And
we'll be good
capitolo 8
Rimasi
letteralmente paralizzata dal senso di colpa e dal dolore. Il tempo
aveva smesso di avere un senso. Mi raggomitolai sul divano, guardando
il vuoto, chiudendo il mondo fuori. Glenn e Maggie parlavano, ma la
loro voce era lontanissima, mentre gli unici pensieri che ero in grado
di produrre si rincorrevano in circolo nella mia testa.
Noah è morto.
Noah non c'è più.
Noah se n'è andato.
È stata colpa mia.
Se non mi avesse sostituito sarebbe ancora vivo.
L'ho ucciso.
Riuscivo a darmi la colpa nonostante
Glenn mi avesse detto chiaramente che Noah era morto perché
Nicholas aveva fatto il codardo. I miei occhi erano fissi sul suo
volto, mentre mi metteva al corrente dell'accaduto, ma non vedevo
nulla. Ero spenta. Sarei dovuta uscire da quella
porta e avventarmi su Nicholas, prenderlo a pugni finché non
mi
fossi ritenuta soddisfatta, ma la rabbia che montava dentro di me non
bruciava che per me stessa. Il rimorso mi aveva serrato le
viscere in un nodo indissolubile. Non riuscivo a parlare, a piangere, a
mangiare. La febbre mi si alzò un paio di volte,
nell'insieme di
quelle ore senza logica: furono gli unici momenti in cui riuscii a
dormire un po'. Ma il sollievo e quel poco di pace provati mentre ero
incosciente mi abbandonavano non appena riaprivo gli occhi nella vita
reale. Quel nodo doloroso non si scioglieva.
«Beth, se domani stai meglio, organizziamo una commemorazione per Noah ed Aiden», mi informò ad un certo punto Maggie. Era piegata sulle ginocchia, di fronte a me - ancora abbandonata sul divano - e mi accarezzava il viso con dolcezza.
La mia unica risposta fu un cenno
debolissimo del capo. Maggie sospirò e si alzò,
lasciandomi sola. Un funerale simbolico, perché Glenn e gli
altri non erano riusciti a recuperare i corpi di Noah e Aiden,
sbrindellati dai vaganti.
Arrivò il momento della
funzione. Mia sorella mi aiutò ad alzarmi dal divano, a
darmi
una rinfrescata e a vestirmi. Mi trascinò sottobraccio fino
al
piccolo cimitero collocato vicino alle mura, dove i nomi dei miei amici
scomparsi erano già stati aggiunti a quel memoriale di
acciaio.
La gente di Alexandria era riunita attorno a due croci che erano
piantate su due fosse vuote. Io ero circondata dalla mia famiglia, di
cui avvertivo gli sguardi preoccupati tutti su di me.
La mia
attenzione, però, era rivolta alla parte opposta
alla mia. Osservai
Deanna, devastata, accasciata contro Reg. Lo sguardo dell'uomo era
colmo di
dolore gravitava dalla croce di Aiden a quella di Noah. Il pensiero di
quanto lui e il mio migliore amico si fossero avvicinati in quei mesi,
per rendere Alexandria ancora più sicura, mi fece tremare il
cuore. Reg aveva perso due figli, non uno solo.
Accanto a Spencer che, come me, piangeva la perdita di
un fratello, si trovava Nicholas. Se il mio sguardo fosse stato in
grado di ucciderlo, quel bastardo si sarebbe accasciato al suolo in
quel momento. Vederlo di persona fece esplodere l'odio che, fino a quel
momento, avevo rivolto solo a me stessa. Incrociò la mia
occhiata torva, abbassando lo sguardo immediatamente, come il verme che
era.
Tornai a fissare la croce di Noah,
mentre la predica di padre Padre Gabriel era l'unico sottofondo a quel
silenzio. Mi sfiorò il debole pensiero di dire qualcosa a
Deanna, dirle che mi dispiaceva, ma non ne avevo la forza. Come potevo
confortarla, se io per prima ero distrutta?
Quando il funerale terminò, mi diressi a casa mia, tra le deboli
proteste di mia sorella. Quando
entrai non mi tolsi nemmeno il vestito;
ignorai Maggie, che mi aveva accompagnata, e mi trascinai su per le
scale, infilandomi sotto le coperte, a luci spente e chiudendo il
mondo fuori. Provò a convincermi a scendere, a mangiare
qualcosa, a
stare in compagnia con la nostra famiglia: non ne volli
sapere.
Non era difficile immaginare perché fosse così
preoccupata per me
e perché non
volesse lasciarmi da sola: temeva che ricadessi nello stato catatonico
che mi aveva colpita quando la mamma era uscita dal fienile come
vagante. Temeva
che volessi di nuovo farla finita.
Beh, si sbagliava. Il rimorso era
talmente opprimente che non avrei mai trovato la forza di suicidarmi:
sarebbe stato come mancare di rispetto a Noah, che era morto per
colpa mia. Sarebbe stato troppo facile rinunciare a tutto e liberarmi
di quel dolore: dovevo sopravvivere e trascinarmi dietro quello
sbaglio – e la sofferenza che ne conseguiva – per
tutta una vita,
perché era quello che mi meritavo.
