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Autore: kamy    16/04/2009    2 recensioni
Un ragazzo di nome Carlo, cresciuto in una vita che potrebbe essere quella di chiunque, si ritroverà catapultato in mondo fatato, abitato da strane creature. Tra pericoli, insidie, nuove amicizie, giovani amori, dovrà salvare dalla distruzione un intero pianeta. E' il mio primo romanzo di questo tipo, perfavore leggetelo.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ringrazio anche solo chi legge. I disegni qua sopra, rappresentanti i personaggi sono stati gentilmente forniti da mio fratello piccolo e io li apprezzo. Parere personale ovviamente. Ho deciso di inserirli adesso e tutti insieme perchè sto utilizzando il pc di un mio amico in cui ho scaricato la nuova versione del html, quella che ho io nn mi inserisce le immagini.

 

 Cap. 12 avventure tra mondi

Il tempo alla Luna di Iego passava in modo diverso dalla terra. Nessuno poteva immaginare che quella era la vigilia di natale. E nella dimensione di Carlo il tempo variava a seconda del volere del druido e del mago. E quel giorno decisero che un secondo nella Luna fosse un ora nella dimensione. Portarono Carlo nello Stoneighen dove al centro rivide la chiave della stelle. Carlo ci stava già andando. Quando apparvero quattro mostri. Che insieme dissero parole indecifrabile che pian piano divennero chiare: " Prima di toccare l’oggetto del tuo desiderio dovrai penare. Usando uno dei tuoi oggetti ci sconfiggerai. Attento, hai solo una possibilità. Se sbaglierai donerai la tua vita". L’idea di morire non solleticava affatto Carlo. Temendo la fine, era disperato di non aver potuto salutare Miriam per un ultima volta. E capiva di essere affezionato ai suoi maestri e ai suoi amici compagni di avventure. Chissà dove si trovavano. La voce di uno dei mostri cominciò a scandire i secondi che aveva per scegliere. "Nove, otto, sette sei, cinque, quattro...". Al tre Carlo preso dal panico afferrò la prima cosa che gli capitò, la freccia d’oro, e la scagliò lontano. Era l’oggetto giusto. I mostri sparirono. La freccia afferrò la chiave e la portò alle mani di Carlo. Successivamente la freccia sparì. Aveva tutte le chiavi. Il Druido lo salutò il ragazzo. E il mago portò Carlo davanti ad una porta d’avorio con deliziosi effigi d’oro Un purpurì di gemme impreziosivano ancor più la porta. Aveva dodici piccole serrature. Carlo infilò la chiave. La porta si aprì. Le chiavi sparirono. E al loro posto apparve il ciondolo di Lado. Intanto nel castello di Barden il piccolo elfo piangeva la perdita. Carlo entrò. Era la prima stanza del luogo. Un luogo orribile. Figure di uomini disperati uscivano per metà dalla parete. C’erano statue di persone pietrificate nel tentativo di scappare. Una voce triste cominciò a parlare da dietro una colonna. Era una voce femminile. Carlo ne scorse l’ombra. Era una bellissima donna greca, ma al posto dei capelli aveva piccoli serpenti verdi e gialli. Carlo aveva letto di lei sul libro di scuola. Si trattava di Medusa. Il mostro della mitologia che pietrificava chi la guardava negli occhi. La leggenda diceva che la ragazza era una vestale. Essendo una donna bellissima un ragazzo si innamorò di lei. Lei lo ricambiava e una sera andò da lui lasciando spegnere la fiamma che doveva controllare. La dea arrabbiata la punì. Tramutandola in quell’essere. Carlo strappò un pezzo di vestito dalla manica e se la legò intorno agli occhi. Cominciò ad avanzare cercando di non farsi scoprire. L’essere però lo aspettava e con voce molto triste, ma decise disse: "O tu mortale non vedi la vera medusa che morì per opera di un eroe facendone scaturire dal collo Pegaso. Vedi la sua ombra terrena che cerca pace". Carlo guidato da una forza invisibile, dettata dal veggente aprì il portagioie. Che mostro illusioni di un luogo perfetto. Medusa si rivide col suo vero aspetto. E la donna fu libera dal maleficio. Lascio la stanza di medusa e vide un apertura che dava su una grotta. Entrò e l’apertura da cui era entrato sparì. Era una grotta senza vie d’uscite. Su un tavolino di cristallo al centro era posizionato un grande libro. Filtrava