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Autore: GirlWithChakram    10/06/2016    6 recensioni
Max Caulfield, neolaureata, è riuscita ad ottenere la possibilità di lavorare per la nota rivista di arte "FRAME", creata e gestita da Mark Jefferson, suo professore ai tempi della Blackwell Academy. Trovandosi con il compito di individuare un artista emergente da portare sotto i riflettori, la giovane non ha idea che il destino metterà sul suo cammino, nel modo più inaspettato, una pittrice dal passato problematico. Cosa accadrà quando l'arte porterà a convergere le loro vite altrimenti destinate a non incrociarsi mai?
[Pricefield]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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LIFE IS ART




Avvertenze: la fanfiction si svolge in un AU che prevede alcune differenze rispetto alla trama del gioco: Max e Chloe non si sono mai conosciute da piccole, nessun atto criminale è stato portato avanti alla Blackwell Academy durante l'anno in cui Max vi ha studiato e per tale ragione lei non ha mai sviluppato alcun potere speciale. Il resto dovrebbe spiegarlo da sè la storia, ma in caso di dubbi sono sempre disponibile per chiarimenti. Buona lettura!
 
 
I: A Remarkable Tale | Una storia notevole
 
Arcadia Bay è stata molte cose ai miei occhi: la città dove la mia vita è cominciata, un ammasso di costruzioni costrette tra la baia e il promontorio, un agglomerato di vite intrecciate e drammi continui. Ma dall’alto del grattacielo di FRAME non mi sembrò nulla più di un modellino della tipica cittadina della costa occidentale.
L’edificio in cui mi trovavo era il più alto mai costruito in zona e sovrastava, con le sue decine di metri di vetro e acciaio, le case delle famiglie benestanti e i capanni di pesca del molo. Era posizionato in modo che, da ogni angolo o finestra, si avesse una visione diversa del circondario. Insomma, un palazzo fatto ad arte per contenere arte.
Strinsi trepidante la borsa gonfia di cartelle tra le braccia. Quello era il lasciapassare per un mondo altrimenti a me proibito.
Avevo indossato il mio vestito migliore e avevo persino azzardato impiastrandomi la faccia con uno strato di trucco, pur di fare colpo sui miei nuovi capi.
«Maxine Caulfield» mi chiamò la ragazza seduta dietro la scrivania che occupava quasi un terzo della stanza in cui mi trovavo.
Ero al penultimo piano di quella torre misteriosa, il luogo in cui avveniva la magia di FRAME, la più nota rivista di arte di tutto il Paese, ed io stavo per entrare ufficialmente a fare parte della famiglia che controllava ogni aspetto di quell’incantesimo.
«Il signor Jefferson ha detto che dovrà farla attendere ancora qualche minuto, mi dispiace» mi disse la segretaria, tornando poi a smaltarsi le unghie.
«Ahm, mi scusi, signorina…» aguzzai la vista per sbirciare il nome sulla targhetta «Christensen…»
«Per piacere» ribattè quasi immediatamente, alzando gli occhi chiari dalle proprie unghie per rivolgerli nuovamente verso di me «Qui mi chiamano tutti Taylor.»
«Bene, Taylor» ripresi «Posso fare un giro per le gallerie nel frattempo?»
Lei mi scrutò dubbiosa, probabilmente indecisa se fosse il caso tenermi d’occhio onde evitare guai.
«Sa, ho sempre desiderato vedere di persona le opere di Jefferson e dei suoi collaboratori» cercai di rabbonirla «Prometto di non fare danni.»
La giovane sbuffò, tornando a scrutarsi le dita con interesse. «Credo che non ci sarebbe nessun problema se si facesse un giro per il dodicesimo piano, dove ci sono gli scatti della scorsa esposizione… Nel caso qualcuno le facesse qualche domanda, faccia il mio nome e non le daranno noie.»
La ringraziai e feci per avvicinarmi all’ascensore, ma mi affrettai a tornare al banco, accorgendomi di aver dimenticato una cosa: «Mi potrebbe fare uno squillo al momento di tornare per incontrare il signor Jefferson?»
La bionda segretaria, facendo attenzione a non sbavare lo smalto, iniziò a digitare sulla tastiera del computer, verificando di avere il mio numero. «Certamente» confermò dopo qualche secondo.
«Ancora grazie.»
Sgattaiolai due piani più un basso, raggiungendo una delle gallerie che il palazzo ospitava. La raccolta esposta era quella di “Everyday heroes”, che comprendeva ben cinque anni di lavoro di Jefferson e qualche suo alunno.