Dentro di me, molto in profondità, sapevo che prima o poi
sarei
riuscita a rialzarmi, a scrollarmi di dosso quella apatia, ad
affrontare il mio dolore e i miei rimorsi. Ma era ancora troppo presto
per riuscire a reagire.
Nascondermi sotto le coperte, al buio, mi riempì di
sollievo.
Lì non dovevo fingere di poter sopportare tutto quello, non
dovevo confessare quanto in colpa mi sentissi, non dovevo sostenere e
affrontare lo
sguardo angosciato di chi mi voleva bene. Potevo elaborare la cosa, o
almeno provarci, a modo mio.
Le ore ripresero a dilatarsi in maniera sconnessa e lenta. Quando, non
so quanto tempo dopo, scesi per bere un bicchiere d'acqua, trovai la
cucina immersa nella penombra fredda del tramonto. Il piano di
sotto era deserto e silenzioso: Maggie se n'era andata, e ne fui
sollevata. Non aveva senso che restasse lì e io
volevo stare da sola.
Portai con me una bottiglia d'acqua, mi imposi di indossare qualcosa di
comodo e mi rintanai nuovamente sotto le coperte, persa nell'oblio
della mia mente. Mi addormentai a più riprese, il mio sonno
disturbato dall'incubo di Noah divorato in modi diversi. Quando non ero
incosciente, tenevo gli occhi fissi su un punto imprecisato davanti a
me, o li chiudevo, senza riposare.
Molte ore dopo, Maggie bussò appena prima di entrare in
camera mia,
chiedendomi con dolcezza se volessi fare colazione. Aprii gli occhi e
li fissai sulla finestra che, con gli scuri semi accostati, faceva
filtrare la luce del mattino. Un'altra notte era passata.
«Ehi, Bethy», mi chiamò,
sedendosi sul bordo della parte di materasso in cui mi ero
rannicchiata. Non risposi.
Mia sorella sospirò, prendendo ad accarezzarmi la nuca con fare materno. «Beth, tesoro, parlami. Non tenerti tutto dentro. Io sono qui, per te, siamo tutti qui per te, lo sai questo?», domandò in un mormorio, guardandomi con lo sguardo pieno di tristezza.
La guardai, senza muovermi di un centimetro. Mi sforzai in ogni modo di trovare la forza di parlare: non per raccontarle come mi sentivo, ma semplicemente per assicurarle che non doveva preoccuparsi, che mi sarebbe passata... Ma non ci riuscii. Non mi sentivo in grado di parlare, ma forse potevo trovare ugualmente un modo per risponderle, per farle capire che la sentivo e che avevo capito. Con lo sguardo ancora legato al suo, annuii. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato, ma gli occhi erano pieni di sollievo. Mi accarezzò nuovamente, fermandosi poi con il palmo contro la mia guancia. Mi studiò per qualche istante, in silenzio.
«Beth, tu... non
è come alla fattoria, vero?», mi chiese, cercando di
non sembrare troppo in ansia.
Il mio sguardo,
senza che potessi controllarlo, corse al mio polso
sinistro, che riposava sul cuscino: osservai la cicatrice rosea e
chiarissima che era rimasta,
là dove avevo usato un frammento di specchio per tentare
farla
finita. Scossi il capo, continuando a fissare la linea che mi segnava
la pelle.
«Vuoi che rimanga al piano di sotto, così se hai bisogno sono più vicina?». Mia sorella aveva capito che riuscivo a comunicare solo tramite domande alle quali potevo annuire o negare, senza aprire bocca.
Scossi nuovamente il capo.
Lei si chinò verso di me,
lasciandomi un bacio sulla tempia. «Quando
vorrai parlarne, sai dove trovarmi», mi ricordò
con
dolcezza, alzandosi e allontanandosi da me. Aprì la porta e
mi
osservò per qualche istante, prima di andarsene.
Sperai che rispettasse davvero il mio
volere e che mi lasciasse sola. Non avevo bisogno d'altro. Dovevo
capire come superare quel vuoto che sentivo, come convivere con il
senso di colpa. Il dolore che mi portavo dentro era immenso, eppure non
riuscivo nemmeno a sfogarlo con un pianto o qualche reazione che mi
rimettesse finalmente in connessione col mondo esterno.
Per quell'aspetto, quello che stavo
passando era simile all'apatia che mi aveva costretta sul mio vecchio
letto, dopo la fine di mia madre. Questa volta, però, avevo
altri motivi
per vivere. Il primo fra tutti era proprio Noah. Sarei stata
un'ingrata a farla finita dopo che lui era morto per
avermi sostituita. Mi sarei rialzata e avrei difeso casa nostra,
onorando la sua memoria. Dovevo solo capire come fare. Come smettere di
incolparmi per la morte del mio migliore amico, come affrontare il
dolore.
Riuscii a dormire un paio d'ore nel
pomeriggio, andai in bagno e bevvi
un po' d'acqua per mantenermi idratata. Era più facile fare
certe cose, se nessuno mi guardava. Non mi sentivo ancora pronta ad
affrontare la mia famiglia, non volevo che si concentrassero tutti su
di me. Non mi sentivo pronta a condividere il mio dolore con loro.