un pòl di luce come un riflettore o una luce mistica illuminava il testo. Aveva le rilegature in madreperla e oro. Il titolo scritto con perle, una dietro l’altra formando parole. Attorno al titolo il libro era tempestato di pietre preziose e lacrime di drago cristallizzate. Era in stile medievale. La copertina era foderata di seta rossa tinta con la porpora. E le pagine erano in pelle di daino. Carlo lesse il titolo a bassa voce come se con un suono troppo alto il libro sparisse. Diceva:"Il piffero del satiro". Il titolo lo incuriosì e lo apri con delicatezza. Parlava di una driade dei boschi. Che aveva affrontato Cerbero e Caronte, la sfinge, la chimera, il minotauro, gli spiriti, re e cavalieri, divinità di ogni tempo e luogo. Tutto per riprendere il piffero di un satiro. Fatto di canne, ma col potere di far diventare buono chiunque. Al satiro serviva per il vecchio drago. Senza sentire più le dolce noti il centenario animale stava morendo di dolore. La driade era tornata quando il drago ormai stava morendo. Diede lo strumento al satiro che cominciò a suonare una ballata su centauri e sileni. Ormai era troppo tardi e il drago morì. Dopo la sua morte scomparve e al suo posto c’era un uovo di drago circondato da fiori. Da cui, seguendo il ritmo della musica, nacque un piccolo drago. Il libro si chiuse e scomparve. Doveva essere scritto a mano da un invisibile amanuense. Le lettere con cui iniziavano le frasi all’inizio delle pagine erano pesci o serpenti dipinti di rosso. Le parole normali erano nere, piccole, vicine, ma leggibili facilmente. C’erano splendide illustrazioni. Era arrivato il momento di uscire da quel luogo.    Sapeva che quel libro aveva un significato allegorico. Si girò e vide apparire la dama della verità. Anche se Carlo non l’aveva mai vista seppe che era lei. Aveva un vestito verde che sembrava un pezzo di arcobaleno. Lui l’aveva sempre immaginata come la giustizia con una bilancia in mano. Lunghi capelli biondi, dolci occhi neri velati dal pianto. Un sorriso triste, ma rincuorante e dolce. Con voce gentile chiese a Carlo se sapeva perché aveva lasciato i genitori senza avvertire. Carlo rispose che in realtà i suoi genitori lo usavano come  strumento per fama e soldi. La dama gli chiese perché allora da piccolo lo avevano fatto giocare a nascondino e con le spade di legno. Il ragazzo rispose che evidentemente si erano accorti del suo potere e col gioco del nascondino ci avrebbero guadagnato. Non mostrando la sua dote di diventare invisibile a nessuno per paura di veder portato via la loro macchina crea soldi. E lo avevano fatto giocare con le spade per far si che sin da piccolo si sapesse difendere e non gli potesse accadere niente di male. Niente Carlo uguale niente denaro. La verità gli disse che quel che aveva detto non era falsità. E gli raccontò le sue vere origini: "Tu sei figlio del re Auron discendente della casata degli oggetti di reis, sovrano della Luna di Iego. Il suo compito era vigilare sugli oggetti che avrebbero condotto alla gemma magica del bene. Il cuore rappresentava la purezza e la rosa: l’amore e l’amicizia che da esso scaturisce. Solo l’erede al trono potrà estrarlo col ciondolo. Ci vorrà però anche l’uso della spada dalle gocce d’acqua pietrificate". Carlo ribatté che sia il ciondolo che la spada erano di Lado. Con la stessa voce lei rispose: "Il re sposò la regina elica Minaschein del pianeta degli elfi dorati ormai andato distrutto. Per questo tuo fratello gemello è un elfo". Se non fosse stata la dama della verità, Carlo le avrebbe dato della bugiarda. Un idea gli balenò all’improvviso e curioso e pieno di speranza chiese: "I nostri genitori sono ancora vivi". La dama rispose: "Di questo non posso parlare. Tu lo dovrai scoprire. Ti dirò invece che Ricard in realtà e una ragazza di nome Energy. Che vuole vendicare il fratello Ricard. Altri non è che lo smemorato Michelangelo. I capelli e gli occhi sono uguali, ma la voce e il corpo sono così irriconoscibili che nemmeno la sorella lo ha riconosciuto. E tuo dovere fermarla prima che compì un gesto che le potrebbe costare la vita. Ti dirò anche che se userai la leva del suo