Ringrazio anche solo chi legge. I disegni qua sopra, rappresentanti i personaggi sono stati gentilmente forniti da mio fratello piccolo e io li apprezzo. Parere personale ovviamente. Ho deciso di inserirli adesso e tutti insieme perchè sto utilizzando il pc di un mio amico in cui ho scaricato la nuova versione del html, quella che ho io nn mi inserisce le immagini.
Il tempo alla Luna di Iego passava in modo diverso dalla terra.
Nessuno poteva immaginare che quella era la vigilia di natale. E nella
dimensione di Carlo
il tempo variava a seconda del volere del druido e del mago. E quel giorno
decisero che un secondo nella Luna fosse un ora nella dimensione. Portarono Carlo nello
Stoneighen dove al centro rivide la chiave della stelle. Carlo ci stava
già andando. Quando apparvero quattro mostri. Che insieme dissero parole
indecifrabile che pian piano divennero chiare: " Prima di toccare
l’oggetto del tuo desiderio dovrai penare. Usando uno dei tuoi oggetti ci
sconfiggerai. Attento, hai solo una possibilità. Se sbaglierai donerai la tua
vita". L’idea di morire non solleticava affatto Carlo. Temendo la
fine, era disperato di non aver potuto salutare Miriam per un ultima volta. E capiva
di essere affezionato ai suoi maestri e ai suoi amici compagni di avventure.
Chissà dove si trovavano. La voce di uno dei mostri cominciò a scandire i
secondi che aveva per scegliere. "Nove, otto, sette sei, cinque,
quattro...". Al tre Carlo
preso dal panico afferrò la prima cosa che gli capitò, la freccia d’oro,
e la scagliò lontano. Era l’oggetto giusto. I mostri sparirono. La
freccia afferrò la chiave e la portò alle mani di Carlo. Successivamente la freccia
sparì. Aveva tutte le chiavi. Il Druido lo salutò il ragazzo. E il mago portò Carlo davanti ad
una porta d’avorio con deliziosi effigi d’oro Un purpurì di gemme
impreziosivano ancor più la porta. Aveva dodici piccole serrature. Carlo infilò la
chiave. La porta si aprì. Le chiavi sparirono. E al loro posto apparve il
ciondolo di Lado. Intanto nel castello di Barden il piccolo elfo piangeva la
perdita. Carlo
entrò. Era la prima stanza del luogo. Un luogo orribile. Figure di uomini
disperati uscivano per metà dalla parete. C’erano statue di persone
pietrificate nel tentativo di scappare. Una voce triste cominciò a parlare da
dietro una colonna. Era una voce femminile. Carlo
ne scorse l’ombra. Era una bellissima donna greca, ma al posto dei
capelli aveva piccoli serpenti verdi e gialli. Carlo
aveva letto di lei sul libro di scuola. Si trattava di Medusa. Il mostro della
mitologia che pietrificava chi la guardava negli occhi. La leggenda diceva che
la ragazza era una vestale. Essendo una donna bellissima un ragazzo si innamorò
di lei. Lei lo ricambiava e una sera andò da lui lasciando spegnere la fiamma
che doveva controllare. La dea arrabbiata la punì. Tramutandola in
quell’essere. Carlo
strappò un pezzo di vestito dalla manica e se la legò intorno agli occhi.
Cominciò ad avanzare cercando di non farsi scoprire. L’essere però lo
aspettava e con voce molto triste, ma decise disse: "O tu mortale non vedi
la vera medusa che morì per opera di un eroe facendone scaturire dal collo
Pegaso. Vedi la sua ombra terrena che cerca pace". Carlo guidato da una forza invisibile,
dettata dal veggente aprì il portagioie. Che mostro illusioni di un luogo
perfetto. Medusa si rivide col suo vero aspetto. E la donna fu libera dal
maleficio. Lascio la stanza di medusa e vide un apertura che dava su una
grotta. Entrò e l’apertura da cui era entrato sparì. Era una grotta senza
vie d’uscite. Su un tavolino di cristallo al centro era posizionato un
grande libro. Filtrava un pòl di luce come un riflettore o una luce mistica
illuminava il testo. Aveva le rilegature in madreperla e oro. Il titolo scritto
con perle, una dietro l’altra formando parole. Attorno al titolo il libro
era tempestato di pietre preziose e lacrime di drago cristallizzate. Era in
stile medievale. La copertina era foderata di seta rossa tinta con la porpora.