Sospirai al pensiero che sarei potuta esserci anche io. Quando stavo frequentando la Blackwell Academy, quelli che sembravano ormai secoli addietro, l’allora professore mi aveva proposto di partecipare al progetto, ma ero stata troppo codarda per decidermi, perdendo per sempre la mia occasione. Ottenuto il diploma mi ero lasciata tutto ciò alle spalle, tornando a Seattle per frequentare il college, sperando di emergere come fotografa e fallendo miseramente.
Mi fermai davanti allo scatto in bianco e nero di un pescatore intento a rammendare la propria rete, mentre sullo sfondo, in contrasto con il cielo grigio, emergeva il faro che vegliava sulla cittadina.
Se mi trovavo là era solo merito di Kate Marsh, una mia vecchia compagna di classe con cui avevo mantenuto un buon rapporto. Era stata lei a suggerirmi di inviare a Jefferson il curriculum, per tentare di farmi assumere come editor all’interno della rivista da lui fondata tre anni prima.
L’idea di tornare ad Arcadia Bay mi aveva turbata, in un primo momento, sembrandomi come un retrocedere ad una vita che credevo di aver abbandonato per sempre. A Seattle avevo trovato un appartamento mio, avevo un lavoro part-time come barista e facevo qualche servizio fotografico per giornali locali, avrei potuto continuare un’esistenza tranquilla.
Invece, grazie alla mia amica, decisi di osare di più.
Le mie speranze erano state ripagate quando era giunta nella mia sgangherata casella postale di Seattle una lettera ufficiale di FRAME che mi convocava per un incontro, tre settimane dopo. Ero rimasta sconcertata, perché nessuno più, ormai, utilizzava buste e francobolli, ma quel pezzo di carta aveva cambiato la mia vita e poterlo toccare con mano aveva reso tutto più reale.
Avevo fatto i bagagli in un lampo ed ero tornata alle origini, nel luogo in cui avevo vissuto da bambina.
Avevo trascorso le prime due settimane alla ricerca di un alloggio, ottenendo pessimi risultati, poi, per grazia divina, era intervenuto in mio soccorso Warren, anche lui una mia vecchia conoscenza della scuola.
Non era mai stato un segreto che il ragazzo avesse una cotta pazzesca per me, ma vedendo che non lo ricambiavo, ad un certo punto, aveva iniziato ad uscire con altre, ritagliandomi un ruolo di semplice amica. Il vedermi in difficoltà, però, nonostante gli anni di lontananza, aveva risvegliato in lui lo spirito cavalleresco e, dopo averlo incontrato per caso al Two Whales un sabato mattina all’ora di colazione, si era offerto di prendermi come coinquilina.
Avevo accettato senza riflettere, piantando radici in un trilocale dei Pan Estates, i nuovissimi palazzi firmati Prescott, nome che, guarda caso, era alla base degli investimenti anche di FRAME; non sorprendeva che Nathan, il rampollo della famiglia, fosse uno degli artisti più sponsorizzati.
Lessi la targhetta della fotografia che stavo ammirando ed incontrai un altro nome familiare: Victoria Chase, l’ennesima compagna di classe, con cui, però, avevo avuto un rapporto tutto meno che idilliaco.
Non ero riuscita ad osservare neppure metà delle opere esposte, quando il mio cellulare squillò.
Mi affrettai verso l’ascensore e tornai al quattordicesimo piano, quello dei dirigenti.
«Mr. Jefferson la sta aspettando» mi accolse nuovamente Taylor, indicandomi la porta alla sua destra.
Percorsi un breve corridoio su cui si affacciano diversi uffici, dirigendomi verso la porta in fondo, quella più grande e su cui era presente una vistosa placca d’oro. Quando mi trovai abbastanza vicina riuscii a scorgerne la scritta: “M. Jefferson Direttore ed Artista”.
Bussai ed una voce mi invitò ad entrare.
La prima cosa a colpirmi fu la luce: molta, intensa, abbagliante, quasi soffocante. L’intera parete di fronte a me era costruita in vetro, lasciando che il riverbero del sole sul mare si mostrasse in tutta la propria potenza.
«Max, è un vero piacere rivederti.»
Serrai le palpebre fino a lasciare ai miei occhi solo una fessura di visuale, per schermare il chiarore, davanti cui si stagliava un’imponente figura. Sembrava cambiato poco dai tempi in cui insegnava all’accademia, Mark Jefferson continuava ad essere un uomo affascinante, alto, con folti capelli scuri, occhiali squadrati da intellettuale e un sorriso un po’ misterioso, che gli conferiva un’aria ancor più affabile.
Vidi che mi tendeva la mano ed io la strinsi per ricambiare.