cuore Lindar ti aiuterà". Poi svanì. Carlo si chiese chi era Lindar. Come mai  lui è suo fratello erano finiti sulla terra e in due luoghi diversi. E tanti altri quesiti ancora. Al posto della dama apparve una grande torcia dal fuoco blu con occhi e bocca di lava. Ghignava prendendosi gioco di Carlo. Mostrando graffiti che il ragazzo non aveva notato prima. Raffiguravano le arpie. Mostri orribili metà uccello e metà donna. Mangiavano a un banchetto dentro un tempio in maniera voltastomachevole. Facendo feci subito dopo ovunque. Stavano su una bellissima isola. In cui viveva un povero cieco. A Carlo ricordò il veggente. Anzi forse era lui. Continuando sul muro si vedeva arrivare una nave troiana. Da cui scendeva un eroe che cacciava le arpie. Appena l’eroe se ne fu andato le arpie tornarono. Però il momentaneo allontanamento di quegli esseri aveva rotto l’incantesimo in cui si trovava il cieco. Raffigurato in catene magiche luminescenti che si spezzano. L’uomo a quel punto scomparì dall’isola e riappariva sulla Luna di Iego. Qui era stato accolto dai regnanti. E lui in riconoscenza li aveva aiutati come mago di corte, stile Merlino. Le dinastie si succedettero. Stanco di quella vita il veggente dopo secoli si congedò dai regnanti di quel momento e andò a vivere solo in una grotta nelle profondità marine. Quando però arrivò tre ere dopo Barden, riunendo gli esseri malvagi e marci del pianeta dalle prigioni e dagli antri oscuri, il veggente preparò il suo piano. Salvò i figli del re. L’uomo tra gli uomini, l’elfo tra gli elfi. Le cose preziose agli elfi non pieni di cupidigia. Il bambino coi poteri tra i gelosi che lo avrebbero protetto come oro. Alla fine Carlo vide che c’era un suo ritratto. In cui era bianco come un cadavere, con due grosse occhiaie e i capelli arruffati in cui diceva: "Apriti sesamo" (Fantasia NdLettori) (Uffa, a me funziona sempre quando si apre il garage NdA). Era la famosa frase di Alì Babà. La pronunciò e un pezzo di roccia si spostò aprendo un passaggio. All’interno c’era un armatura e una spada identiche a quelle di Lado. Con accanto un unicorno bianco purosangue. Però non poteva toccarli. Sarebbero apparsi alla battaglia definitiva contro Barden. Vide anche per terra un piccolo Cerbero d’avorio. In preda alla magia che aleggiava forte in quel luogo da secoli l’oggettino volò e si appoggio sul corno come se non aspettasse altro. Fu come se partisse un congegno insito nel corno. Come se l’oggetto fosse la molla di un carion, in questo caso il corno. Il corno suonò una marcia di guerra. Che infuse tanto coraggio a Carlo che decise che l’avrebbe suonata alla grande lotta contro il Generale. Di contrasto all’ultima nota della carica provenì una nenia triste. Sembrava venisse dalle stesse pareti. Nella mente del ragazzo apparve l’immagine di un’elfa con una corona di foglie della foresta pietrificata. Successivamente vide un giovane re con una corona d’oro, ma semplice e priva di gemme. In braccio al re c’era un piccolo bambino con appena un ciuffetto di capelli neri e tipici occhi blu intenso dei neonati. Poi accanto a lui di nuovo l’elfa. Nelle braccia dell’elfa stava invece, in una piccola coperta blu si seta, un piccolo neonato con  gli occhi viola, un ciuffetto di capelli verdi e minuscole orecchie a punta. Ancora dopo apparve un enorme castello. A cui si sovrapponeva l’immagine delle rovine in cui si era trasformato. I una c’erano enormi vetrate di mille colori che raffiguravano animali leggendari e eroi valorosi del passato. Nell’altra le grandi mura con le vetrate erano crollate, lasciando per terra grandi rocce e frammenti di vetri multicolori. A una visione, tra quelle in cui tutto era nel massimo splendore, Carlo rimase sconvolto. Il re, che ormai il ragazzo aveva capito essere suo padre, stava stipulando un patto di alleanza con la regina delle fate e con la regina del lago che stava racchiusa in una bolla piena d’acqua. Carlo non ebbe bisogno di vedere immagini. Era stato alle rovine dell’antica città delle fate. E aveva saputo dello stermino delle fate. Ed era andato nelle profondità del lago vedendo quel popolo sottomesso, nei cui cuori