dove abiterà d’ora in avanti.

Prussia muove il labbro, ora perplesso e libera la voce, meno gracchiante del solito “Hey, Polonia, ma mica quel nanerottolo…”

“Sì, quello ero io” brusco e regale, il biondo lo fa tacere. Il comandante non capisce la rabbia nella sua voce e, orgoglioso, vorrebbe delle spiegazioni. Poggia gli occhi torvi sui capelli del ragazzo. Ma lo sguardo non gli viene mostrato. Polonia mostra gli occhi al suo amico e si aspetta delle risposte. Attende con pazienza, la lancia stretta con assillante fermezza nella propria mano. Toris è muto e sa cosa sta facendo, ma non può spiegarsi e non vuole spiegarsi. Gli occhietti cupi si scontrano su quelli di Polonia. Perplessità e, forse, anche nervosismo, il falcone ricambia lo sguardo del ragazzo ma vorrebbe abbassare gli occhi e concentrarsi su altro.

Per la prima volta Toris vide brillare negli occhi di Polonia una scintilla d’odio, ardente negli occhi del figlio di un demone.

  
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