E le pagine erano in pelle di daino. Carlo
lesse il titolo a bassa voce come se con un suono troppo alto il libro
sparisse. Diceva:"Il piffero del satiro". Il titolo lo incuriosì e lo
apri con delicatezza. Parlava di una driade dei boschi. Che aveva affrontato Cerbero
e Caronte, la sfinge, la chimera, il minotauro, gli spiriti, re e cavalieri,
divinità di ogni tempo e luogo. Tutto per riprendere il piffero di un satiro.
Fatto di canne, ma col potere di far diventare buono chiunque. Al satiro
serviva per il vecchio drago. Senza sentire più le dolce noti il centenario
animale stava morendo di dolore. La driade era tornata quando il drago ormai
stava morendo. Diede lo strumento al satiro che cominciò a suonare una ballata
su centauri e sileni. Ormai era troppo tardi e il drago morì. Dopo la sua morte
scomparve e al suo posto c’era un uovo di drago circondato da fiori. Da
cui, seguendo il ritmo della musica, nacque un piccolo drago. Il libro si
chiuse e scomparve. Doveva essere scritto a mano da un invisibile amanuense. Le
lettere con cui iniziavano le frasi all’inizio delle pagine erano pesci o
serpenti dipinti di rosso. Le parole normali erano nere, piccole, vicine, ma
leggibili facilmente. C’erano splendide illustrazioni. Era arrivato il
momento di uscire da quel luogo. Sapeva che quel libro aveva un
significato allegorico. Si girò e vide apparire la dama della verità. Anche se Carlo non
l’aveva mai vista seppe che era lei. Aveva un vestito verde che sembrava
un pezzo di arcobaleno. Lui l’aveva sempre immaginata come la giustizia
con una bilancia in mano. Lunghi capelli biondi, dolci occhi neri velati dal
pianto. Un sorriso triste, ma rincuorante e dolce. Con voce gentile chiese a Carlo se sapeva
perché aveva lasciato i genitori senza avvertire. Carlo rispose che in realtà i suoi
genitori lo usavano come strumento per fama e soldi. La dama gli chiese
perché allora da piccolo lo avevano fatto giocare a nascondino e con le spade
di legno. Il ragazzo rispose che evidentemente si erano accorti del suo potere
e col gioco del nascondino ci avrebbero guadagnato. Non mostrando la sua dote
di diventare invisibile a nessuno per paura di veder portato via la loro
macchina crea soldi. E lo avevano fatto giocare con le spade per far si che sin
da piccolo si sapesse difendere e non gli potesse accadere niente di male.
Niente Carlo
uguale niente denaro. La verità gli disse che quel che aveva detto non era
falsità. E gli raccontò le sue vere origini: "Tu sei figlio del re Auron
discendente della casata degli oggetti di reis, sovrano della Luna di Iego. Il
suo compito era vigilare sugli oggetti che avrebbero condotto alla gemma magica
del bene. Il cuore rappresentava la purezza e la rosa: l’amore e
l’amicizia che da esso scaturisce. Solo l’erede al trono potrà estrarlo
col ciondolo. Ci vorrà però anche l’uso della spada dalle gocce
d’acqua pietrificate". Carlo
ribatté che sia il ciondolo che la spada erano di Lado. Con la stessa voce lei
rispose: "Il re sposò la regina elica Minaschein del pianeta degli elfi
dorati ormai andato distrutto. Per questo tuo fratello gemello è un elfo".
Se non fosse stata la dama della verità, Carlo
le avrebbe dato della bugiarda. Un idea gli balenò all’improvviso e
curioso e pieno di speranza chiese: "I nostri genitori sono ancora
vivi". La dama rispose: "Di questo non posso parlare. Tu lo dovrai
scoprire. Ti dirò invece che Ricard in realtà e una ragazza di nome Energy. Che
vuole vendicare il fratello Ricard. Altri non è che lo smemorato Michelangelo.
I capelli e gli occhi sono uguali, ma la voce e il corpo sono così
irriconoscibili che nemmeno la sorella lo ha riconosciuto. E tuo dovere
fermarla prima che compì un gesto che le potrebbe costare la vita. Ti dirò
anche che se userai la leva del suo cuore Lindar ti aiuterà". Poi svanì. Carlo si chiese
chi era Lindar. Come mai lui è suo fratello erano finiti sulla terra e in
due luoghi diversi. E tanti altri quesiti ancora. Al posto della dama apparve
una grande torcia dal fuoco blu con occhi e bocca di lava. Ghignava prendendosi
gioco di Carlo.