era rimasta la scintilla della libertà. Vide sorgere un altro castello sulle rovine di quello dei suoi antenati. E molti altri castelli nelle isole intorno come sentinelle nere sulle onde del mare. E sapere che il castello nero di Barden aveva distrutto ciò che rimaneva di quel antico luogo dei suoi avi lo fece star male. Vide i ritratti degli antichi re strappati. Bellissime statue di antiche dame gettate in terra frantumate. Sentì solo la voce rauca del malefico Generale che urlava: "Non fate prigionieri". Vide la regina sua madre in un abito bellissimo del seicento, ma semplice. Aveva i capelli in uno chignon che era tenuto insieme da mille spille. Aveva nei capelli un diadema d’argento, impreziosito con quarzi. Il re era accanto a lei con un abito regale e un mantello di porpora. Aveva la stessa corona delle visioni precedenti. Stavano festeggiando la nascita dei loro figli. Quando irruppe Barden circondato da orribili esseri che una volta dovevano essere stati uomini. Il re si fece avanti per combattere. In quel momento la musica finì. La visione si interruppe. Carlo ci mise un po’ a tornare alla realtà. Il piccolo oggettino si staccò dal corno e si frantumò. A quel piccolo rumore apparve una botola. Carlo gli si avvicinò e l’aprì. C’erano dei gradini che portavano sempre più in basso. Ai lati c’erano delle torce di un azzurro che andava sul bianco. Decise di scendere. Non vedeva l’ora di recuperare la gemma. Tornare da Miriam, dai suoi compagni, dai draghi e dai maestri. Era stufo di tutta quell’avventura. Aveva scoperto tutto in troppo poco tempo. Cominciò a scendere. La scala gli sembrò infinita. Si addentrava sempre più in profondità. Arrivò ad un canneto. Si ricordò di una foto della Cina con canne di bambù ovunque. Sembrava finito proprio in quella foto. Però era al buio e non c’era nessun simpatico panda. Si sentivano però i suoni della giungla e della foresta pluviale. In una canna spezzata gracchiava una raganella. Vedendo quel piccolo animale Carlo si rincuorò. Andando avanti facendosi largo tra le foglie arrivò a un grande specchio. Era di quercia, molto antico. In stile barocco. Con due aironi scalfiti ai lati. Il vetro riluceva come se riflettesse la luce lunare, ma lì luna non c’era. Al di sopra c’era scritto: "Conosci te stesso". La famosa frase del filosofo greco Socrate.(Questo dimostra che per l'esame che mi devo dare ho studiato troppo NdA).  Nello specchio c’era l’immagine riflessa di Carlo. Non era altro che un riflesso. Appariva come il vero Carlo. In realtà non esisteva. Però c’era qualcosa di strano. Anche se era simile in tutto e per tutto aveva uno sguardo cattivo. E capì. Stava vedendo i vari aspetti di se stesso nello specchio. In quel momento il suo lato negativo. Doveva liberarsi dal suo odio per il Generale Barden. O almeno mitigarlo in risentimento. Poi venne la volta in cui si vide come un ragazzino, un bambino spaurito. Doveva sconfiggere la paura che c’era in lui. Con coraggio avrebbe dovuto vincere il nemico e con Lado prendere il trono che gli spettava di diritto. Poi vide riflessa nei suoi occhi Miriam. Doveva accettare quell’amore e dirle tutto. Poi si vide stanco. Si ricordò anche del graffito della grotta. Doveva accettare i suoi limiti fisici. Tentare si superarli senza indebolirsi fino al cedimento. Non era semplice, ma doveva provarci. Gli risuonarono alle orecchie le parole del suo maestro. Aido gli aveva detto: "Arrendersi è facile. Il vero uomo si mostra riuscendo dove chiunque potrebbe fallire". Carlo avanzò ancora in quella foresta di giunchi. Continuò così a lungo. Forse per delle ore o forse per poco tempo che al ragazzo sembrò lunghissimo. Alla fine quando si ritrovò a una canna un po’ storta che credeva di aver passato più volte si fermò. Si sedette per terra e appoggiò la testa alla canna. Sentì piccoli passi intorno. Anche se era buio scorse tanti occhi rossi. E più quegli esseri si avvicinavano, più prendevano forma. C’erano esseri a forma di ragno. Piccoli grinich. Orribili pipistrelli. Lupi mannari. Mani bianche di morto. Orribili vampiri. Il ragazzo si alzò di scatto come se la terra sotto di lui avesse