«È un piacere anche per me rivederla, professor Jefferson» risposi, balbettando un po’.
«Non sono più un insegnante» mi ricordò «Sono solo Mark Jefferson adesso.»
Annuii, continuando a stringergli la mano come un’idiota.
«Questi sono due dei miei più validi collaboratori e colleghi artisti» continuò l’uomo, liberandosi dalla mia stretta ed indicando due persone accomodate su un divano bianco alla mia sinistra.
«Nathan Prescott e Victoria Chase. Potresti ricordarti di loro dai tempi della Blackwell.»
«Infatti» mormorai «Lieta di ritrovarvi» proseguii accennando un saluto con il capo.
Victoria, nella cui mano destra ondeggiava regalmente un calice mezzo pieno di vino rosso, mi squadrò da capo a piedi, studiandomi. Nathan, invece, praticamente mi ignorò, troppo preso a digitare qualcosa sul proprio telefonino.
«Dunque, Max» tornò a parlare il direttore, richiamando la mia attenzione «Sono rimasto molto colpito dal tuo curriculum… Una borsa di studio al “Cornish College of the Arts” non è cosa da tutti, soprattutto se ottenuta per meriti scolastici come i tuoi.»
In effetti era stata una vera e propria impresa mantenere una media alta così da ottenere quel premio in denaro, avevo passato settimane intere senza alzare la testa dai libri di testo, riuscendo a laurearmi con il massimo dei voti nel campo delle arti visive.
«Non possiamo vantare elementi tanto validi» continuò «Per questo ho deciso di offrirti una possibilità. Non voglio perdere tempo, per cui passerò subito al sodo.»
Quelle ultime parole mi fecero rabbrividire. Stava per mettermi alla prova, per decidere se davvero concedermi l’onore di fare parte della perfetta macchina artistica che aveva tanto lavorato per avviare.
«Voglio che mi prepari un servizio per il numero di aprile, qualcosa che io possa inserire nella rivista. Se sarà ben fatto, potrai rimanere a lavorare ufficialmente per me e per FRAME, nel frattempo svolgerai i compiti da stagista, così da poterti concentrare sul pezzo. Potrai iniziare domani.»
Rimasi sconvolta. Avevo meno di due mesi di tempo. Il mio cervello mi ricordò che eravamo ad inizio febbraio e, per un compito del genere, avrei dovuto iniziare a prepararmi molto tempo prima.
«Potrai scegliere l’artista che vorrai, ma mi piacerebbe vedere un volto nuovo, qualcosa di fresco…» proseguì Jefferson, versandosi un bicchiere di vino «Non mi importa se fotografo, pittore, scultore o altro, ciò che conta è il talento e la tua abilità nell’esaltarlo.»
Mi fece segno di accomodarmi tra Prescott e la Chase ed io ubbidii, poi venni costretta a prendere parte ad un improvvisato brindisi. Ciò che seguì mi scivolò addosso con indifferenza, ormai ero assorbita dal lavoro che era già in ritardo ancor prima di partire. Stavo vagliando all’interno della mia mente ogni emergente che avessi mai sentito nominare, ma nessuno mi pareva degno di venire annoverato tra gli articoli della rivista. La sfida lanciatami sarebbe potuta rivelarsi più grande di quanto potessi sopportare.
Ero entrata nel grattacielo in tarda mattinata e, dopo diversi bicchieri di vino e qualche snack salato, ne uscii che era pomeriggio inoltrato.
Afferrai il cellulare tra le mani e con dita malferme digitai un messaggio per Warren. Dieci minuti dopo, il giovanotto mi raccattò con la sua vecchia auto blu.
«Max, hai bevuto?» mi chiese praticamente subito, annusando l’odore di alcol che mi aleggiava intorno.
«Jefferson mi ha offerto del vino» risposi, rilassando la testa contro il sedile della vettura.
«Ti ha offerto anche un lavoro?»
«Più o meno» borbottai «Vuole prima vedere un mio articolo e se gli piacerà sarò ufficialmente a bordo, nel frattempo, da domani, farò la stagista, naturalmente non retribuita.»
Lui annuì, poi cominciò a tempestarmi di domande a cui non riuscii a prestare particolare attenzione. Senza che me ne rendessi conto, ci trovammo nel parcheggio del condominio. Scesi dalla macchina e, varcato il portone, iniziai a salire le scale che portavano al secondo piano.
La porta di sinistra ospitava uno scorbutico pescatore con cui, fino ad allora, avevo parlato sì e no due volte, mentre quella di destra celava l’appartamento del mio amico.
Varcai la soglia in una specie di trance.