Nell'intimità e nella solitudine di casa mia, invece, mi
sentivo
più libera. "Riposare" così tanto, inoltre, mi
aveva
fatto passare del tutto l'influenza. Un altro giorno
trascorse,
finché la luce fuori dalla finestra non lasciò
spazio ai
colori della sera.
Mi ero appena rimessa a letto dopo aver mangiato un po' della frutta
secca che tenevo in cucina, quando sentii dei rumori provenire dal
piano di sotto: qualcuno stava bussando. Chiunque fosse, sperai
ardentemente che desistette e se ne andasse. Quando iniziai a ragionare
su chi potesse essere, sentii la porta aprirsi e richiudersi.
Solitamente la chiudevo a chiave, ma, pensa com'ero, mi era
proprio passato di mente.
Forse Maggie, passando di lì per qualche ragione, mi aveva
vista in cucina. Magari aveva pensato che mi sentissi meglio, se avevo
trovato la forza di alzarmi e mangiare. Non mi venne in mente nessun
altro. Avvertii una specie di rabbia montarmi da dentro, pensando
all'eventualità che mia sorella non avesse tenuto in
considerazione ciò
che le avevo detto. Non volevo parlare, non stavo meglio: che diavolo
ci faceva in casa mia?
Sentii dei passi salire le scale: quel suono fu talmente angosciante,
nel buio della mia camera che, per un secondo, venni sopraffatta dalla
paura che potesse essere qualcuno con cattive intenzioni. Allungai una
mano verso il coltello che, riposto nella sua fodera, troneggiava sul
mio comodino: lo afferrai e lo nascosi sotto il cuscino, spinta da
un'irrazionale paura.
Quando udii bussare anche sulla porta di camera mia, mi tranquillizzai:
se fosse stato un malintenzionato, sarebbe entrato senza troppe
cerimonie. Sospirai, sollevata, prima che il senso di fastidio
tornasse
alla carica.
«Vattene, Maggie», sbottai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia.
Tutto quel tempo
passato nel mutismo aveva reso le mie corde vocali stanche. Il suono
uscito dalle mie labbra risultò flebile e leggermente
roco.
Subito non ricevetti risposta.
Notai solo il fascio di luce che proveniva dal vano della porta e che
aveva appena rischiarato le ombre nella mia stanza. Poco dopo,
tornò la penombra e udii la porta chiudersi piano. Alzai la
testa dal cuscino, per allungare il collo oltre la coperta e accertarmi
se Maggie se ne fosse andata.
Riconobbi i suoi tratti anche nella semi-oscurità ed ebbi un
tuffo al cuore: Daryl mi
osservava, muto, in piedi vicino alla porta che aveva appena
chiuso.
«Sono io», rispose in tono basso, dicendo l'ovvio.
Posai
nuovamente la
testa sul cuscino e mi tirai la coperta fin sopra i
capelli. All'improvviso, venni travolta dal panico: che cosa
ci faceva
lì? Non volevo
che mi vedesse in quelle condizioni, che mi guardasse, che mi parlasse.
Mi vergognavo troppo di me stessa.
Ero una ragazzina debole, come mi aveva sempre considerata lui; non
volevo
dargliene l'ennesima prova. Sarebbe stata un'umiliazione, farmi vedere
in quello stato. Udii i suoi passi leggeri aggirare il mio letto e
raggiungermi dal mio lato; sentivo la sua presenza al mio capezzale,
nonostante ci fosse la coperta a dividermi da Daryl e il mondo esterno,
come una barriera.
«Beth», mi chiamò, con la voce
ferma e grave. Mi raggomitolai
ancora di più su me stessa, e Daryl notò il mio
movimento, perché, a quel punto, la sua voce mi
arrivò più vicina. «Guardami, Beth», ritentò, e lo sentii
afferrare il lembo di coperta sopra la mia testa.
«No», mormorai, schiacciando il mento contro il petto e coprendomi il volto con le mani nello stesso momento in cui lui mi riportava la coperta sopra le spalle.
Il vuoto dentro di me era talmente
grande che non riuscii
nemmeno a rendermi conto che Daryl era tornato dalla sua spedizione e
che stava bene. Non provavo niente, niente che non fosse
vergogna.
«Vai via, Daryl», sussurrai, senza forze, il viso
ancora nascosto tra le
mie dita.
«Puoi scordartelo, ragazzina», replicò, con voce un po' più alta.
Forse sperava di suscitare la mia stizza, chiamandomi in quel modo. Credeva che sarebbe riuscito a farmi reagire, ma alla fine fu come se non avesse aperto bocca. Forse potevo fare lo stesso con lui. Se lo avessi fatto arrabbiare, probabilmente se ne sarebbe andato e mi avrebbe lasciata stare. Dovevo sforzarmi di rispondergli male.
Aggrottai le sopracciglia e mi scoprii il volto, provando ad affilare lo sguardo come meglio potevo. «Non ho intenzione di suicidarmi, se è questo che temi anche tu. Chiaro? Perciò vattene, ora, e lasciami in pace», sputai flebilmente, guardandolo negli occhi.