cominciato a scottare. Prese a correre senza voltarsi indietro. I suoi inseguitori gli erano sempre più vicini. Poteva sentire il loro fiato sul collo. Finche non andò a sbattere contro lo specchio. Aveva sentito dire che gli spiriti malvagi che sin dalla nascita vivevano nell’oscurità non sopportavano il loro riflesso allo specchio. Il ragazzo prese l’enorme  specchi e lo voltò un attimo prima che gli esseri gli saltassero alla gola. Appena videro la luce dello specchio fu come se un fuoco interno ardesse nelle loro viscere facendoli bruciare. Finche non divennero polvere in pochi secondi. Ancora un po’ scosso si mise in marcia. Avanzò verso quella che gli sembrava una luce lontana. Quando sentì dei fievoli versi striduli. Si abbassò e raccolse un piccolo tesserino. Guardandolo gli ispirò tenerezza. Era una piccola palla di pelo bianco. Con due piccole zampine anch’esse ricoperte di morbido pelo color neve. Aveva cinque grandi occhi verdi. Gli occhietti erano vitrei e teneri. Ne aveva uno al centro della fronte. Due come gli esseri umani. E due lì vicino. Aveva anche una piccola boccuccia. L’animaletto non parlava faceva solo versi. Carlo decise di chiamarlo: “Pelosino”. L’esserino lo guardava con occhicodì dolci e spaventati che il ragazzo pensò si fosse perso e fosse totalmente innocuo. Preso dalla tenerezza e dalla compassione decise di portarlo con se. Pelosino si mise sulla sua spalla come un pappagallo dei pirati. Anche se l’effetto era molto più strano. Carlo si mise in marcia con l’esserino che si strofinava alla sua faccia facendo l’equilibrista per rimanere appollaiato sulla sua spalla. Dovevano essere stati quegli esseri a far smarrire la via Carlo, perché senza di loro riuscì ben presto a uscire dalla foresta di giunchi. Il luogo in cui si ritrovò non era certo migliore. Una vasta e fetida palude. Con acqua gialla che ribolliva. Fango e melma ovunque. Forse uno o due alberi spogli. Sembravano morti e bruciati. Alzavano i loro esili rami come mani in supplica di aiuto. Sembrava che la desolazione e la morte regnassero in quel luogo. L’aria era irrespirabile. Anche se ci fosse stato il sole non avrebbe potuto vederlo. Il cielo era coperto da una spessa coltre di nubbi nere. Si ricordò le prime regole nelle paludi dei luoghi magici. Non seguire voci o luci, non allontanarsi da quello che sembra un sentiero e stare attenti alle sabbie mobili. Ad ogni passo gli sembrava di perdere energie. Si sentiva stanco. Una strana depressione gli raggelava il cuore. Si sentiva confitto. Come faceva un semplice ragazzino a sconfiggere un Generale? Un uomo che era riuscito a conquistare un intero pianeta. Pensò che era solo, senza più i suoi amici e i maestri. L’immagine di Miriam, uno dei motivi per cui non si era ancora arreso, si allontanò dalla sua mente. Più cedeva sotto il peso di quei pensieri, più affondava nella palude. Arrivato a essere sommerso fino al bacino, scivolò lentamente nell’incoscienza. Rimase a lungo privo di sensi. E sognò. Vide Miriam. Gli si stava avvicinando con passo leggero. Accennando dei passi di danza. Seguendo una musica impercettibile. Piangeva, ma cercava di rimanere seria. Diceva parole antiche. Arrivata davanti a lui si chinò. Si mise in ginocchio e lo baciò sulla fronte. E disse: "Quello che vedi e l’incantesimo di protezione che Miriam lanciò per proteggerti. Riprenditi". Si svegliò di colpo e vide che Pelosino gli stava leccando la faccia. Quello strano sogno gli diede abbastanza energia per uscire da quella fanghiglia. Anche se a fatica si rimise in viaggio. Quando dal fango uscì uno strano essere. Era un grande coccodrillo. Al posto delle zampe anteriori aveva le mani. Al posto delle zampe posteriori i piedi. Sembrava deciso ad aggredire il ragazzo. Si mise a correre verso Carlo. Aprì le fauci e mostrò i suoi terribili canini. Agitò la coda e con un colpo secco aprì un enorme falla nel terreno. Carlo si rese invisibile. Perché non lo aveva fatto nel canneto non lo sapeva nemmeno lui. Il ragazzo se ne sarebbe scappato non visto se Pelosino non fosse rimasto visibile. Doveva salvare il suo nuovo piccolo animaletto. L’unico che gli aveva dato conforto in quel luogo. Saltò in groppa al coccodrillo gigante. Le mani e i piedi dell’essere non resistettero e il rettile cadde sulla pancia. Il ragazzo gli tenne chiusa la bocca. La legò con la sua cintura. L’essere disarcionò Carlo. Il coccodrillo era pazzo di furore. Aprì la bocca rompendo la cintola.  