Mostrando graffiti che il ragazzo non aveva notato prima. Raffiguravano le
arpie. Mostri orribili metà uccello e metà donna. Mangiavano a un banchetto
dentro un tempio in maniera voltastomachevole. Facendo feci subito dopo
ovunque. Stavano su una bellissima isola. In cui viveva un povero cieco. A Carlo ricordò il
veggente. Anzi forse era lui. Continuando sul muro si vedeva arrivare una nave
troiana. Da cui scendeva un eroe che cacciava le arpie. Appena l’eroe se
ne fu andato le arpie tornarono. Però il momentaneo allontanamento di quegli
esseri aveva rotto l’incantesimo in cui si trovava il cieco. Raffigurato
in catene magiche luminescenti che si spezzano. L’uomo a quel punto
scomparì dall’isola e riappariva sulla Luna di Iego. Qui era stato
accolto dai regnanti. E lui in riconoscenza li aveva aiutati come mago di
corte, stile Merlino. Le dinastie si succedettero. Stanco di quella vita il
veggente dopo secoli si congedò dai regnanti di quel momento e andò a vivere
solo in una grotta nelle profondità marine. Quando però arrivò tre ere dopo
Barden, riunendo gli esseri malvagi e marci del pianeta dalle prigioni e dagli
antri oscuri, il veggente preparò il suo piano. Salvò i figli del re.
L’uomo tra gli uomini, l’elfo tra gli elfi. Le cose preziose agli
elfi non pieni di cupidigia. Il bambino coi poteri tra i gelosi che lo
avrebbero protetto come oro. Alla fine Carlo
vide che c’era un suo ritratto. In cui era bianco come un cadavere, con
due grosse occhiaie e i capelli arruffati in cui diceva: "Apriti
sesamo" (Fantasia NdLettori) (Uffa, a me funziona sempre quando si apre il
garage NdA). Era la famosa frase di Alì Babà. La pronunciò e un pezzo di roccia
si spostò aprendo un passaggio. All’interno c’era un armatura e una
spada identiche a quelle di Lado. Con accanto un unicorno bianco purosangue.
Però non poteva toccarli. Sarebbero apparsi alla battaglia definitiva contro
Barden. Vide anche per terra un piccolo Cerbero d’avorio. In preda alla
magia che aleggiava forte in quel luogo da secoli l’oggettino volò e si
appoggio sul corno come se non aspettasse altro. Fu come se partisse un
congegno insito nel corno. Come se l’oggetto fosse la molla di un carion,
in questo caso il corno. Il corno suonò una marcia di guerra. Che infuse tanto
coraggio a Carlo
che decise che l’avrebbe suonata alla grande lotta contro il Generale. Di
contrasto all’ultima nota della carica provenì una nenia triste. Sembrava
venisse dalle stesse pareti. Nella mente del ragazzo apparve l’immagine
di un’elfa con una corona di foglie della foresta pietrificata. Successivamente
vide un giovane re con una corona d’oro, ma semplice e priva di gemme. In
braccio al re c’era un piccolo bambino con appena un ciuffetto di capelli
neri e tipici occhi blu intenso dei neonati. Poi accanto a lui di nuovo
l’elfa. Nelle braccia dell’elfa stava invece, in una piccola
coperta blu si seta, un piccolo neonato con gli occhi viola, un ciuffetto
di capelli verdi e minuscole orecchie a punta. Ancora dopo apparve un enorme
castello. A cui si sovrapponeva l’immagine delle rovine in cui si era
trasformato. I una c’erano enormi vetrate di mille colori che
raffiguravano animali leggendari e eroi valorosi del passato. Nell’altra
le grandi mura con le vetrate erano crollate, lasciando per terra grandi rocce
e frammenti di vetri multicolori. A una visione, tra quelle in cui tutto era
nel massimo splendore, Carlo rimase sconvolto. Il re, che ormai il ragazzo
aveva capito essere suo padre, stava stipulando un patto di alleanza con la
regina delle fate e con la regina del lago che stava racchiusa in una bolla
piena d’acqua. Carlo non ebbe bisogno di vedere immagini. Era stato alle
rovine dell’antica città delle fate. E aveva saputo dello stermino delle
fate. Ed era andato nelle profondità del lago vedendo quel popolo sottomesso,
nei cui cuori era rimasta la scintilla della libertà. Vide sorgere un altro
castello sulle rovine di quello dei suoi antenati. E molti altri castelli nelle
isole intorno come sentinelle nere sulle onde del mare. E sapere che il
castello nero di Barden aveva distrutto ciò che rimaneva di quel antico luogo
dei suoi avi lo fece star male. Vide i ritratti degli antichi re strappati.
