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Autore: _E r i s_    08/06/2016    4 recensioni
| Prima classificata al contest “Take a picture and never forget” indetto da Sethmentecontorta sul forum di EFP |
"Aveva ricominciato a provare dolore, quella volta, quella in cui il suo mentore, colui che l'aveva spinto ad essere sé stesso e non Rei, aveva ceduto. E lui non voleva provare dolore, non voleva soffrire, non voleva perdere nuovamente tutto. Non era sofferenza fisica, quella non la provava da anni. Era un peso, un fardello all'altezza del petto e del cervello, che premeva incessantemente in lui come a volersi fondere in una consapevolezza atroce. L'aveva avvertita, quella stessa consapevolezza, quel "è successo per colpa tua" nella sua testa. Voleva scappare, aveva sempre voluto scappare."
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Suzuya Jūzō
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: _E r i s_
Titolo: Drawing your life
Fandom: Tokyo ghoul
Genere: malinconico
Personaggi: Suzuya Juuzou.
Rating: verde
Introduzione: "Aveva ricominciato a provare dolore, quella volta, quella in cui il suo mentore, colui che l'aveva spinto ad essere sé stesso e non Rei, aveva ceduto. E lui non voleva provare dolore, non voleva soffrire, non voleva perdere nuovamente tutto. Non era sofferenza fisica, quella non la provava da anni. Era un peso, un fardello all'altezza del petto e del cervello, che premeva incessantemente in lui come a volersi fondere in una consapevolezza atroce. L'aveva avvertita, quella stessa consapevolezza, quel "è successo per colpa tua" nella sua testa. Voleva scappare, aveva sempre voluto scappare."






DRAWING YOUR LIFE



 - Mamma, di che colore è il cielo? - i suoi occhi scarlatti fendevano le tenebre.
La pelle di sua madre era ruvida, non gli piaceva averla così vicina.
- Azzurro, Rei-chan.
- Ed è bello? 
- Certo che lo è, ma è sempre oscurato dalle nuvole.
Aveva alzato gli occhi cremisi su quelli nascosti da due spesse lenti scure della donna, scrutandola con curiosità. Aveva dimenticato del dolore che poco prima aveva avvertito ai polsi, quando quella stessa "mamma" che tanto adorava li aveva infreddoliti con delle dure catene. Non gli piaceva nemmeno indossarle, erano troppo pesanti e lui non era forte, si muoveva a malapena. Ma sua mamma diceva che era necessario, che le catene potevano solo fargli bene e quindi lui, per accontentarla, non proferiva parola. Sorrideva e basta.
- E cosa sono le nuvole? - aveva nuovamente chiesto curioso, stringendosi lievemente nelle spalle per riscaldarsi dal freddo pungente di quella cella. Avvertiva ancora la sensazione appiccicosa del liquido coagulato poco sotto il labbro, lì scottava.
- Nulla. - lei aveva sorriso, ma Rei non comprendeva il perché di quell'espressione.
- Allora perché esistono?
- Per macchiare il cielo, come tu macchi la terra con la tua presenza, Rei-chan.
- Quindi io sono come una nuvola? - era una considerazione infantile, nemmeno lui la comprendeva a pieno e non sapeva il perché l'avesse pronunciata ad alta voce, temendo la risposta di sua mamma. Ma nuovamente quel sorriso sornione si era dipinto su quel volto serafico e scavato dall'età, dalla bruttezza.
- Sì.
Aveva taciuto qualche secondo per metabolizzare quella replica concisa che lo aveva fatto lievemente sobbalzare.
- Allora non sono nulla?
- Esatto.