Il salotto, che fungeva anche da cucina, sala da pranzo e quant’altro, era preda del più totale disordine, per colpa principalmente mia. Fogli, ritagli di articoli e riviste svolazzavano ad ogni mio passo, creando un lieve turbinio.
Aprii il frigorifero e ne estrassi una bottiglia d’acqua che scolai senza troppe cerimonie.
«Vado a farmi una doccia» comunicai al mio coinquilino, levandomi le scarpe e lanciandole chissà dove.
«Certo, come ti pare» sbuffò, chiudendosi in camera propria.
«Warren» piagnucolai, bussando leggermente alla porta chiusa «Non fare l’offeso perché ti sto ignorando… Lascia che mi passi la sbornia, ok?»
Non ricevetti risposta e decisi di lasciar perdere.
La mia stanza era sulla destra rispetto a quella del ragazzo e la porta successiva era quella del piccolo bagno.
Entrai in camera per svestirmi ed abbandonare la borsa. Lo spazio era piccolo, occupato dal letto ad una piazza, poco più confortevole di una branda da campo, un cassettone per i vestiti e una scrivania traballante.
Appallottolai l’abito nel cesto dei panni, rimanendo in intimo, infilai le ciabatte, sganciai l’orologio che avevo al polso e sbucai nuovamente nel breve corridoio, infilandomi subito nella stanza a sinistra.
Il bagno era quanto di più microscopico ci si potesse permettere. La prima volta che lo avevo visto mi ero domandata quanto gli architetti dei Prescott si fossero impegnati per renderlo tanto scomodo.
Tazza del gabinetto e lavandino erano praticamente accavallati, pigiati contro il muro di fondo da cui una finestra garantiva un briciolo di respiro, mentre un box doccia e un armadietto stipavano rispettivamente la parete di destra e sinistra. La superficie calpestabile effettiva risultava essere a dir poco insufficiente.
Sgusciai fino allo specchio appeso sopra il lavabo e feci del mio meglio per struccarmi, trovandomi, comunque, inevitabilmente, a somigliare ad un panda preso a botte. Maledicendo il mascara che avrei potuto evitare di utilizzare, finii di denudarmi per poi entrare nella doccia.
Il getto dell’acqua bollente, che serviva principalmente a distrarmi dal freddo dell’inverno ancora incalzante dell’Oregon, mi aiutò a recuperare un po’ di lucidità. Avrei dovuto scusarmi con Warren più tardi per non avergli prestato attenzione.
Richiamai alla mente i diversi battibecchi che avevamo già avuto nonostante convivessimo da meno di dieci giorni e mi domandai che fine avessero fatto i due ragazzini nerd così in sintonia che si erano conosciuti alla Blackwell.
Negli anni in cui ero stata lontana, anche Graham era cresciuto, si era laureato ad una scuola informatica e lavorava programmando strane applicazioni matematiche da casa. Lo pagavano bene, ma mantenere una casa ai Pan Estates, per quanto minuscola, era una spesa ingente, per cui era stato molto contento di avere qualcuno con cui dividere i costi.
Io avevo messo da parte i soldi ricavati dalla vendita del mio appartamento di Seattle ed in più avevo accumulato qualche risparmio con i miei precedenti lavori, ma un bel gruzzolo sarebbe sfumato per mantenermi durante quei due mesi di prova presso FRAME. Se, alla fine, non avessi ottenuto il posto, mi sarei ritrovata sul lastrico a tempo di record.
Chiusi il flusso d’acqua e lasciai che le piccole perle trasparenti, ancora tiepide, continuassero a scivolare lungo la mia pelle bagnata. Ciocche color castano scuro mi frustarono le spalle ad ogni movimento compiuto per coprirmi alla bell’e meglio con il grande telo azzurro che possedevo fin dai tempi del college.
All’improvviso, un brivido mi corse lungo la schiena. Letteralmente.
Con un movimento fulmineo, piegai indietro il braccio e catturai una goccia gelida che era ormai giunta a metà del mio dorso.
Mi domandai da dove fosse arrivata, convincendomi poi che fosse scivolata dalla mia testa fradicia.
Sciacquai il box eliminando i residui di schiuma dello shampoo, mi infilai nuovamente le ciabatte e feci per andarmene, quando qualcosa picchiettò sul mio capo.
Istintivamente, alzai lo sguardo.
«Ma che cazzo?» riuscii ad imprecare, prima che un’altra stilla di puro gelo si schiantasse contro il mio naso levato all’insù.
Sul soffitto si era formata una grossa chiazza d’umido, che sembrava del tutto intenzionata ad espandersi ancora, e da cui gocciolava acqua.
