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Autore: Blakie    06/06/2016    9 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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And we'll be good 8

And we'll be good
capitolo 8

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Rimasi letteralmente paralizzata dal senso di colpa e dal dolore. Il tempo aveva smesso di avere un senso. Mi raggomitolai sul divano, guardando il vuoto, chiudendo il mondo fuori. Glenn e Maggie parlavano, ma la loro voce era lontanissima, mentre gli unici pensieri che ero in grado di produrre si rincorrevano in circolo nella mia testa.
Noah è morto.
Noah non c'è più.
Noah se n'è andato.
È stata colpa mia.
Se non mi avesse sostituito sarebbe ancora vivo.
L'ho ucciso.
Riuscivo a darmi la colpa nonostante Glenn mi avesse detto chiaramente che Noah era morto perché Nicholas aveva fatto il codardo. I miei occhi erano fissi sul suo volto, mentre mi metteva al corrente dell'accaduto, ma non vedevo nulla. Ero spenta. Sarei dovuta uscire da quella porta e avventarmi su Nicholas, prenderlo a pugni finché non mi fossi ritenuta soddisfatta, ma la rabbia che montava dentro di me non bruciava che per me stessa. Il rimorso mi aveva serrato le viscere in un nodo indissolubile. Non riuscivo a parlare, a piangere, a mangiare. La febbre mi si alzò un paio di volte, nell'insieme di quelle ore senza logica: furono gli unici momenti in cui riuscii a dormire un po'. Ma il sollievo e quel poco di pace provati mentre ero incosciente mi abbandonavano non appena riaprivo gli occhi nella vita reale. Quel nodo doloroso non si scioglieva.

«Beth, se domani stai meglio, organizziamo una commemorazione per Noah ed Aiden», mi informò ad un certo punto Maggie. Era piegata sulle ginocchia, di fronte a me - ancora abbandonata sul divano - e mi accarezzava il viso con dolcezza. 

La mia unica risposta fu un cenno debolissimo del capo. Maggie sospirò e si alzò, lasciandomi sola. Un funerale simbolico, perché Glenn e gli altri non erano riusciti a recuperare i corpi di Noah e Aiden, sbrindellati dai vaganti.
Arrivò il momento della funzione. Mia sorella mi aiutò ad alzarmi dal divano, a darmi una rinfrescata e a vestirmi. Mi trascinò sottobraccio fino al piccolo cimitero collocato vicino alle mura, dove i nomi dei miei amici scomparsi erano già stati aggiunti a quel memoriale di acciaio. La gente di Alexandria era riunita attorno a due croci che erano piantate su due fosse vuote. Io ero circondata dalla mia famiglia, di cui avvertivo gli sguardi preoccupati tutti su di me. 
La mia attenzione, però, era rivolta alla parte opposta alla mia. Osservai Deanna, devastata, accasciata contro Reg. Lo sguardo dell'uomo era colmo di dolore gravitava dalla croce di Aiden a quella di Noah. Il pensiero di quanto lui e il mio migliore amico si fossero avvicinati in quei mesi, per rendere Alexandria ancora più sicura, mi fece tremare il cuore. Reg aveva perso due figli, non uno solo. 
Accanto a Spencer che, come me, piangeva la perdita di un fratello, si trovava Nicholas. Se il mio sguardo fosse stato in grado di ucciderlo, quel bastardo si sarebbe accasciato al suolo in quel momento. Vederlo di persona fece esplodere l'odio che, fino a quel momento, avevo rivolto solo a me stessa. Incrociò la mia occhiata torva, abbassando lo sguardo immediatamente, come il verme che era. 
Tornai a fissare la croce di Noah, mentre la predica di padre Padre Gabriel era l'unico sottofondo a quel silenzio. Mi sfiorò il debole pensiero di dire qualcosa a Deanna, dirle che mi dispiaceva, ma non ne avevo la forza. Come potevo confortarla, se io per prima ero distrutta? 
Quando il funerale terminò,
mi diressi a casa mia, tra le deboli proteste di mia sorella. Quando entrai non mi tolsi nemmeno il vestito; ignorai Maggie, che mi aveva accompagnata, e mi trascinai su per le scale, infilandomi sotto le coperte, a luci spente e chiudendo il mondo fuori. Provò a convincermi a scendere, a mangiare qualcosa, a stare in compagnia con la nostra famiglia: non ne volli sapere. 
Non era difficile immaginare perché fosse così preoccupata per me e perché non volesse lasciarmi da sola: temeva che ricadessi nello stato catatonico che mi aveva colpita quando la mamma era uscita dal fienile come vagante. Temeva che volessi di nuovo farla finita. 
Beh, si sbagliava. Il rimorso era talmente opprimente che non avrei mai trovato la forza di suicidarmi: sarebbe stato come mancare di rispetto a Noah, che era morto per colpa mia. Sarebbe stato troppo facile rinunciare a tutto e liberarmi di quel dolore: dovevo sopravvivere e trascinarmi dietro quello sbaglio – e la sofferenza che ne conseguiva – per tutta una vita, perché era quello che mi meritavo.
 