Si mise a saltare ringhiando. Doveva essere quello il verso degli antichi dinosauri che abitavano sul pianeta miliardi di anni fa. Le scaglie del rettile sembrarono divenire più forti. Le mani e piedi divennero le normali zampe. Senza accorgersene il coccodrillo andò indietro. E cadde rovinosamente nella buca che lui stesso aveva aperto. Nella voragine il mostro trovò la morte. Pelosino scappò. Carlo si mise a rincorrerlo. L’esserino lo condusse fuori dalla palude. Appena uscito quella sensazione di sconfitta scomparve. Si ritrovò in un prato. Anche se non c’era la luce del sole ed era notte si vedevano, grazie alla luce prodotta, centinaia di lucciole. Sembrava un posto felice e tranquillo. Il danzare dei piccoli insetti rilucenti era tanto bello, ammaliante, quasi ipnotico. Tutto intorno c’erano le belle di notte. Che sbocciavano solo quando il sole andava a dormire e si richiudevano alla stella di Venere. Si sentiva come se avesse bevuto un’intera bottiglia di vino. Forse era la felicità di essere scampato alla palude. Forse un altro incantesimo. Non se ne preoccupò. Voleva godersi quella sensazione di pace. Sembrava di esserein estate. Il caldo torrido, la stella polara lontana e la stella di Sirio splendente. A poco a poco il figlio della notte, fratello minore della morte: il sonno, lo prese con se. Non sapeva che tutto quello era causato dal profumo magico di una piccola rosa bianca nascosta dietro una bella di notte. Più Carlo veniva incantato più la rosa diveniva rossa. Se poi avesse continuato sarebbe divenuta nera tramutandolo in una bella di notte. Erano stati uomini tutte le altre piante di quei dolci fiori. Destinati a non vedere più la luce del sole. Pelosino era immune al suo effetto, non avendo naso. Aveva un compito segreto da attuare. Prima di tutto evitare la morte o la trasformazione di Carlo. Con la sua vista più acuta di un aquila, che vuoi con cinque occhi, scovò la rosa. Con le sue veloci zampine la distrusse. L’incanto si ruppe. Carlo si svegliò. Era ancora nella palude. Intanto persone addormentate di ogni specie. Libere dall’incanto furono teletrasportato alle loro dimore lontane. Il ragazzo non sapeva quello che era successo e non immaginava che quel piccolo animale avesse sconfitto un illusione tanto forte. Alzandosi notò una grande lavagna. Come quelle di scuola. Era nera e lucida. Molto più grande di quelle normali. Alta almeno come una parete. Era del tutto illogico che si trovasse lì in mezzo al nulla comparsa all’improvviso. Tutto intorno c’era la palude. Ci appoggio la mano per vedere se fosse vera e vide che l’attraversava. Non arrivava dall’altra parte, rimaneva all’interno della lavagna. Arrivò Pelosino correndo e l’attraversò sparendo nelle lavagna. Doveva essere una sorta di porta, di passaggio. Era preoccupato. Non sapeva dove portava. Pensò che ovunque però, sarebbe stato meglio che lì. Carlo infilò la testa per vedere. Fu risucchiato. E dopo avere fatto un viaggio che lo aveva sballottato, arrivò in un luogo da fiaba. Quello che vedeva in cielo non poteva essere il sole vero. Aveva due occhi giovali, un naso un naso all’insù e un gran sorriso. Gli faceva l’occhiolino. Gli uccellini invece di cinguettare, cantavano: "Ciao, ciao, ciao". Gli animali erano più grandi del normale e parlavano. Vide Pelosino che saltellava. L’animaletto aveva compiuto la sua missione. Quel popolo era amico del veggente. Che li aveva avvertiti dell’arrivo del ragazzo. Carlo fu accolto dai genitori di Pelosino. Senza saper di aver indovinato il nome dell’esserino. Il padre di Pelosino era azzurro. La madre rossa con macchie gialle. Erano per il resto identici, forse un po’ più grandi di altezza. Al contrario del cucciolo parlavano. Si fecero raccontare le avventure del giovane e decisero di aiutarlo. In cambiò però dovette fargli dei favori. Raccogliere