Sin dall'epoca in cui era solo un infante, una gracile e fievole creatura, la sua irrilevante vita era sempre stata disegnata da una calca di ignoti.
La pitturavano di bianco e di nero, la rendevano grigia, neutra, uniforme alla sua veduta, statica, inalterata man mano che le stagioni passavano e tornavano.
La disegnavano con la grafite, con la lapis, che si sbiadiva dopo poco tempo, pochi anni - la sua ancor più velocemente, dato che il suo disegno vecchio e deforme era stato conservato tra quelle quattro mura ruvide, buie, spoglie e gelide.
Strinse tra le dita lunghe e affusolate la vecchia matita, quella che era riuscito a mantenere, contro le sua aspettative, anche dopo tutti quegli anni passati dalla conclusione delle lezioni all'accademia - nonostante lui si rifiutasse categoricamente di parteciparvi; non sopportava quegli sguardi.
La punta era ormai arrotondata - la utilizzava quasi ogni dì e raramente ricordava di temperarla - e la gomma era pressoché inesistente, consumata e decorata da quel mantello grigio scuro che la grafite cancellata da qualche foglio aveva lasciato come un marchio.
I suoi occhi tondi - quelli tipici dei bambini, eppure lui era sicuro di essere cresciuto almeno un po', lentamente, gradatamente in quegli anni - e di quelle tonalità vermiglie si alzarono verso il cielo ceruleo, quasi a volersi protendere verso esso.
Si posarono delicatamente sui contorni sfumati - quasi fossero stati anch'essi abilmente disegnati da uno sbalorditivo artista - delle nuvole candide, studiando la loro forma astratta.
Da quando la sua vita si era dipinta di colori vivaci - il verde dei prati, il turchese del cielo o anche solamente il dorato e il rosso di quelle sue strambe bretelle -, poco dopo essere stato ritrovato col coltello sporco di cremisi tra le mani, adorava guardare la volta celeste. La riproduceva su quei fogli candidi e scribacchiava in fondo ad essi quella che sarebbe dovuta essere la sua firma, quel "Suzuya Juuzou"  che, scritto a penna, non si sarebbe mai cancellato, era indelebile - chissà se un giorno anche lui sarebbe divenuto un artista, un vero artista, non di morte come chiunque amava definirlo, lì.
Si riconosceva vagamente nelle nuvole, in quelle forme non tangibili dall'aspetto puro - eppure di lui si poteva dir di tutto, che fosse solo uno squilibrato, l'ingenuo e sorridente ragazzino, ma non era minimamente paragonabile al concetto di purezza -, erano dinamiche, mutavano la propria forma, i propri contorni, anche il proprio colorito quando pioveva.
Juuzou riproduceva quel comportamento da tempo immemore: cambiava il proprio aspetto - i filamenti rossi sulle braccia diafane erano opere di un vero artista -, non stava mai fermo, ogni occasione per lui era buona per scappare via da tutto, dalla realtà soffocante, da quegli "
è stato lui", "è stato lui", "è stato lui".
Ed infine cambiava.
Si lasciava distruggere interiormente, con lentezza estenuante, da quegli sguardi, da quegli occhi che lo accusavano di azioni che lui non aveva mai commesso - almeno a quanto rammentava. Il suo colore mutava: la sua pelle diafana si tingeva di scarlatto, i suoi capelli albini presentavano schizzi vermigli, ma il sorriso era sempre lì.
Sempre sulle sue labbra sottili e rosse.

Poi ricominciava tutto, un ciclo continuo.
Suzuya ripose il proprio sguardo sul foglio, ormai non più candido come le nuvole che sempre osservava, ma pitturato di tonalità celesti, simili a quelle del cielo estivo.
In qualche tratto, principalmente negli angoli della carta che gli portava sempre Shinohara-san, era presente qualche spazio bianco, probabilmente a causa della spossatezza di quella mattina che gli impediva di concentrarsi a fondo - il giorno prima aveva lavorato per tutta la giornata e, ormai, aveva compreso di soffrire d'insonnia -, o magari aveva solamente voglia di lasciarlo così, nel tentativo di riprodurre goffamente i cristalli di ghiaccio condensati in grumi e globuli.
Qualche tratto bianco e solitario nell'immensità del blu, proprio come lui.
Lui era quella macchia bianca nel cielo perfetto di tutti, quella indelebile e insistente, quella che nemmeno un soffio di vento avrebbe potuto spazzare via - perché le nuvole ci sono sempre, anche se il sussurro del vento è così prepotente da mandarne via qualcuna.
Scrutò per qualche secondo l'elemento cartaceo tra le proprie candide mani, per poi lasciarsi sfuggire un debole sorriso, uno di quelli falsi, di circostanza, insensati.
Ripose con lentezza il foglio sulle ginocchia, afferrò il portacolori a lato delle proprie gambe e trafficò qualche attimo con la cerniera, alla ricerca di una penna.

Quando la trovò, la prese e se la rigirò qualche secondo tra le dita bianche, per poi stapparla e scrivere in fondo "Suzuya" come prova che il disegno era suo, per dimostrare che oltre a porre fine ad una moltitudine di vite sapeva fare anche altro - era anche solo un miracolo che sapesse scribacchiare rozzamente il suo nome, sua mamma non gli faceva toccare nemmeno un libro. All'accademia era stato complesso imparare, soprattutto se messo sotto pressione in quel modo.
- Finito. - asserì solamente, come se qualcun altro fosse stato lì per contemplare i suoi capolavori. I suoi capelli albini danzarono al sussulto del vento, seguendo l'elegante volteggio delle nuvole.