I vicini del piano di sopra dovevano aver combinato qualcosa.
«Warren!» gridai uscendo dalla stanza, nel tentativo di richiamare l’attenzione del mio amico «C’è un problema in bagno, vieni a vedere!»
Dopo una ventina di secondi, il ragazzo uscì, con ancora inforcati gli occhiali che usava per lavorare al pc. Fu difficile ignorare il rossore che si fece largo sulle sue gote vedendomi coperta solamente con l’asciugamano, ma dissimulò bene il proprio imbarazzo, domandandomi: «Che succede?»
Gli afferrai una mano e lo trascinai fino alla “scena del crimine”.
«Brutti stronzi!» ringhiò «Qualcuno dovrebbe cantargliene quattro.»
Come se non si fosse reso conto della cosa, sottolineai: «Tu dovresti andare a protestare. È casa tua quella che finirà allagata se non fanno qualcosa.»
«Adesso non posso, Max» brontolò, tra lo scocciato e il nervoso «Devo finire di lavorare ad un foglio di calcolo e mi ci vorranno almeno ancora due ore, il capo ha detto che devo spedirglielo entro domattina…»
La frase lasciata così in sospeso non mi fece presagire nulla di buono.
«Non è che potresti andare tu, per piacere?» continuò, risistemandosi le lenti che gli erano scivolate fino alla punta del naso.
Fissai i suoi occhi marroni con astio, che in realtà non era rivolto a lui, bensì agli sconsiderati inquilini annaffiatori.
«Per piacere, Max. Laverò io i piatti per tutta la settimana, se mi farai questo favore.»
L’accordo mi convinse ed accettai.
Warren tornò al proprio lavoro, mentre io mi vestii in un lampo, trovandomi ad indossare una vecchia t-shirt sbiadita, la mia cara “Jane Doe” che avevo tanto amato da ragazzina, e un paio di pantaloni grigi sformati.
Feci scorrere le dita nella chioma ancora fradicia, convincendomi che conciata in quella maniera sarei sembrata o estremamente minacciosa o ridicolmente patetica, in ogni caso, avrei smosso qualcosa nel vicino molesto.
Salii a due a due i gradini, che mi portarono al corrispettivo del nostro appartamento, ma situato al piano superiore. Il tasto del campanello pendeva senza vita, con un filo tagliato, quindi compresi all’istante che l’unica alternativa sarebbe stata quella di bussare.
Picchiai le nocche contro la porta con una determinazione tale da sorprendere persino me stessa. Ero arrabbiata, quel noioso problema aveva annullato tutti gli effetti benefici della doccia e, inoltre, aveva accentuato il lieve mal di testa che mi stava accompagnando da quando avevo lasciato il palazzo di FRAME.
Fissai la maniglia rimanere immobile per un tempo incalcolabile.
Ritentai, bussando con ancor più decisione.
«Arrivo, e che cazzo!» gracchiò qualcuno dall’interno.
Quando la persona fu abbastanza vicina da iniziare ad armeggiare con la serratura, udii distintamente: «Soliti scassapalle di merda.»
Come minimo mi sarei aspettata di trovarmi davanti un enorme scaricatore di porto, tatuato, impuzzolentito da sudore, fumo ed alcol.
Mancai di poco il bersaglio.
Di fronte ai miei occhi si palesò una giovane donna, di uno o due anni più grande di me. Era più alta della sottoscritta, in effetti mi sovrastava di almeno un palmo; aveva il braccio destro ornato da un elaborato disegno di cui riuscivo a distingue alcuni fiori, un nastro ed un teschio, accompagnati da alcune farfalle blu; la sua intera figura, inclusi i vestiti da punk dall’aspetto trasandato, emanava il tipico odore dolciastro della marijuana.
«Che cosa vuoi?» domandò in tono accusatorio, passandosi una mano tra i capelli turchini, le cui radici erano, però, colorate di rosa.
«Stai cercando di inondare il nostro appartamento?» sbottai, infastidita dal suo atteggiamento indisponente.
«E se anche fosse?» ribattè.
Rimasi spiazzata da quella replica. Mi sarei aspettata delle immediate scuse e la promessa di chiamare quanto prima un idraulico.
Boccheggiai, alla ricerca di una risposta che non sarebbe arrivata.
La vicina roteò gli occhi, sbuffando. «Qual è il problema?» chiese, incrociando le braccia al petto.
«Dal soffitto del bagno di casa nostra gocciola acqua» mi affrettai a spiegare «Deve esserci un problema con le tue tubature. Non possiamo lasciare che ci cresca la muffa sul tappetino.»