il miele dalle api assassine per l’orso. Arare i campi del maiale-fattore che erano immensi. Costruire la stalla dell’asino gigante. Camminare sulle braci ardenti per far divertire la iena. Abbattere alberi per il castoro. Aiutare a fabbricare le armi per il toro. Costruire un nido, lui lo fece come un cesto di canne col fondo riempito d’erba, per il passero. Fare i massaggi col piede al porcospino. Far restare il ghiro per mezz’ora. E tante altre. Alcune pericolose, altre dolorose, altre faticose, ma tutte fattibili. (Mi rivolgerò al comitato dei personaggi. Nella storia tu mi sfrutti NdCarlo) (No, che dici? L'hai passato l'aspirapolvere? NdA). Alla fine salutò i nuovi alleati. E fu teletrasportato alla città sotterranea dei nani. Dove lo aspettava un pericoloso essere. Se lo ritrovò davanti. Doveva essere una specie di troll. Sembrava un pezzo di montagna che si fosse staccato e avesse preso vita. Aveva uno sguardo ebete, ma assolutamente feroce. In mano aveva una mazza bitorzoluta. Sembrava avesse sradicato un albero e lo avesse livellato dandogli quella forma a suon di colpi. Aveva un alito appestante. E Carlo notò che puzzava come il suo prozio Molt. Anzi non era veramente uno zio. Lui era il fratello del padre adottivo. L’essere portava una cotta di maglia con disegnata la Fama. (Era un mostro alato fornito di occhi, orecchie e bocca in ognuna delle sue penne. Vola sempre. E porta le notizie, anche private, ovunque.NdA ficcanaso con libro degli animali mitici in mano). Il troll aveva volto feroce, atroce cuore e nemmeno un briciolo di cervello. Il suolo di quella grotta sembrava tiepido di strage recente. Chissà quanti fili a causa sua avevano tagliato le Parche. Erano affissi in giro e pendevano bianchi teschi che la putrefazione aveva scarnito. Sembrava reso folle dalle famose Furie. Che aleggiavano in quel luogo indisturbate dalla guerra contro Barden. I nomi delle furie erano Aletto, Tisifone e Megera. Visi torvi e capelli. Sono nate dal sangue dei primi Dei. I nani erano un popolo pacifico. Che però contava solo su se stesso. Amante delle pietre preziose e dei metalli luccicanti.. Scavavano nelle profondità della terra. Alcune volte fin troppo in basso. Costruivano le case per gli anziani e per i bambini sulle cime dei monti incavandole fino a renderle confortevoli. Le donne stavano nelle case sotterranee. Dove c’era abbastanza luce artificiale di torce magiche, ma né sole né elettricità. C’erano giardinetti di licheni per allietare la vita alle giovani ragazze. Allevavano le talpe come cani da fiuto per cercare i funghi. I pipistrelli come animaletti. I maschi passavano tutto il tempo a lavorare. Erano avanzatissimi nei materiali e nei mezzi di scavo e di costruzioni. Fino a perdere la loro bravura nel combattimento. A furia di lavorare curvi divennero anche più bassi. Il lento movimento gli fece perdere velocità. A furia di lavorare a catena di montaggio persero l’ingegno e l’astuzia. Quando Barden li aveva attaccati, aveva vinto senza difficoltà. Aveva estratto il possibile. E quando non c’era stato più niente l’aveva abbandonato lasciando quell’essere che dormiva lì da secoli e secoli immobile. Il ragazzo afferrò una lancia che giaceva a terra staccandola dal cadavere di un archetto e la lanciò contro il troll. Il mostrò grido di rabbia e di paura. Non si aspettava che quel moscerino l’attaccasse. L’arrivo del ragazzo portò la speranza della sconfitta del nemico. Le furie svanirono. Al loro posto apparvero delle driadi. Anche se erano lontane dai loro alberi. Più l’essere cercava inutilmente di colpire Carlo che sgusciava come un furetto, più si inferociva. Carlo vide uno scudo a mezzaluna come quello delle amazzoni. Ricordò il loro stile di combattere. Roteavano i bastoni spaventando e confondendo l’avversario. Poi colpivano con bravura abbattendo il nemico. Con il troll, gli sarebbe proprio servito un esercito di amazzoni scatenate. Il punto debole dei troll di solito era il collo, ma quell’essere ne era sprovvisto. La testa era famosa per quanto era dura, come la roccia. Forse solo la sua clava l’avrebbe potuto abbattere. Tutto il corpo non era da