Dentro di me, molto in profondità, sapevo che prima o poi sarei riuscita a rialzarmi, a scrollarmi di dosso quella apatia, ad affrontare il mio dolore e i miei rimorsi. Ma era ancora troppo presto per riuscire a reagire.
Nascondermi sotto le coperte, al buio, mi riempì di sollievo. Lì non dovevo fingere di poter sopportare tutto quello, non dovevo confessare quanto in colpa mi sentissi, non dovevo sostenere e affrontare lo sguardo angosciato di chi mi voleva bene. Potevo elaborare la cosa, o almeno provarci, a modo mio.
Le ore ripresero a dilatarsi in maniera sconnessa e lenta. Quando, non so quanto tempo dopo, scesi per bere un bicchiere d'acqua, trovai la cucina immersa nella penombra fredda del tramonto. Il piano di sotto era deserto e silenzioso: Maggie se n'era andata, e ne fui sollevata. Non aveva senso che restasse lì e io volevo stare da sola.
Portai con me una bottiglia d'acqua, mi imposi di indossare qualcosa di comodo e mi rintanai nuovamente sotto le coperte, persa nell'oblio della mia mente. Mi addormentai a più riprese, il mio sonno disturbato dall'incubo di Noah divorato in modi diversi. Quando non ero incosciente, tenevo gli occhi fissi su un punto imprecisato davanti a me, o li chiudevo, senza riposare. 
Molte ore dopo, Maggie bussò appena prima di entrare in camera mia, chiedendomi con dolcezza se volessi fare colazione. Aprii gli occhi e li fissai sulla finestra che, con gli scuri semi accostati, faceva filtrare la luce del mattino. Un'altra notte era passata.

«Ehi, Bethy», mi chiamò, sedendosi sul bordo della parte di materasso in cui mi ero rannicchiata. Non risposi.

Mia sorella sospirò, prendendo ad accarezzarmi la nuca con fare materno. «Beth, tesoro, parlami. Non tenerti tutto dentro. Io sono qui, per te, siamo tutti qui per te, lo sai questo?», domandò in un mormorio, guardandomi con lo sguardo pieno di tristezza. 

La guardai, senza muovermi di un centimetro. Mi sforzai in ogni modo di trovare la forza di parlare: non per raccontarle come mi sentivo, ma semplicemente per assicurarle che non doveva preoccuparsi, che mi sarebbe passata... Ma non ci riuscii. Non mi sentivo in grado di parlare, ma forse potevo trovare ugualmente un modo per risponderle, per farle capire che la sentivo e che avevo capito. Con lo sguardo ancora legato al suo, annuii. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato, ma gli occhi erano pieni di sollievo. Mi accarezzò nuovamente, fermandosi poi con il palmo contro la mia guancia. Mi studiò per qualche istante, in silenzio.

«Beth, tu... non è come alla fattoria, vero?», mi chiese, cercando di non sembrare troppo in ansia. 

Il mio sguardo, senza che potessi controllarlo, corse al mio polso sinistro, che riposava sul cuscino: osservai la cicatrice rosea e chiarissima che era rimasta, là dove avevo usato un frammento di specchio per tentare farla finita. Scossi il capo, continuando a fissare la linea che mi segnava la pelle.

«Vuoi che rimanga al piano di sotto, così se hai bisogno sono più vicina?». Mia sorella aveva capito che riuscivo a comunicare solo tramite domande alle quali potevo annuire o negare, senza aprire bocca. 

Scossi nuovamente il capo. 

Lei si chinò verso di me, lasciandomi un bacio sulla tempia. «Quando vorrai parlarne, sai dove trovarmi», mi ricordò con dolcezza, alzandosi e allontanandosi da me. Aprì la porta e mi osservò per qualche istante, prima di andarsene. 