- Perché non provi a rappresentare il cielo?
Si era voltato con un cipiglio curioso verso il mentore, in piedi alle proprie spalle. La punta che poco prima stava delineando il contorno di chissà quale figura astratta sul foglio stropicciato si era bloccata. Aveva alzato lo sguardo verso la volta celeste, scoprendola coperta da spesse nuvole. Era rimasto qualche secondo in silenzio, per poi scrollare le spalle.
- In cielo vi sono sempre le nuvole e mamma diceva che sono inutili. Non ha senso disegnarle. - si era giustificato con ovvietà, non curandosi dell'espressione di Shinohara. Era un sorriso, ma non comprendeva il significato.
- Le nuvole sono come i sogni, sembrano sfuggevoli e irraggiungibili, ma, se non provi a seguirle, non riuscirai mai a raggiungerle.
Suzuya lo aveva scrutato perplesso, non comprendendo.
Forse era la mancanza di empatia che veniva accusata da tutti a complicare la sua visione delle cose.
Ciò che vedeva era distorto, falso, eppure tutti lo dipingevano come un quadro allegro.
Non aveva proferito parola, attendendo che il mentore si spiegasse.
Dopo qualche attimo, infatti, egli aveva scrollato le spalle e ridacchiato notando la smorfia del "tirapiedi".
- Sono portatrici di ideali. - aveva mormorato, inclinando di poco il capo. - Sono
libere. Non vedo perché sia così tanto impensabile disegnarle.
"Libero" non gli piaceva come parola, non gli era mai piaciuta.
Sua madre diceva che non era libero, anche Shinohara-san gli ripeteva costantemente che non era libero, che era legato al passato, che non avrebbe potuto essere libero fin quando non avrebbe scordato tutto.
Lui non voleva scordare, non voleva dimenticare le braccia forti e robuste di sua mamma che lo sorreggevano quando lui era troppo stanco e debole per reggersi in piedi.
Non voleva scordare la sensazione di appartenere a qualcuno, anche se di razza diversa.
Poi, per gioco, un giorno, aveva calcato una linea immaginaria su un foglio, tingendo di turchino il resto.
Aveva pensato a come sarebbe stato essere libero, senza costrizioni, non essere "quello che uccide gli animali", "il ragazzino problematico", "il tizio cresciuto dai ghoul". Era bello, pensava, non dover essere "quello", ma poter essere "
Juuzou", solo "Juuzou" e nient'altro.




Ogni tanto gli era capitato di pensare a come sarebbe stata la sua vita se non fosse stato rapito, se avesse avuto una famiglia, una vera famiglia.
Se sua madre lo avesse imboccato quand'era piccolo, se suo padre gli avesse dato il bacio della buonanotte ogni sera prima di dormire... ma pensava fosse inutile crogiolarsi in una fantasia che mai si sarebbe avverata.
La sua esistenza, la sua condanna, era stata scelta da chi si era appropriato di lui, del suo corpo e della sua mente.
Avevano pianificato tutto, quegli ignoti che da piccolo tanto lo tormentavano, avevano scelto come sarebbe dovuto crescere.
Poi quell'ombra, quella che a lui era sembrata tanto simile ad un fascio di luce, lo aveva portato via con sé, lo aveva portato in accademia, quella che avrebbe dovuto definire "casa" - non gli piaceva nemmeno quel termine; era stato privato di ciò.
Ed anche allora la sua vita era stata dettagliatamente pianificata da tutti tranne che da lui, il legittimo proprietario.
Non sapeva come doveva muoversi, cosa doveva fare per decidere da solo, autonomamente, senza l'aiuto - l'imposizione - di altri.
Poi era arrivato quel giorno, quello in cui avrebbe dovuto dimostrare che esisteva, quello in cui avrebbe potuto lottare affiancato dallo stesso fascio di luce che aveva parzialmente illuminato la sua esistenza quando era solo un bambino.
Quelle parole - "se tu morissi, io sarei triste" - risuonavano forti e concise nella sua mente, aveva il terrore di lasciarle scappare via. Ed era avvenuto l'inevitabile, l'impensabile.
Quella luce si era spenta davanti ai suoi occhi, lui era di nuovo capitombolato giù nelle tenebre.
Aveva urlato talmente forte da graffiarsi la gola, aveva combattuto ma l'unica cosa che era riuscito a rimediare era una gamba amputata. Aveva ricominciato a provare dolore, quella volta, quella in cui il suo mentore, colui che l'aveva spinto ad essere sé stesso e non Rei, aveva ceduto. E lui non voleva provare dolore, non voleva soffrire, non voleva perdere nuovamente tutto. Non era sofferenza fisica, quella non la provava da anni. Era un peso, un fardello all'altezza del petto e del cervello, che premeva incessantemente in lui come a volersi fondere in una consapevolezza atroce. L'aveva avvertita, quella stessa consapevolezza, quel "è successo per colpa tua" nella sua testa. Voleva scappare, aveva sempre voluto scappare. Scappare da sua madre, dalle sue braccia fredde e dai suoi sorrisi falsi, da Shinohara, dalle sue lievi risate, quelle che dedicava solo a lui. Da quando gli avevano insegnato che doveva legarsi a qualcuno si sentiva orribilmente peggio. Tutto gravava sulle sue spalle: doveva proteggere, doveva eseguire gli ordini, ma lui non voleva. Voleva essere libero, voleva districarsi dal suo passato, dal suo presente e da tutto ciò che per lui era stato programmato; voleva essere intangibile ed ammirabile come una candida nuvola. Voleva essere Suzuya Juuzou.
Era giunto il momento di disegnare da solo la propria vita.

  
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