Daryl non batté ciglio,
né si scompose. Si era seduto alla
mia altezza, con la schiena contro il muro dietro di noi, un ginocchio
alzato per
sostenersi il braccio e il volto verso di me. Continuò a
fissarmi coi suoi occhi illeggibili, che riuscivano ugualmente a
risaltare nell'oscurità.
Mi aspettai che si incazzasse, che mi insultasse, che se ne andasse,
invece non fece nulla. Il suo sguardo che scavava nel mio mi
spaventava a morte. Stava abbattendo ogni barriera che avevo alzato tra
me e il resto, mi rendeva nuda e vulnerabile. Eppure, non riuscivo a
guardare da un'altra parte.
«Vai via, Daryl. Vai via». Questa volta, dalle mie labbra, uscì una supplica. Avvertii un nodo chiudermi la gola; gli occhi, ancora fissi nei suoi, si inumidirono.
Eccolo, il dolore che non ero
ancora riuscita ad esternare. Mi si aprì
nel petto tutto in una volta, espandendosi in ogni mia cellula,
scacciando il vuoto e facendomi sentire
tutto. E tutto questo perché c'era Daryl, a vegliare su di
me.
«D-Daryl», tentai ancora, ma il suo nome si spezzò in gola e si trasformò in un singhiozzo disperato. Il primo di tanti.
Fece scivolare una mano sul materasso, lentamente, prendendo la mia. Sussultai, guardando prima le nostre mani intrecciate, poi lui.
Era lì, con me. Per me. Fu quella, la consapevolezza che mi fece crollare.
Come mille
altre volte, in sua presenza, mi sentii al sicuro. Protetta. Potevo
finalmente piangere, affrontare il dolore, combattere il rimorso, se
c'era lui al mio fianco.
Il baratro in
cui avevo rischiato di cadere... riuscivo finalmente a vederlo: era
lì, a pochi passi da me, ma la mano salda di Daryl era
stretta
alla mia, per impedirmi di scivolarci dentro. Mi raggomitolai ancora di
più, aggrappandomi alla sua mano con le mie, premendo la
fronte
contro il nostro groviglio di mani.
Scoppiai a piangere,
con un singhiozzo che provocò una fitta dolorosa al petto.
Fu
straziante e liberatorio, in
egual misura, sentire finalmente le lacrime bruciarmi sulle guance e
bagnare il cuscino, i sussulti scuotermi il petto, la sofferenza
scivolare in parte fuori da me e divenire più sostenibile,
dentro al
mio cuore. Daryl mi aveva salvata, ancora una volta. Era incredibile il
fatto che non fossi riuscita ad aprirmi con mia sorella,
così
dolce e materna, ma ci riuscii con Daryl, che non era certo maestro di
tatto. Forse, fu
proprio la sua solidità a darmi la forza di sfogarmi,
finalmente. Con lui non dovevo preoccuparmi di ricevere compassione o
pietà: avrebbe compreso il mio dolore, mi sarebbe stato
vicino,
ma senza soffocarmi.
Non disse una
parola, continuò solo a tenermi la mano, senza allentare mai
la
presa. Quella crisi di pianto mi aveva totalmente stravolta: piansi
per ore, finché non crollai, esausta, ancora aggrappata
alla mano di Daryl. Col petto finalmente libero da quello strazio che
mi aveva tormentata per giorni, riuscii a dormire
profondamente.
Mi risvegliai supina, un paio d'ore dopo. Superato l'annebbiamento
iniziale, spalancai gli occhi e mi rizzai a sedere, allarmata. Mi
guardai attorno, ritrovandomi immersa nel buio soffocante della mia
camera. Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra, libera
dalla
stretta di Daryl. L'uomo non era più al mio fianco, seduto
per
terra accanto al mio letto.
Confusa, spostai lo sguardo alla finestra: là fuori era
ancora
buio, probabilmente
era notte fonda. In
effetti, Daryl era arrivato a casa mia piuttosto presto, non
più
tardi delle sette, otto di sera... Guardando meglio, però,
notai
che il vetro era aperto. Mi domandai come non riuscii ad accorgermene
prima, visto che entrava l'aria fredda della notte.
Rabbrividii e mi alzai, avvicinandomi alla finestra. Scorsi la sagoma
di
Daryl, bellamente accomodato su quella porzione di tetto e mi sentii
subito sollevata: non se n'era andato. Prima che si accorgesse
che
mi ero svegliata, decisi di andare in bagno per darmi una rinfrescata
al viso. Mi sentivo gli occhi pesti, secchi e l'acqua fredda in faccia
non mi avrebbe fatto che bene.
Quando uscii, mi avvolsi
nel plaid che tenevo sulla testiera del letto e mi affacciai alla
finestra.
Eravamo circondati dal silenzio della notte e,
nonostante la situazione, essere lì assieme a Daryl mi
faceva
sentire più serena. Almeno un po'.
Mi schiarii la voce, sperando che non uscisse troppo impastata. «Cosa ci fai qua fuori?», gli domandai in un sussurro, per non rovinare quell'atmosfera.