«Chi sarebbero esattamente questi “noi” di cui parli?» domandò, appoggiandosi allo stipite, come se stesse iniziando ad interessarsi alla conversazione e fosse intenzionata a portarla avanti.
«Il mio coinquilino ed io.»
«E da quant’è che vivete qui?»
«Lui da alcuni mesi, io solo da una settimana» risposi, cercando di capire cosa ciò avesse a che fare con la questione del soffitto gocciolante.
«Allora lascia che ti spieghi come gira qui, novellina» disse, incurvando le labbra in un sorriso quasi divertito «Tra un paio di giorni passerà Boris, il responsabile dello stabile, e potrai fargli presente il problema. Fino ad allora, piazza una bacinella e mettiti l’anima in pace.»
Sospirai, sconfitta. «Posso almeno provare a capire quale sia il problema?» chiesi «Mi concedi di entrare?»
«Accomodati» mormorò, scansandosi per lasciarmi passare.
«Comunque sono Max» mi presentai, mettendo piede in casa.
«Buon per te.»
Masticai un paio di improperi, trattenendomi.
Notando quanto mi avesse scocciato quella risposta, la punk mostrò il primo segno di collaborazione: «Sono Chloe.»
La considerai una piccola vittoria.
Lasciai che la ragazza mi facesse strada fino al bagno. Mi accucciai ai piedi della doccia, che si trovava direttamente sopra la nostra. All’esterno non sembravano esserci danni, per cui il problema doveva trovarsi nelle tubature del pavimento.
«Soddisfatta?» domandò Chloe, riservandomi uno sguardo severo.
Fui costretta ad annuire, demoralizzata.
Forse fu il vedermi tanto abbattuta, o forse fu semplice cordialità, anche se mai avrei attribuito una tale qualità alla donna che mi aveva aperto la porta, fatto sta che lei mi sorprese, offrendomi di restare per un caffè.
Ringraziai e la seguii fino all’angolo cucina, simile al nostro.
Ne approfittai per studiare l’ambiente. Come nel nostro appartamento, la maggior parte dello spazio era occupato dalla zona pranzo e vivande, da un paio di divani e un ampio televisore a schermo piatto dall’aria costosa. In giro scorsi diversi mozziconi di sigaretta e bottiglie di birra abbandonate, accompagnate da involucri dei più svariati cibi di pronto consumo. Sembrava la tana di un’adolescente in piena fase di ribellione.
In contrasto con quello squallore e quell’abbandono erano i quadri appesi alle pareti. Erano vere e proprie opere d’arte, che variavano per stile, tecnica e soggetto, ma, ad una più attenta analisi, portavano un marchio comune: la firma in basso a sinistra. Tracciata sempre con pennellate delicate, una farfalla stilizzata dispiegava le ali al cui fianco spiccavano le iniziali B e P.
«Ecco» disse la padrona di casa porgendomi una tazza calda «Ti offrirei dello zucchero, ma lo abbiamo finito, noi lo usiamo poco.»
Notando l’uso di quel plurale, approfittai per farle il verso: «Chi sarebbero questi “noi” di cui parli?»
Chloe si concesse una risata. «Sei una nanerottola sagace» commentò beffarda «Si riferisce a me e la mia ragazza.»
La notizia non mi colpì particolarmente, in quanto avevo già adocchiato in bagno due spazzolini e due diverse qualità di quasi ogni cosa, chiaro segno che la ragazza non viveva da sola.
«È lei l’artista?» chiesi, indicando in maniera vaga le cornici appese.
«Lei è il soggetto» rispose, avvicinandosi ad un ritratto. Rappresentava il viso di una donna con i capelli mossi dal vento su uno sfondo astratto. Il contrasto era insolito, ma evocava sensazioni profonde, che incuriosivano il mio spirito di critica d’arte.
«È molto bella» commentai, decisa ad indagare su chi fosse, quindi, il pittore.
«Fa la modella.»
«Non mi sorprende, una bellezza simile non dovrebbe andare sprecata.»
Spostai lo sguardo dall’opera alla punk, studiandone le iridi celesti che, a propria volta, osservavano me.
«Forza» mormorò Chloe «Spara la domanda che muori dalla voglia di fare.»
«Sono tuoi?» esplosi.
Lei annuì, sfiorando la tela con la punta delle dita.
Nella mia testa iniziarono a ruotare decine di ingranaggi, incastrando il mio lavoro per FRAME con quell’inaspettata scoperta. Forse, avevo trovato la mia artista da presentare al mondo.
«Vieni, ti faccio vedere una cosa» disse, accendendosi poi una sigaretta.
Ubbidiente, le andai dietro fino alla camera corrispondente alla mia. L’inquilina aprì la porta e mi illustrò il proprio studio.