Sperai che rispettasse davvero il mio volere e che mi lasciasse sola. Non avevo bisogno d'altro. Dovevo capire come superare quel vuoto che sentivo, come convivere con il senso di colpa. Il dolore che mi portavo dentro era immenso, eppure non riuscivo nemmeno a sfogarlo con un pianto o qualche reazione che mi rimettesse finalmente in connessione col mondo esterno.
Per quell'aspetto, quello che stavo passando era simile all'apatia che mi aveva costretta sul mio vecchio letto, dopo la fine di mia madre. Questa volta, però, avevo altri motivi per vivere. Il primo fra tutti era proprio Noah. Sarei stata un'ingrata a farla finita dopo che lui era morto per avermi sostituita. Mi sarei rialzata e avrei difeso casa nostra, onorando la sua memoria. Dovevo solo capire come fare. Come smettere di incolparmi per la morte del mio migliore amico, come affrontare il dolore.
Riuscii a dormire un paio d'ore nel pomeriggio, andai in bagno e bevvi un po' d'acqua per mantenermi idratata. Era più facile fare certe cose, se nessuno mi guardava. Non mi sentivo ancora pronta ad affrontare la mia famiglia, non volevo che si concentrassero tutti su di me. Non mi sentivo pronta a condividere il mio dolore con loro. Nell'intimità e nella solitudine di casa mia, invece, mi sentivo più libera. "Riposare" così tanto, inoltre, mi aveva fatto passare del tutto l'influenza. Un altro giorno trascorse, finché la luce fuori dalla finestra non lasciò spazio ai colori della sera.
Mi ero appena rimessa a letto dopo aver mangiato un po' della frutta secca che tenevo in cucina, quando sentii dei rumori provenire dal piano di sotto: qualcuno stava bussando. Chiunque fosse, sperai ardentemente che desistette e se ne andasse. Quando iniziai a ragionare su chi potesse essere, sentii la porta aprirsi e richiudersi. Solitamente la chiudevo a chiave, ma, pensa com'ero, mi era proprio passato di mente.
Forse Maggie, passando di lì per qualche ragione, mi aveva vista in cucina. Magari aveva pensato che mi sentissi meglio, se avevo trovato la forza di alzarmi e mangiare. Non mi venne in mente nessun altro. Avvertii una specie di rabbia montarmi da dentro, pensando all'eventualità che mia sorella non avesse tenuto in considerazione ciò che le avevo detto. Non volevo parlare, non stavo meglio: che diavolo ci faceva in casa mia?
Sentii dei passi salire le scale: quel suono fu talmente angosciante, nel buio della mia camera che, per un secondo, venni sopraffatta dalla paura che potesse essere qualcuno con cattive intenzioni. Allungai una mano verso il coltello che, riposto nella sua fodera, troneggiava sul mio comodino: lo afferrai e lo nascosi sotto il cuscino, spinta da un'irrazionale paura.
Quando udii bussare anche sulla porta di camera mia, mi tranquillizzai: se fosse stato un malintenzionato, sarebbe entrato senza troppe cerimonie. Sospirai, sollevata, prima che il senso di fastidio tornasse alla carica.

«Vattene, Maggie», sbottai, con una voce che non sembrava nemmeno la mia. 

Tutto quel tempo passato nel mutismo aveva reso le mie corde vocali stanche. Il suono uscito dalle mie labbra risultò flebile e leggermente roco. 
Subito non ricevetti risposta. Notai solo il fascio di luce che proveniva dal vano della porta e che aveva appena rischiarato le ombre nella mia stanza. Poco dopo, tornò la penombra e udii la porta chiudersi piano. Alzai la testa dal cuscino, per allungare il collo oltre la coperta e accertarmi se Maggie se ne fosse andata. 
Riconobbi i suoi tratti anche nella semi-oscurità ed ebbi un tuffo al cuore: Daryl mi osservava, muto, in piedi vicino alla porta che aveva appena chiuso. 

«Sono io», rispose in tono basso, dicendo l'ovvio. 

Posai nuovamente la testa sul cuscino e mi tirai la coperta fin sopra i capelli. All'improvviso, venni travolta dal panico: che cosa ci faceva lì? Non volevo che mi vedesse in quelle condizioni, che mi guardasse, che mi parlasse. Mi vergognavo troppo di me stessa. Ero una ragazzina debole, come mi aveva sempre considerata lui; non volevo dargliene l'ennesima prova. Sarebbe stata un'umiliazione, farmi vedere in quello stato. Udii i suoi passi leggeri aggirare il mio letto e raggiungermi dal mio lato; sentivo la sua presenza al mio capezzale, nonostante ci fosse la coperta a dividermi da Daryl e il mondo esterno, come una barriera.

«Beth», mi chiamò, con la voce ferma e grave. Mi raggomitolai ancora di più su me stessa, e Daryl notò il mio movimento, perché, a quel punto, la sua voce mi arrivò più vicina. «Guardami, Beth», ritentò, e lo sentii afferrare il lembo di coperta sopra la mia testa. 

«No», mormorai, schiacciando il mento contro il petto e coprendomi il volto con le mani nello stesso momento in cui lui mi riportava la coperta sopra le spalle. 

Il vuoto dentro di me era talmente grande che non riuscii nemmeno a rendermi conto che Daryl era tornato dalla sua spedizione e che stava bene. Non provavo niente, niente che non fosse vergogna. 

«Vai via, Daryl», sussurrai, senza forze, il viso ancora nascosto tra le mie dita. 

«Puoi scordartelo, ragazzina», replicò, con voce un po' più alta. 

Forse sperava di suscitare la mia stizza, chiamandomi in quel modo. Credeva che sarebbe riuscito a farmi reagire, ma alla fine fu come se non avesse aperto bocca. Forse potevo fare lo stesso con lui. Se lo avessi fatto arrabbiare, probabilmente se ne sarebbe andato e mi avrebbe lasciata stare. Dovevo sforzarmi di rispondergli male. 

Aggrottai le sopracciglia e mi scoprii il volto, provando ad affilare lo sguardo come meglio potevo. «Non ho intenzione di suicidarmi, se è questo che temi anche tu. Chiaro? Perciò vattene, ora, e lasciami in pace», sputai flebilmente, guardandolo negli occhi. 