Lui non sobbalzò, né si voltò, anche se di sicuro mi aveva sentita. Rimase semplicemente a fissare il vuoto davanti a sé, mentre io attendevo con ansia che volgesse la sua attenzione a me. A dirla tutta, mi intimidiva incontrare il suo sguardo, ora che ero più lucida: mi aveva vista crollare e ci eravamo tenuti per mano, a lungo. Non sapevo cosa pensasse di tutta quella storia e mi intimoriva l'idea di scoprirlo. Di nuovo quella irrazionale paura di non essere abbastanza forte ai suoi occhi.
Si voltò lentamente verso di me e si strinse nelle spalle. «Avevo il culo piazzato sul tuo pavimento da qualcosa come quattro ore. Dovevo sgranchirmi».
Mi scappò un
sorriso, senza che potessi farci nulla, e la cosa mi sorprese: era la
prima volta, da quando avevo perso il mio migliore amico, che mi veniva
spontaneo sorridere. Era sincero, inaspettato e non serviva certo a
rassicurare la persona con cui stavo parlando. Senti il cuore
accelerare il suo battito, sempre più meravigliata da quello
che
Daryl era in grado di fare per me, senza nemmeno rendersene conto.
Facendo
attenzione, scavalcai il davanzale, sistemando meglio la coperta in
modo che non mi fosse di intralcio, e strisciai lentamente affianco a
lui. Mi resi subito conto che il tetto, in quel punto, era abbastanza
piano; sarebbe stato possibile scivolare di sotto solo se l'avessi
voluto.
«Vai dentro, se hai freddo», mi redarguì Daryl, continuando a guardare un punto imprecisato davanti a sé.
«No, sto bene», lo
rassicurai, stringendo di più la coperta attorno al mio
corpo.
Rimanemmo in
silenzio per un po',
immersi nel buio e nella frescura notturna. Daryl finì di
fumare
la sua sigaretta e la lanciò nel vuoto, con un rapido
movimento
del braccio. Io continuavo a stare in silenzio, a capo chino, persa nei
miei pensieri. Per la prima volta, dopo giorni, riuscii a pensare a
qualcosa di diverso dai miei sensi di colpa, dalla mia sofferenza e da
Noah. Mi stavo domandando perché Daryl fosse rimasto e non
se ne
fosse semplicemente andato una volta accertatosi che mi ero
addormentata.
Avrei voluto chiederglielo, ma non volevo tirare fuori un argomento
che, di sicuro, lo avrebbe messo a disagio. Qualsiasi fosse stata la
sua motivazione, sapevo che difficilmente ne sarei stata messa al
corrente.
La cosa più sorprendente, in realtà, fu
l'incredibile e
improvviso bisogno di parlargli di come mi sentivo. Uno strano
formicolio mi corse lungo le braccia e le mani, mentre avvertivo dentro
di me una strana agitazione. Non potevo più tacere a
riguardo, o
sarei crollata. Inoltre, mi sentivo in dovere di giustificare il mio
comportamento degli ultimi tre giorni: volevo fargli capire che i miei
non erano i capricci di una ragazzina incapace di accettare che
esiste anche la morte.
Il mio era il dolore paralizzante di chi si
sentiva responsabile. E chi, meglio di Daryl - che si era incolpato
persino per la caduta della
prigione e per la morte di mio padre - poteva capirmi?
«È
stata colpa
mia», confessai, in un sussurro. Senza rendermene conto, mi
avvicinai di più a lui. Ormai le nostre spalle si
toccavano.
Lo sentii voltarsi verso di me e guardarmi. «Cosa?», domandò Daryl, in tono basso.
«Noah». Pronunciare il suo nome mi provocò una fitta al cuore. Non lo avrei rivisto mai più; cielo, non lo avrei rivisto davvero più.
«Non dire
cazzate, Beth», ribatté.
«È la verità», protestai stancamente.
«No, non è la verità. Glenn mi ha raccontato la verità: è stata tutta colpa di quel figlio di puttana», ribatté, riferendosi a Nicholas, «e di nessun altro».
«Noah ha preso il mio posto», ribattei con più energia, voltandomi verso di lui. «Sarebbe ancora vivo, se non avesse partecipato a quella spedizione».
Daryl mi osservò qualche istante, con la sua espressione seria e imperscrutabile. «Questo discorso non ha senso», sentenziò, infine.
Rimasi
in silenzio, senza rispondere subito. Osservai il suo profilo, i
capelli appena mossi dal vento e lo sguardo saldo. Mi sentii
stupida
per aver temuto la sua reazione di fronte al mio crollo. Daryl non
spiccava per delicatezza, ma non era insensibile quanto voleva far
credere. Meditai sulle sue
parole: anche se potevano sembrare una conclusione affrettata, detta
tanto per
tirarsi fuori dalla conversazione, mi resi conto che non era
così. A
mente fredda, mi rendevo conto anche io che sarei potuta andare avanti
all'infinito, controbattere a
qualsiasi cosa mi avesse detto, ma non sarebbe servito. La
realtà era
quella e discuterne, provando a cambiarla, non avrebbe modificato o
cancellato ciò che era successo.