prendere in considerazione. Era rimasto fermo immobile, immutabile a dormire per secoli e secoli senza mai cedere. Addirittura sopra la sua spessa pelle erano cresciuti funghi,  erbacce e licheni. La cotta di maglia non si era per niente modificata, nemmeno arrugginita. Cominciava a essere stanco di saltare qua e là schivando la clava. Non capiva perché anche se era invisibile il troll riusciva a vederlo. Forse grazie a l’odore, forse aveva lo sguardo che captava il calore, forse i raggi x. Comunque fosse era una situazione critica. Coi muscoli non avrebbe risolto niente doveva usare il cervello. Ecco la soluzione. Il troll non pensava. Doveva confonderlo. Prese in mano delle pietruzze. E cominciò a fare il giocoliere. Il troll si fermò confuso. E dopo il primo attimo di sconcerto, cominciò a divertirsi. Buttò giù la clava. Che sbatté per terra con gran rumore. E più il ragazzo andava avanti con quel giochino che gli aveva insegnato il nonno adottivo. Più il troll si eccitava. Si mise a danzare. Sembrava un orso col dolore alla zampe. Il terreno vibrava. Carlo fece una gran fatica per rimanere in piedi e una gran fatica per continuare il suo numero da giocoliere. La felicità fu tale che l’essere si tramutò in acqua fresca. E scivolò via come una piccola fonte. Il ragazzo fu preso alla sprovvista da quella trasformazione. La sua idea era di ipnotizzare il troll che sarebbe caduto a terra addormentato. In quel luogo poteva succedere di tutto. E questo fu comprovato dal fatto che Carlo vide sparire tutto quello che aveva intorno. Come se una gomma invisibile stesse cancellando tutto. Si ritrovò nel nulla. Al buio. Con strano oggetti dalle forme geometriche che vagavano vicino e intorno. C’era una porta. Superò un simbolo. O era l’infinito o era un otto. Aprì la porta. C’era una stanza. Finalmente qualcosa di normale. Entrò nella stanza. Era di marmo bianco e nero. Sia i muri che il pavimento a scacchiera. Anche qui non c’erano finestre. Non vedeva la luce del sole dalla porta in cui aveva infilato le chiavi. La porta da cui era passato per entrare nella stanza in ebano con una forma anonima, priva di stile. Si era chiusa sola appena entrato. Il marmo riluceva rischiarando.  All’angolo c’era una statua di un uomo. Con grandi baffi. Una faccia cattiva. Un cilindro. Il monocolo. Un panciotto stretto. E un lungo pantalone che nascondeva le scarpe. Il ragazzo decise di uscire. Di fronte c’era la porta che lo avrebbe condotto altrove. Era identica all’altra. Superò la porta. Anche questa si chiuse a scatto dietro di lui appena varcata la soglia. La statua era identica con una statua precisa alla precedente. Dopo la stanza un'altra. Un'altra. Un'altra. Un'altra. Ancora un'altra. Tutte identiche. Con la stessa statua nello stesso posto. Fu come se un fulmine gli trapassasse da una parte all’altra il cervello sconquassandolo. Aveva capito. Era un altro incantesimo. Era il labirinto preannunciatogli. Per provarlo spostò la statua della stanza girata verso la porta da cui era entrato. Aprì la porta per uscire. Entrò in un'altra stanza. L’entrata si richiuse. E la vide. La statua era lì al centro al centro della stanza. Non c’erano più dubbi. Doveva capire cosa provocava l’incanto. Si sedette a ragionare. Come avrebbe detto Michelangelo: "Riesco a sentire gli ingranaggi e le tue rotelle in movimento" oppure  "Non pensare troppo ti fa male". (Che bella frase per concludere NdLettori) (Emh O_O" NdA).

 

 

Note:

stella del mattino

stella visibile solamente in estate

dette anche Moire, nella mitologia greca le tre dee che stabilivano il destino degli uomini

dette anche Erinni, nella mitologia  romana le tre vendicatrici facevano impazzire

Ringrazio chi mi ha messo tra i preferiti e:

Milli lil: Ora mi posso slegare dal pc? Ho le gambe anchilosate. Inoltre la frusta fa male. No scherzo. Fammi sapere se hai gradito. ciauuuuuuuu

berry345: Sono felice che ti piaccia leggere le tue storie. Spero un giorno di leggere nuovamente Help us, per ora ho recensito l'altra tua ff. Spero che il chappy ti sia piaciuto. alla prox. kiss






  
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