Daryl non batté ciglio, né si scompose. Si era seduto alla mia altezza, con la schiena contro il muro dietro di noi, un ginocchio alzato per sostenersi il braccio e il volto verso di me. Continuò a fissarmi coi suoi occhi illeggibili, che riuscivano ugualmente a risaltare nell'oscurità. Mi aspettai che si incazzasse, che mi insultasse, che se ne andasse, invece non fece nulla. Il suo sguardo che scavava nel mio mi spaventava a morte. Stava abbattendo ogni barriera che avevo alzato tra me e il resto, mi rendeva nuda e vulnerabile. Eppure, non riuscivo a guardare da un'altra parte.

«Vai via, Daryl. Vai via». Questa volta, dalle mie labbra, uscì una supplica. Avvertii un nodo chiudermi la gola; gli occhi, ancora fissi nei suoi, si inumidirono. 

Eccolo, il dolore che non ero ancora riuscita ad esternare. Mi si aprì nel petto tutto in una volta, espandendosi in ogni mia cellula, scacciando il vuoto e facendomi sentire tutto. E tutto questo perché c'era Daryl, a vegliare su di me. 

«D-Daryl», tentai ancora, ma il suo nome si spezzò in gola e si trasformò in un singhiozzo disperato. Il primo di tanti. 

Fece scivolare una mano sul materasso, lentamente, prendendo la mia. Sussultai, guardando prima le nostre mani intrecciate, poi lui. 

Era lì, con me. Per me. Fu quella, la consapevolezza che mi fece crollare.

Come mille altre volte, in sua presenza, mi sentii al sicuro. Protetta. Potevo finalmente piangere, affrontare il dolore, combattere il rimorso, se c'era lui al mio fianco. Il baratro in cui avevo rischiato di cadere... riuscivo finalmente a vederlo: era lì, a pochi passi da me, ma la mano salda di Daryl era stretta alla mia, per impedirmi di scivolarci dentro. Mi raggomitolai ancora di più, aggrappandomi alla sua mano con le mie, premendo la fronte contro il nostro groviglio di mani.
Scoppiai a piangere, con un singhiozzo che provocò una fitta dolorosa al petto. Fu straziante e liberatorio, in egual misura, sentire finalmente le lacrime bruciarmi sulle guance e bagnare il cuscino, i sussulti scuotermi il petto, la sofferenza scivolare in parte fuori da me e divenire più sostenibile, dentro al mio cuore. Daryl mi aveva salvata, ancora una volta. Era incredibile il fatto che non fossi riuscita ad aprirmi con mia sorella, così dolce e materna, ma ci riuscii con Daryl, che non era certo maestro di tatto. Forse, fu proprio la sua solidità a darmi la forza di sfogarmi, finalmente. Con lui non dovevo preoccuparmi di ricevere compassione o pietà: avrebbe compreso il mio dolore, mi sarebbe stato vicino, ma senza soffocarmi. 
Non disse una parola, continuò solo a tenermi la mano, senza allentare mai la presa. Quella crisi di pianto mi aveva totalmente stravolta: piansi per ore, finché non crollai, esausta, ancora aggrappata alla mano di Daryl. Col petto finalmente libero da quello strazio che mi aveva tormentata per giorni, riuscii a dormire profondamente. 
Mi risvegliai supina, un paio d'ore dopo. Superato l'annebbiamento iniziale, spalancai gli occhi e mi rizzai a sedere, allarmata. Mi guardai attorno, ritrovandomi immersa nel buio soffocante della mia camera. Abbassai lo sguardo sulla mia mano destra, libera dalla stretta di Daryl. L'uomo non era più al mio fianco, seduto per terra accanto al mio letto.  
Confusa, spostai lo sguardo alla finestra: là fuori era ancora buio, probabilmente era notte fonda. In effetti, Daryl era arrivato a casa mia piuttosto presto, non più tardi delle sette, otto di sera... Guardando meglio, però, notai che il vetro era aperto. Mi domandai come non riuscii ad accorgermene prima, visto che entrava l'aria fredda della notte. 
Rabbrividii e mi alzai, avvicinandomi alla finestra. Scorsi la sagoma di Daryl, bellamente accomodato su quella porzione di tetto e mi sentii subito sollevata: non se n'era andato. Prima che si accorgesse che mi ero svegliata, decisi di andare in bagno per darmi una rinfrescata al viso. Mi sentivo gli occhi pesti, secchi e l'acqua fredda in faccia non mi avrebbe fatto che bene. 
Quando uscii,
mi avvolsi nel plaid che tenevo sulla testiera del letto e mi affacciai alla finestra.
Eravamo circondati dal silenzio della notte e, nonostante la situazione, essere lì assieme a Daryl mi faceva sentire più serena. Almeno un po'.

Mi schiarii la voce, sperando che non uscisse troppo impastata. «Cosa ci fai qua fuori?», gli domandai in un sussurro, per non rovinare quell'atmosfera. 