Di chiunque fosse stata la colpa, Noah ed Aiden erano morti.
«Lo so», annuii dopo un po', stringendomi nel plaid, «So che non posso incolparmi per essermi ammalata. So che, se Nicholas non avesse fatto il vigliacco, probabilmente non sarebbe successo. So che Noah ha fatto il suo dovere, come tutti noi. So che, come tutti noi, conosceva i rischi che comporta lasciare le mura. So tutte queste cose, eppure...», mi interruppi, mentre la gola mi si stringeva in un nodo doloroso e gli occhi mi si riempivano di lacrime. «Eppure non riesco a smettere di pensare che, se fossi andata io al suo posto, lui sarebbe ancora vivo». Le parole si spensero in un sussurro, mentre una lacrima mi rigava la guancia. Abbassai lo sguardo per nascondermi da Daryl e l'asciugai in fretta, raccogliendo le ginocchia al petto. Il silenzio calò nuovamente, finché non venne spezzato
«Beth, è andata come doveva andare. Non farti del male addossandoti colpe che non hai», disse, con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare.
Alzai il viso e
incontrai i suoi occhi, che mi guardavano come se volessero scavarmi
dentro. Come se cercassero nuovamente il modo di tenermi
aggrappata a lui, per non lasciarmi cadere. Era convinto di quello che
mi stava dicendo, ci credeva davvero. Anche se in una maniera piuttosto
contorta, mi aveva detto che non voleva che soffrissi. Avrebbe potuto
riempirmi di attenzioni, di parole, di incoraggiamenti, ma mi bastava
guardarlo negli occhi per avere tutto quello, tutto insieme. Perdendomi
nel suo sguardo, le paure mi davano fiato e il dolore si allentava.
Spesso io e Daryl eravamo lontani fisicamente, ma con nessun'altra
persona che non fosse parte della famiglia, mi ero sentita tanto
vicina; e poco importava che ci toccassimo appena. Non avrei scambiato
ciò che provavo e che mi legava a Daryl con nient'altro al
mondo.
Quando un nuovo singhiozzo scosse il mio petto, mi sbilanciai appena
verso di lui, appoggiando il capo nell'incavo della sua spalla. Subito
lo sentii irrigidirsi, mentre gli sfioravo la pelle del collo con la
mia fronte. Avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me e
inspirare il suo odore forte e avvolgente; non mi importava che non
fosse espansivo, che non usasse
troppe parole o gesti affettuosi.
Le lacrime continuavano a scivolare sulle mie guance, ma era un pianto
più silenzioso e composto rispetto a prima. Non ero
più offuscata dal dolore, ma ero consapevole di quello che
era
successo alla persona per cui stavo versando quelle lacrime. Stavo
finalmente facendo spazio alla sofferenza, accettandola, rendendola
parte di me.
Quando il mio corpo fu scosso da un brivido di freddo, mi accorsi che
la coperta, vista la mia postura sbilanciata verso destra, mi aveva
lasciato una spalla scoperta. Non feci in tempo a sistemarla, che Daryl
afferrò quel lembo di plaid, me lo risistemò
addosso e
usò quel gesto come scusa per stringermi un po' di
più a
sé. Sorrisi tra me e me, facendomi ancora più
vicina a
lui.
«Hai freddo?», bisbigliai, in un confuso tentativo di offrirgli una parte di coperta.
«No», rispose, ma la sua voce mi sembrò più roca e il suo respiro più irregolare del normale.
«Neanche io», dissi, prima di voltarmi nuovamente col viso verso il suo collo.
Avrei voluto fermare
il tempo e restare così per sempre, in quell'istante solo
nostro
e lontani da tutto. Se ne avessi avuto il coraggio, avrei posato le
labbra sulla sua pelle, gli avrei parlato a cuore aperto, gli avrei
chiesto perché era rimasto con me. Gli avrei chiesto quali
sentimenti si nascondevano dietro a tanti suoi gesti che non avevo
compreso chiaramente, ma per il momento andava bene così.
Volevo
aspettare di essere più lucida, se mai avessi desiderato
affrontare quell'argomento che avevo sempre cercato di evitare. Avrei
messo le carte in tavola un'altra volta.
L'abbraccio di Daryl era così caldo e accogliente che, ad un
certo
punto, nonostante la temperatura non proprio favorevole, mi appisolai.
Quando se ne accorse, mi riscosse appena e mi disse di andare a
dormire. Leggermente insonnolita, mi allontanai da lui e mi stropicciai
gli occhi, attenta a mantenermi in equilibrio sul tetto. Mi
aiutò a scavalcare il davanzale e rientrò in
camera mia
dopo di me. Richiusi la finestra e ci ritrovammo l'uno di fronte
all'altra, a fissarci in silenzio nella penombra della mia stanza.
Sentivo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non trovavo le parole e non
riuscivo a capire perché. Per quanto avessi voluto
ringraziarlo,
dalla mia bocca non uscì un suono. Mi limitai semplicemente
a
sostenere il suo sguardo.
«Sarà meglio che vada», proferì Daryl, interrompendo il silenzio.