C’erano tele di ogni tipo e genere, alcune lasciate a metà, altre concluse, altre appena abbozzate. Tre cavalletti vuoti erano appoggiati alla parete, accanto ad un armadietto strabordante di pennelli e tubetti di colore.
«Questo è il mio safe space» disse, spostando qualche quadro, come se li stesse sistemando.
«Il tuo atelier, praticamente» commentai.
«No, non sono un’artista e non ho un atelier» si oppose «È solo uno sfogo che coltivo da qualche anno.»
«Come preferisci» ribattei «Comunque sono bei lavori, giusto per fartelo sapere.»
«Beh, grazie» sussurrò, mostrandomi per la prima volta un sorriso rilassato e genuino, che, però, durò poco, sostituito dall’espressione da dura con cui mi aveva accolta «Ora è meglio che tu vada, Rachel dovrebbe rientrare tra poco e non le piace avere estranei per casa.»
«Certo, levo le tende immediatamente» assicurai, avviandomi verso l’uscita «Quindi mi assicuri che tra un paio di giorni arriverà questo Boris e risolverà il problema?»
«Lui darà un’occhiata e stimerà i danni» ribattè «Poi si occuperà di chiamare chi di dovere.»
Annuii, accontentandomi di quell’informazione.
«Allora, credo che questo sia un arrivederci, Max» disse, fermandosi sulla soglia, rigirandosi tra le mani la tazza da cui avevo bevuto.
«Già» risposi, ma con poca convinzione. Avrei voluto indagare di più su di lei e sul suo lavoro e andandomene sarei rimasta a rimuginare con la mia curiosità, ma non potevo fare altrimenti. «Spero di rivederti, magari non per un soffitto che gocciola.»
«Sì» mormorò «Per me è lo stesso…»
«Allora, arrivederci, Chloe» mi congedai, iniziando a scendere le scale.
«Ci si vede.»
Tornai in casa e mezzo minuto dopo Warren emerse dal suo antro.
«Risolto?» domandò, massaggiandosi la base del naso dove gli occhiali avevano lasciato un segno rosso.
«Per ora no» iniziai a spiegargli «Non possiamo sistemare il problema subito, ma a breve passerà il responsabile dello stabile a controllare e ci dirà cosa fare.»
«Quindi, per adesso che facciamo?»
«Mettiamo una bacinella e abituiamoci al rumore delle gocce che cadono» conclusi con un sospiro.
Rimediammo piazzando un recipiente sotto la macchia, ma la nuova sistemazione rese ancora più difficile la circolazione nello stanzino. Purtroppo non avevamo altro modo di risolvere la questione.
Mentre ero in bagno, approfittai per asciugarmi i capelli con il phon, dato che, nonostante avessero smesso di gocciolare, erano ancora bagnati.
Finalmente, quando ormai il sole era tramontato da un pezzo, mi preparai a rilassarmi sul letto. Con un brontolio recuperai il cellulare abbandonato da prima che mi facessi la doccia, notando una serie di messaggi.
Risposi ai miei genitori che volevano sapere come fosse andata con FRAME, chattai brevemente con alcuni ex-compagni del college e poi avviai una chiamata.
«Pronto?» mi rispose la ragazza dall’altro capo.
«Kate, ciao, sono Max» mormorai nell’apparecchio, abbandonandomi sul materasso.
«Max!» esultò la mia amica «Allora, è andato tutto bene?»
Le raccontai brevemente la mia giornata, includendo l’incidente del bagno e la scoperta della curiosa artista del piano di sopra.
«Una storia davvero notevole… Prova a fare qualche ricerca tra gli archivi di FRAME» mi suggerì la Marsh «Magari in passato ha esposto qualche lavoro in una galleria e se lo ha fatto, ci saranno certamente delle tracce tra gli articoli della rivista.»
Ponderai quel consiglio e lo accolsi con piacere. Era pur sempre un punto di partenza. «Grazie, Kate, sai sempre cosa dirmi al momento giusto. Sei l’amica migliore che potessi desiderare.»
«Lo stesso vale per me, Max» replicò con gentilezza «Adesso ti va di sentire delle mie solite avventure?»
«Ma certo!» esclamai «Anche oggi i bambini del “Saint Mary Kindergarten” di Great Falls si sono cacciati nei guai?»
«Naturalmente! Jennifer ed Allison si sono azzuffate di nuovo…» iniziò a raccontare.