Lui non sobbalzò, né si voltò, anche se di sicuro mi aveva sentita. Rimase semplicemente a fissare il vuoto davanti a sé, mentre io attendevo con ansia che volgesse la sua attenzione a me. A dirla tutta, mi intimidiva incontrare il suo sguardo, ora che ero più lucida: mi aveva vista crollare e ci eravamo tenuti per mano, a lungo. Non sapevo cosa pensasse di tutta quella storia e mi intimoriva l'idea di scoprirlo. Di nuovo quella irrazionale paura di non essere abbastanza forte ai suoi occhi. 

Si voltò lentamente verso di me e si strinse nelle spalle. «Avevo il culo piazzato sul tuo pavimento da qualcosa come quattro ore. Dovevo sgranchirmi».

Mi scappò un sorriso, senza che potessi farci nulla, e la cosa mi sorprese: era la prima volta, da quando avevo perso il mio migliore amico, che mi veniva spontaneo sorridere. Era sincero, inaspettato e non serviva certo a rassicurare la persona con cui stavo parlando. Senti il cuore accelerare il suo battito, sempre più meravigliata da quello che Daryl era in grado di fare per me, senza nemmeno rendersene conto.
Facendo attenzione, scavalcai il davanzale, sistemando meglio la coperta in modo che non mi fosse di intralcio, e strisciai lentamente affianco a lui. Mi resi subito conto che il tetto, in quel punto, era abbastanza piano; sarebbe stato possibile scivolare di sotto solo se l'avessi voluto. 

«Vai dentro, se hai freddo», mi redarguì Daryl, continuando a guardare un punto imprecisato davanti a sé.

«No, sto bene», lo rassicurai, stringendo di più la coperta attorno al mio corpo. 

Rimanemmo in silenzio per un po', immersi nel buio e nella frescura notturna. Daryl finì di fumare la sua sigaretta e la lanciò nel vuoto, con un rapido movimento del braccio. Io continuavo a stare in silenzio, a capo chino, persa nei miei pensieri. Per la prima volta, dopo giorni, riuscii a pensare a qualcosa di diverso dai miei sensi di colpa, dalla mia sofferenza e da Noah. Mi stavo domandando perché Daryl fosse rimasto e non se ne fosse semplicemente andato una volta accertatosi che mi ero addormentata. Avrei voluto chiederglielo, ma non volevo tirare fuori un argomento che, di sicuro, lo avrebbe messo a disagio. Qualsiasi fosse stata la sua motivazione, sapevo che difficilmente ne sarei stata messa al corrente.
La cosa più sorprendente, in realtà, fu l'incredibile e improvviso bisogno di parlargli di come mi sentivo. Uno strano formicolio mi corse lungo le braccia e le mani, mentre avvertivo dentro di me una strana agitazione. Non potevo più tacere a riguardo, o sarei crollata. Inoltre, mi sentivo in dovere di giustificare il mio comportamento degli ultimi tre giorni: volevo fargli capire che i miei non erano i capricci di una ragazzina incapace di accettare che esiste anche la morte. 
Il mio era il dolore paralizzante di chi si sentiva responsabile. E chi, meglio di Daryl - che si era incolpato persino per la caduta della prigione e per la morte di mio padre - poteva capirmi? 

«È stata colpa mia», confessai, in un sussurro. Senza rendermene conto, mi avvicinai di più a lui. Ormai le nostre spalle si toccavano. 

Lo sentii voltarsi verso di me e guardarmi. «Cosa?», domandò Daryl, in tono basso.

«Noah». Pronunciare il suo nome mi provocò una fitta al cuore. Non lo avrei rivisto mai più; cielo, non lo avrei rivisto davvero più.

«Non dire cazzate, Beth», ribatté.

«È la verità», protestai stancamente.

«No, non è la verità. Glenn mi ha raccontato la verità: è stata tutta colpa di quel figlio di puttana», ribatté, riferendosi a Nicholas, «e di nessun altro».

«Noah ha preso il mio posto», ribattei con più energia, voltandomi verso di lui. «Sarebbe ancora vivo, se non avesse partecipato a quella spedizione».

Daryl mi osservò qualche istante, con la sua espressione seria e imperscrutabile. «Questo discorso non ha senso», sentenziò, infine.

Rimasi in silenzio, senza rispondere subito. Osservai il suo profilo, i capelli appena mossi dal vento e lo sguardo saldo. Mi sentii stupida per aver temuto la sua reazione di fronte al mio crollo. Daryl non spiccava per delicatezza, ma non era insensibile quanto voleva far credere. Meditai sulle sue parole: anche se potevano sembrare una conclusione affrettata, detta tanto per tirarsi fuori dalla conversazione, mi resi conto che non era così. A mente fredda, mi rendevo conto anche io che sarei potuta andare avanti all'infinito, controbattere a qualsiasi cosa mi avesse detto, ma non sarebbe servito. La realtà era quella e discuterne, provando a cambiarla, non avrebbe modificato o cancellato ciò che era successo. 
Di chiunque fosse stata la colpa, Noah ed Aiden erano morti. 