Avvertii il mio cuore sussultare e un opprimente senso di vuoto aprirsi nel mio stomaco: no, non volevo che se ne andasse. Se lo avesse fatto, gli incubi avrebbero preso di nuovo il sopravvento e il senso di colpa mi avrebbe nuovamente impedito di dormire. O di svegliarmi e scendere dal letto la mattina seguente. L'alba doveva ancora arrivare e non ce l'avrei fatta ad affrontarla senza Daryl al mio fianco. Promisi a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima notte di apatia: mi sarei rialzata assieme al nuovo giorno, ma avrei avuto bisogno di lui, per farlo. Era un pensiero del tutto irrazionale, lo sapevo bene, ma non potevo fare a meno di volere l'arciere con me.
«No!», proruppi, sentendomi subito in imbarazzo, davanti alla sua occhiata perplessa. Presi un respiro profondo e cercai di controllare i battiti impazziti del mio cuore. «Resta con me», sussurrai.
«Beth...», cercò di protestare lui.
«Ti prego. Solo per stanotte», bisbigliai, imponendo a me stessa di sostenere il suo sguardo.
Rimanemmo in silenzio, lasciando che fossero soltanto i nostri occhi a comunicare. Come sempre. Dopo un tempo che a me parve infinito, Daryl sospirò, pesantemente; non so cosa lesse nella mia espressione, ma lo convinse. Borbottò un «che seccatura» e mi superò, tornando a sedersi dove si era sistemato per tutte quelle ore, per terra accanto al mio letto. Io lo guardai, e rimasi immobile dov'ero. Non era proprio quello che intendevo...
«Cosa c'è adesso?», berciò, spazientito.
Deglutii, prima di trovare il coraggio di parlare. «Sei scomodo, seduto lì».
«Sei tu che mi vuoi qua», mi fece presente in modo ostile, allungando le gambe e incrociando le braccia al petto.
«Non voglio che stai per terra. Ci sei stato anche troppo», temporeggiai, in difficoltà.
«Cristo, Beth, deciditi. O ti metti a dormire, o me ne posso anche--».
«Puoi dormire nel letto, con me», lo interruppi, tutto d'un fiato. Non potevo credere di averglielo proposto davvero. Nemmeno Daryl riusciva a capacitarsene, vista la sua espressione: mi guardava, gli occhi spalancati e le spalle rigide. Nonostante la penombra, notai che stava stringendo un pugno.
«Non se ne parla, Beth», affermò, con asprezza.
Aggrottai le sopracciglia. «Perché? Cosa ci sarebbe di male?», replicai, ritrovando un po' di sicurezza.
«Non posso dormire con te».
Incrociai le braccia al petto, irritata. «Abbiamo già dormito insieme, quando siamo scappati dalla prigione», gli ricordai.
«Non
è la stessa cosa», obiettò, con la sua
espressione illeggibile. Era nervoso, quasi imbarazzato, e quello non
poté nasconderlo. Il suo corpo parlava per lui, non
servivano i suoi occhi per capirlo. Pensai che dietro al suo rifiuto,
ci fosse lo stesso motivo che lo aveva spinto a rimanere con me; a
tenermi la mano; a tornare da me a scusarsi, quella sera in cui avevamo
litigato e io mi ero ubriacata; a tutti quei gesti che volevano
allontanarmi, ma che avevano sortito l'effetto opposto.
Daryl si sentiva così a disagio all'idea di dormire con me,
la rifiutava così fermamente, perché... forse
perché non gli ero indifferente. Avrei
potuto credere che fosse perché non mi sopportava,
ma, in quel caso, non si sarebbe preso la briga di venire fino a casa
mia, di sostenermi durante il mio crollo, di rimanere anche dopo. Ci
teneva a me. Forse Noah non aveva avuto tutti i torti, tutte le volte
che, dietro a una battuta, aveva nascosto la convinzione che l'arciere
provasse qualcosa per me. Sarei potuta andare avanti con quel botta e
risposta, chiedergli spiegazioni, ma ero stanca, e avevo solo bisogno
di sentirlo vicino a me.
«Ti prego, Daryl», ritentai, addolcendo il tono e abbandonando il tono di sfida. «Mi basta che rimani finché non mi addormento, poi puoi anche andartene», negoziai, incurvando le spalle.
Lui grugnì e alzò gli occhi al cielo, rimettendosi in piedi con fare svogliato. «Forse sarei dovuto andarmene quando me l'hai chiesto», borbottò, cercando di sgranchirsi il collo. Sentii un sorriso enorme aprirsi sulle mie labbra e il cuore aumentare il suo ritmo. Sarebbe rimasto con me; qualsiasi incubo mi avesse tormentata quella notte - o quello che ne rimaneva, non sapevo più che ore fossero - Daryl ci sarebbe stato. Non avrei affrontato l'arrivo del mattino da sola. Leggermente imbarazzata, mi avvicinai al bordo del letto dove dormivo di solito e mi sedetti, lanciando il plaid in fondo al letto. Evitai di guardare Daryl, mentre si toglieva gli scarponi e si buttava senza grazia sul materasso, facendomi rimbalzare appena. Mi sistemai sotto le coperte, supina, fissando lo sguardo al soffitto. Gli lanciai un'occhiata veloce, notando che era rimasto sopra le coperte e seduto, con la schiena appoggiata alla testiera del letto.