La Marsh, concluso il percorso alla Blackwell era tornata alla sua città di origine, nel Montana, aveva frequentato un college della zona e si era data all’insegnamento, o, come lo vedevo io, al babysitting mattutino. Gestiva una classe dell’asilo con venticinque piccole pesti che avrebbero mandato ai pazzi anche il più zen degli esseri umani, ma Kate era riuscita a farli affezionare a sé e a renderli gestibili. Le sere dopo quelle giornate le impiegava per portare avanti la propria passione: illustrare libri per i più piccoli. Naturalmente buona parte del suo tempo libero lo impiegava in attività della chiesa come volontaria. Mi sembrava impossibile che riuscisse a orchestrare il tutto con tale naturalezza ed in più riuscire comunque a ritagliare un po’ ti tempo per chiacchierare con me.
Andò avanti a raccontarmi del litigio delle due bambine per una scatola di pastelli a cera, poi concludemmo la chiamata, dato che per me era giunta l’ora di cena.
Uscii dalla camera e raggiunsi Graham, che si era già stravaccato sul divano, davanti al televisore, con un pacchetto di popcorn.
«Cosa c’è di buono, stasera?» domandai, sbirciando in frigo.
«Nulla, visto che non abbiamo fatto la spesa» rispose, prima di cacciarsi in bocca una manciata di snack.
Sarebbe stato difficile, in effetti, ricavare una cena da un panetto di burro, una bottiglia di ketchup e un paio di carote crude.
«Lasciamene un po’!» gridai, lanciandomi verso Warren e quella che sarebbe stata anche la mia cena.
«Woah, a cuccia, Maxine!» mi rimproverò, cercando di tenermi alla larga.
«Ho fame e quei popcorn sono tutto ciò che abbiamo!» sottolineai «Non lasciarmi morire di stenti.»
«Quanto sei petulante…» borbottò bonariamente, lasciandomi attingere dal sacchetto.
«Allora, che guardiamo?» domandai poi, accoccolandomi nel mio, ormai stabilito ed intoccabile, angolo di divano.
«Avevamo in programma il primo Alien, sei ancora d’accordo?»
«Certo» concordai «Fallo partire.»
Non feci in tempo a vedere neppure la distesa di uova aliene che crollai addormentata.
Mi risvegliai nel mio letto ed intuii che il mio coinquilino mi avesse trasportata di peso fino in camera. Doveva essere stata un’impresa tutt’altro che semplice, nonostante io fossi piuttosto minuta e leggera.
Indovinai che fosse ancora notte e mi rigirai, nel tentativo di tornare a riposare.
Nel buio, prima di ripiombare nel sonno, mi parve di veder svolazzare una farfalla dalle ali blu cobalto.



Note dell'autrice: ebbene, sono lieta che siate arrivati alla fine di questo capitolo, perchè se state leggendo qui dovete esserci arrivati per forza. Vorrei presentarmi brevemente, essendo questo un territorio nuovo per me: ho già scritto fanfiction, ma mai ispirate ad un videogame ed ho ritenuto che questo fosse il migliore con cui cominciare, visto il modo in cui ha saputo emozionarmi. In realtà la mia intenzione era quella di dedicarmi interamente ad una storia che fosse seguito del videogioco (e lo sto facendo), ma ho scelto di proporre prima questa mini-long, composta di cinque capitoli, per "presentarmi" a voi, cari lettori.
Passando a cose più serie: la storia è in parte ripresa dal film "High Art", quindi, nel caso lo aveste visto, non sorprendetevi di trovare similitudini o affinità per quanto riguarda i punti salienti della trama; anche il fumetto "Blue is the Warmest Colour" ha avuto una discreta influenza su di me durante la scrittura, quindi ci sarà qualche riferimento qua e là.
Passando alle note tecniche: la fanfiction verrà aggiornata una volta a settimana, ogni venerdì a partire, naturalmente, da questo. Mi spiace non rilasciare subito di più, ma devo lasciare che si crei un minimo di suspense, siate clementi.
Ringraziamenti: questa parte è quella che di solito mi porta via più spazio, quindi inizierò ringraziando chiunque si sia sottoposto alla tortura di queste note, siete dei veri eroi; poi un grazie va alla mia fidata beta wislava che non manca mai di correggermi dove necessario e di darmi il proprio parere su ogni cosa che scrivo; aggiungo un grazie particolare all'autrice della copertina, GingerPhoenix (la cui pagina di DeviantArt trovate cliccando sul nome), che capita casualmente essere la mia sorellina, che ha anche dato la sua benedizione per la storia e ha minacciato ritorsioni nel caso in cui non l'avessi inserita nelle note.
Concluso questo papiro, rinnovo i miei ringraziamenti e vi do appuntamento a settimana prossima.
   
 
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