«Lo so», annuii dopo un po', stringendomi nel plaid, «So che non posso incolparmi per essermi ammalata. So che, se Nicholas non avesse fatto il vigliacco, probabilmente non sarebbe successo. So che Noah ha fatto il suo dovere, come tutti noi. So che, come tutti noi, conosceva i rischi che comporta lasciare le mura. So tutte queste cose, eppure...», mi interruppi, mentre la gola mi si stringeva in un nodo doloroso e gli occhi mi si riempivano di lacrime. «Eppure non riesco a smettere di pensare che, se fossi andata io al suo posto, lui sarebbe ancora vivo». Le parole si spensero in un sussurro, mentre una lacrima mi rigava la guancia. Abbassai lo sguardo per nascondermi da Daryl e l'asciugai in fretta, raccogliendo le ginocchia al petto. Il silenzio calò nuovamente, finché non venne spezzato

«Beth, è andata come doveva andare. Non farti del male addossandoti colpe che non hai», disse, con un tono gentile che non gli avevo mai sentito usare.

Alzai il viso e incontrai i suoi occhi, che mi guardavano come se volessero scavarmi dentro. Come se cercassero nuovamente il modo di tenermi aggrappata a lui, per non lasciarmi cadere. Era convinto di quello che mi stava dicendo, ci credeva davvero. Anche se in una maniera piuttosto contorta, mi aveva detto che non voleva che soffrissi. Avrebbe potuto riempirmi di attenzioni, di parole, di incoraggiamenti, ma mi bastava guardarlo negli occhi per avere tutto quello, tutto insieme. Perdendomi nel suo sguardo, le paure mi davano fiato e il dolore si allentava. Spesso io e Daryl eravamo lontani fisicamente, ma con nessun'altra persona che non fosse parte della famiglia, mi ero sentita tanto vicina; e poco importava che ci toccassimo appena. Non avrei scambiato ciò che provavo e che mi legava a Daryl con nient'altro al mondo.
Quando un nuovo singhiozzo scosse il mio petto, mi sbilanciai appena verso di lui, appoggiando il capo nell'incavo della sua spalla. Subito lo sentii irrigidirsi, mentre gli sfioravo la pelle del collo con la  mia fronte. Avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me e inspirare il suo odore forte e avvolgente; non mi importava che non fosse espansivo, che non usasse troppe parole o gesti affettuosi. 
Le lacrime continuavano a scivolare sulle mie guance, ma era un pianto più silenzioso e composto rispetto a prima. Non ero più offuscata dal dolore, ma ero consapevole di quello che era successo alla persona per cui stavo versando quelle lacrime. Stavo finalmente facendo spazio alla sofferenza, accettandola, rendendola parte di me.
Quando il mio corpo fu scosso da un brivido di freddo, mi accorsi che la coperta, vista la mia postura sbilanciata verso destra, mi aveva lasciato una spalla scoperta. Non feci in tempo a sistemarla, che Daryl afferrò quel lembo di plaid, me lo risistemò addosso e usò quel gesto come scusa per stringermi un po' di più a sé. Sorrisi tra me e me, facendomi ancora più vicina a lui. 

«Hai freddo?», bisbigliai, in un confuso tentativo di offrirgli una parte di coperta.

«No», rispose, ma la sua voce mi sembrò più roca e il suo respiro più irregolare del normale. 

«Neanche io», dissi, prima di voltarmi nuovamente col viso verso il suo collo. 

Avrei voluto fermare il tempo e restare così per sempre, in quell'istante solo nostro e lontani da tutto. Se ne avessi avuto il coraggio, avrei posato le labbra sulla sua pelle, gli avrei parlato a cuore aperto, gli avrei chiesto perché era rimasto con me. Gli avrei chiesto quali sentimenti si nascondevano dietro a tanti suoi gesti che non avevo compreso chiaramente, ma per il momento andava bene così. Volevo aspettare di essere più lucida, se mai avessi desiderato affrontare quell'argomento che avevo sempre cercato di evitare. Avrei messo le carte in tavola un'altra volta. 
L'abbraccio di Daryl era così caldo e accogliente che, ad un certo punto, nonostante la temperatura non proprio favorevole, mi appisolai. Quando se ne accorse, mi riscosse appena e mi disse di andare a dormire. Leggermente insonnolita, mi allontanai da lui e mi stropicciai gli occhi, attenta a mantenermi in equilibrio sul tetto. Mi aiutò a scavalcare il davanzale e rientrò in camera mia dopo di me. Richiusi la finestra e ci ritrovammo l'uno di fronte all'altra, a fissarci in silenzio nella penombra della mia stanza. Sentivo che avrei dovuto dire qualcosa, ma non trovavo le parole e non riuscivo a capire perché. Per quanto avessi voluto ringraziarlo, dalla mia bocca non uscì un suono. Mi limitai semplicemente a sostenere il suo sguardo.

«Sarà meglio che vada», proferì Daryl, interrompendo il silenzio. 