«Se hai freddo--», iniziai, ma lui mi interruppe.
«Dormi», mi ordinò, incrociando le braccia al petto.
Cercai il suo sguardo nel buio, per lanciargli un'occhiataccia, ma sembrò non notarla nemmeno. Appoggiò la nuca alla testiera e chiuse gli occhi, inspirando profondamente.
Io tornai a
fissare il soffitto, la mente completamente sgombra per la prima volta
dopo giorni. Sentivo una strana frenesia percorrermi da capo a piedi,
che mi impediva di abbassare le palpebre e cercare il sonno. L'unica cosa a cui riuscivo a prestare
attenzione era il calore del suo corpo vicino al mio, al suo respiro
regolare che era l'unico rumore nel silenzio della notte. Era
insopportabile l'idea di averlo così vicino a me, di essere
da soli e non poterlo stringere. I sentimenti che provavo nei suoi
confronti stavano iniziando a crescere in maniera ingestibile, non
avrei potuto fare finta di niente ancora a lungo. Specialmente
perché una piccola parte di me era convinta che Daryl
sapesse, ma che avrebbe cercato in tutti modi di evitare
l'argomento.
Volsi lo sguardo a lui, attenta a non farmi scoprire: aveva ancora gli
occhi chiusi e dentro di me ne gioii, così avrei potuto
osservarlo. Osservai il suo profilo, la linea del suo mento, la frangia
che gli copriva gli occhi, i muscoli delle braccia che risaltavano. Dio
solo sa quanto avrei voluto toccarlo. Trattenendo il respiro e cercando
di muovermi senza farlo tornare vigile, mi avvicinai a lui. Mascherai
il movimento fingendo di sistemarmi meglio sul materasso, sperando che
non si accorgesse di quanto fossero ora vicini i nostri corpi. Quando
fui certa del fatto che avesse ancora le palpebre serrate, mi feci
ancora più vicina. Aspettai qualche secondo per trovare il
coraggio e, ignorando il cuore che mi batteva all'impazzata nel petto,
mi raggomitolai contro Daryl, sprofondando col volto nel suo fianco. Lo
sentii irrigidirsi subito.
«Beth», mi ammonì, ma con meno energia di prima.
Io non dissi nulla: chiusi semplicemente gli occhi, ignorando la sua protesta. Sorprendentemente, non insisté, né mi allontanò: rimase fermo, lasciandomi accoccolata a lui. Avrei voluto vedere l'espressione che aleggiava sul suo volto, ma non ero intenzionata a muovermi nemmeno di un centimetro. Con il calore di Daryl attorno a me, ben presto mi rilassai e il sonno mi trascinò dolcemente a sé. Non ebbi incubi, né mi agitai durante quel che rimaneva di quella lunga notte.
Aprii gli occhi nel chiarore del primo mattino: per la prima volta dopo giorni, non fu un senso di oppressione al petto, la prima cosa che avvertii appena sveglia, ma il calore di Daryl ancora accanto a me. Il suo braccio, che mi offriva protezione, posato delicatamente sulla mia schiena.
Non se n'era andato.
| Nota autrice |
Non
ho molto da dire su questo capitolo, se non che è arrivato
dopo due mesi dall'ultimo e che ho fatto una fatica immane a scriverlo.
E che è più corto del solito. In
realtà, non sono nemmeno troppo soddisfatta del risultato,
ma non credo di riuscire a fare di meglio, in un periodo come questo.
Sono distratta, bloccata e piena di cose da fare. La mia allegria
è pari a quella di Daryl, tanto per intenderci, ahahah.
Sì lo so, capitolo triste e super deprimente, ma almeno
abbiamo una piccola svolta tra 'sti due. All'inizio avevo scritto una
cosa un po' diversa, poi ho perso il capitolo, l'ho riscritto ed
è uscito così. Avevo in mente più
dialogo tra i due, specialmente circa i sensi di colpa di Beth. Ma come
sempre, ho pensato di optare per qualcosa di più breve e
diretto, in pieno stile Dixon (o almeno, ce se prova). Spero vi
piaccia! Qualsiasi cosa ne pensiate, specialmente se negativa, per
favore, ditemelo. Perché ho notato che non ricevo
più molto feedback e il primo pensiero che mi viene
è di aver sbagliato qualcosa (sono un'insicura cronica).
Quindi, davvero, se secondo voi c'è qualcosa che non va non
fatevi problemi a dirmelo; ci tengo molto a questa storia e, se vi sono
errori, vorrei rimediarvi o comunque tornare sulla retta via con la
narrazione. Scusate il momento lagnoso ahahahah
Ringrazio chi segue questa storia, chi l'ha messa tra le preferite e
ricordate; anche chi legge soltanto :)
E nulla, sperando che la sessione estiva non mi risucchi di ogni
energia, ci sentiamo - presto - al prossimo aggiornamento.
Un abbraccio,
Blakie