Avvertii il mio cuore sussultare e un opprimente senso di vuoto aprirsi nel mio stomaco: no, non volevo che se ne andasse. Se lo avesse fatto, gli incubi avrebbero preso di nuovo il sopravvento e il senso di colpa mi avrebbe nuovamente impedito di dormire. O di svegliarmi e scendere dal letto la mattina seguente. L'alba doveva ancora arrivare e non ce l'avrei fatta ad affrontarla senza Daryl al mio fianco. Promisi a me stessa che quella sarebbe stata l'ultima notte di apatia: mi sarei rialzata assieme al nuovo giorno, ma avrei avuto bisogno di lui, per farlo. Era un pensiero del tutto irrazionale, lo sapevo bene, ma non potevo fare a meno di volere l'arciere con me. 

«No!», proruppi, sentendomi subito in imbarazzo, davanti alla sua occhiata perplessa. Presi un respiro profondo e cercai di controllare i battiti impazziti del mio cuore. «Resta con me», sussurrai.

«Beth...», cercò di protestare lui. 

«Ti prego. Solo per stanotte», bisbigliai, imponendo a me stessa di sostenere il suo sguardo.

Rimanemmo in silenzio, lasciando che fossero soltanto i nostri occhi a comunicare. Come sempre. Dopo un tempo che a me parve infinito, Daryl sospirò, pesantemente; non so cosa lesse nella mia espressione, ma lo convinse. Borbottò un «che seccatura» e mi superò, tornando a sedersi dove si era sistemato per tutte quelle ore, per terra accanto al mio letto. Io lo guardai, e rimasi immobile dov'ero. Non era proprio quello che intendevo...

«Cosa c'è adesso?», berciò, spazientito.

Deglutii, prima di trovare il coraggio di parlare. «Sei scomodo, seduto lì».

«Sei tu che mi vuoi qua», mi fece presente in modo ostile, allungando le gambe e incrociando le braccia al petto. 

«Non voglio che stai per terra. Ci sei stato anche troppo», temporeggiai, in difficoltà.

«Cristo, Beth, deciditi. O ti metti a dormire, o me ne posso anche--».

«Puoi dormire nel letto, con me», lo interruppi, tutto d'un fiato. Non potevo credere di averglielo proposto davvero. Nemmeno Daryl riusciva a capacitarsene, vista la sua espressione: mi guardava, gli occhi spalancati e le spalle rigide. Nonostante la penombra, notai che stava stringendo un pugno. 

«Non se ne parla, Beth», affermò, con asprezza. 

Aggrottai le sopracciglia. «Perché? Cosa ci sarebbe di male?», replicai, ritrovando un po' di sicurezza.  

«Non posso dormire con te».

Incrociai le braccia al petto, irritata. «Abbiamo già dormito insieme, quando siamo scappati dalla prigione», gli ricordai.

«Non è la stessa cosa», obiettò, con la sua espressione illeggibile. Era nervoso, quasi imbarazzato, e quello non poté nasconderlo. Il suo corpo parlava per lui, non servivano i suoi occhi per capirlo. Pensai che dietro al suo rifiuto, ci fosse lo stesso motivo che lo aveva spinto a rimanere con me; a tenermi la mano; a tornare da me a scusarsi, quella sera in cui avevamo litigato e io mi ero ubriacata; a tutti quei gesti che volevano allontanarmi, ma che avevano sortito l'effetto opposto.
Daryl si sentiva così a disagio all'idea di dormire con me, la rifiutava così fermamente, perché... forse perché non gli ero indifferente. Avrei potuto credere che fosse perché non mi sopportava, ma, in quel caso, non si sarebbe preso la briga di venire fino a casa mia, di sostenermi durante il mio crollo, di rimanere anche dopo. Ci teneva a me. Forse Noah non aveva avuto tutti i torti, tutte le volte che, dietro a una battuta, aveva nascosto la convinzione che l'arciere provasse qualcosa per me. Sarei potuta andare avanti con quel botta e risposta, chiedergli spiegazioni, ma ero stanca, e avevo solo bisogno di sentirlo vicino a me. 

«Ti prego, Daryl», ritentai, addolcendo il tono e abbandonando il tono di sfida. «Mi basta che rimani finché non mi addormento, poi puoi anche andartene», negoziai, incurvando le spalle. 

Lui grugnì e alzò gli occhi al cielo, rimettendosi in piedi con fare svogliato. «Forse sarei dovuto andarmene quando me l'hai chiesto», borbottò, cercando di sgranchirsi il collo. Sentii un sorriso enorme aprirsi sulle mie labbra e il cuore aumentare il suo ritmo. Sarebbe rimasto con me; qualsiasi incubo mi avesse tormentata quella notte - o quello che ne rimaneva, non sapevo più che ore fossero - Daryl ci sarebbe stato. Non avrei affrontato l'arrivo del mattino da sola. Leggermente imbarazzata, mi avvicinai al bordo del letto dove dormivo di solito e mi sedetti, lanciando il plaid in fondo al letto. Evitai di guardare Daryl, mentre si toglieva gli scarponi e si buttava senza grazia sul materasso, facendomi rimbalzare appena. Mi sistemai sotto le coperte, supina, fissando lo sguardo al soffitto. Gli lanciai un'occhiata veloce, notando che era rimasto sopra le coperte e seduto, con la schiena appoggiata alla testiera del letto.

«Se hai freddo--», iniziai, ma lui mi interruppe.

«Dormi», mi ordinò, incrociando le braccia al petto. 

Cercai il suo sguardo nel buio, per lanciargli un'occhiataccia, ma sembrò non notarla nemmeno. Appoggiò la nuca alla testiera e chiuse gli occhi, inspirando profondamente. 

Io tornai a fissare il soffitto, la mente completamente sgombra per la prima volta dopo giorni. Sentivo una strana frenesia percorrermi da capo a piedi, che mi impediva di abbassare le palpebre e cercare il sonno. L'unica cosa a cui riuscivo a prestare attenzione era il calore del suo corpo vicino al mio, al suo respiro regolare che era l'unico rumore nel silenzio della notte. Era insopportabile l'idea di averlo così vicino a me, di essere da soli e non poterlo stringere. I sentimenti che provavo nei suoi confronti stavano iniziando a crescere in maniera ingestibile, non avrei potuto fare finta di niente ancora a lungo. Specialmente perché una piccola parte di me era convinta che Daryl sapesse, ma che avrebbe cercato in tutti modi di evitare l'argomento. 
Volsi lo sguardo a lui, attenta a non farmi scoprire: aveva ancora gli occhi chiusi e dentro di me ne gioii, così avrei potuto osservarlo. Osservai il suo profilo, la linea del suo mento, la frangia che gli copriva gli occhi, i muscoli delle braccia che risaltavano. Dio solo sa quanto avrei voluto toccarlo. Trattenendo il respiro e cercando di muovermi senza farlo tornare vigile, mi avvicinai a lui. Mascherai il movimento fingendo di sistemarmi meglio sul materasso, sperando che non si accorgesse di quanto fossero ora vicini i nostri corpi. Quando fui certa del fatto che avesse ancora le palpebre serrate, mi feci ancora più vicina. Aspettai qualche secondo per trovare il coraggio e, ignorando il cuore che mi batteva all'impazzata nel petto, mi raggomitolai contro Daryl, sprofondando col volto nel suo fianco. Lo sentii irrigidirsi subito.

«Beth», mi ammonì, ma con meno energia di prima.

Io non dissi nulla: chiusi semplicemente gli occhi, ignorando la sua protesta. Sorprendentemente, non insisté, né mi allontanò: rimase fermo, lasciandomi accoccolata a lui. Avrei voluto vedere l'espressione che aleggiava sul suo volto, ma non ero intenzionata a muovermi nemmeno di un centimetro. Con il calore di Daryl attorno a me, ben presto mi rilassai e il sonno mi trascinò dolcemente a sé. Non ebbi incubi, né mi agitai durante quel che rimaneva di quella lunga notte. 

Aprii gli occhi nel chiarore del primo mattino: per la prima volta dopo giorni, non fu un senso di oppressione al petto, la prima cosa che avvertii appena sveglia, ma il calore di Daryl ancora accanto a me. Il suo braccio, che mi offriva protezione, posato delicatamente sulla mia schiena. 

Non se n'era andato.
















| Nota autrice |

Non ho molto da dire su questo capitolo, se non che è arrivato dopo due mesi dall'ultimo e che ho fatto una fatica immane a scriverlo. E che è più corto del solito.  In realtà, non sono nemmeno troppo soddisfatta del risultato, ma non credo di riuscire a fare di meglio, in un periodo come questo. Sono distratta, bloccata e piena di cose da fare. La mia allegria è pari a quella di Daryl, tanto per intenderci, ahahah.
Sì lo so, capitolo triste e super deprimente, ma almeno abbiamo una piccola svolta tra 'sti due. All'inizio avevo scritto una cosa un po' diversa, poi ho perso il capitolo, l'ho riscritto ed è uscito così. Avevo in mente più dialogo tra i due, specialmente circa i sensi di colpa di Beth. Ma come sempre, ho pensato di optare per qualcosa di più breve e diretto, in pieno stile Dixon (o almeno, ce se prova). Spero vi piaccia! Qualsiasi cosa ne pensiate, specialmente se negativa, per favore, ditemelo. Perché ho notato che non ricevo più molto feedback e il primo pensiero che mi viene è di aver sbagliato qualcosa (sono un'insicura cronica). Quindi, davvero, se secondo voi c'è qualcosa che non va non fatevi problemi a dirmelo; ci tengo molto a questa storia e, se vi sono errori, vorrei rimediarvi o comunque tornare sulla retta via con la narrazione. Scusate il momento lagnoso ahahahah
Ringrazio chi segue questa storia, chi l'ha messa tra le preferite e ricordate; anche chi legge soltanto :)
E nulla, sperando che la sessione estiva non mi risucchi di ogni energia, ci sentiamo - presto - al prossimo aggiornamento.
Un abbraccio,
Blakie

   
 
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