Bellissime statue di antiche dame gettate in terra frantumate. Sentì solo la
voce rauca del malefico Generale che urlava: "Non fate prigionieri".
Vide la regina sua madre in un abito bellissimo del seicento, ma semplice.
Aveva i capelli in uno chignon che era tenuto insieme da mille spille. Aveva
nei capelli un diadema d’argento, impreziosito con quarzi. Il re era
accanto a lei con un abito regale e un mantello di porpora. Aveva la stessa
corona delle visioni precedenti. Stavano festeggiando la nascita dei loro
figli. Quando irruppe Barden circondato da orribili esseri che una volta
dovevano essere stati uomini. Il re si fece avanti per combattere. In quel momento
la musica finì. La visione si interruppe. Carlo ci mise un po’ a tornare
alla realtà. Il piccolo oggettino si staccò dal corno e si frantumò. A quel
piccolo rumore apparve una botola. Carlo gli si avvicinò e l’aprì.
C’erano dei gradini che portavano sempre più in basso. Ai lati
c’erano delle torce di un azzurro che andava sul bianco. Decise di
scendere. Non vedeva l’ora di recuperare la gemma. Tornare da Miriam, dai
suoi compagni, dai draghi e dai maestri. Era stufo di tutta quell’avventura.
Aveva scoperto tutto in troppo poco tempo. Cominciò a scendere. La scala gli
sembrò infinita. Si addentrava sempre più in profondità. Arrivò ad un canneto.
Si ricordò di una foto della Cina con canne di bambù ovunque. Sembrava finito
proprio in quella foto. Però era al buio e non c’era nessun simpatico
panda. Si sentivano però i suoni della giungla e della foresta pluviale. In una
canna spezzata gracchiava una raganella. Vedendo quel piccolo animale Carlo si
rincuorò. Andando avanti facendosi largo tra le foglie arrivò a un grande
specchio. Era di quercia, molto antico. In stile barocco. Con due aironi
scalfiti ai lati. Il vetro riluceva come se riflettesse la luce lunare, ma lì
luna non c’era. Al di sopra c’era scritto: "Conosci te
stesso". La famosa frase del filosofo greco Socrate.(Questo dimostra che
per l'esame che mi devo dare ho studiato troppo NdA). Nello specchio
c’era l’immagine riflessa di Carlo. Non era altro che un riflesso.
Appariva come il vero Carlo. In realtà non esisteva. Però c’era qualcosa
di strano. Anche se era simile in tutto e per tutto aveva uno sguardo cattivo.
E capì. Stava vedendo i vari aspetti di se stesso nello specchio. In quel
momento il suo lato negativo. Doveva liberarsi dal suo odio per il Generale
Barden. O almeno mitigarlo in risentimento. Poi venne la volta in cui si vide
come un ragazzino, un bambino spaurito. Doveva sconfiggere la paura che
c’era in lui. Con coraggio avrebbe dovuto vincere il nemico e con Lado
prendere il trono che gli spettava di diritto. Poi vide riflessa nei suoi occhi
Miriam. Doveva accettare quell’amore e dirle tutto. Poi si vide stanco.
Si ricordò anche del graffito della grotta. Doveva accettare i suoi limiti
fisici. Tentare si superarli senza indebolirsi fino al cedimento. Non era
semplice, ma doveva provarci. Gli risuonarono alle orecchie le parole del suo
maestro. Aido gli aveva detto: "Arrendersi è facile. Il vero uomo si
mostra riuscendo dove chiunque potrebbe fallire". Carlo avanzò ancora in
quella foresta di giunchi. Continuò così a lungo. Forse per delle ore o forse
per poco tempo che al ragazzo sembrò lunghissimo. Alla fine quando si ritrovò a
una canna un po’ storta che credeva di aver passato più volte si fermò.
Si sedette per terra e appoggiò la testa alla canna. Sentì piccoli passi intorno.
Anche se era buio scorse tanti occhi rossi. E più quegli esseri si
avvicinavano, più prendevano forma. C’erano esseri a forma di ragno.
Piccoli grinich. Orribili pipistrelli. Lupi mannari. Mani bianche di morto.
Orribili vampiri. Il ragazzo si alzò di scatto come se la terra sotto di lui
avesse cominciato a scottare. Prese a correre senza voltarsi indietro. I suoi
inseguitori gli erano sempre più vicini. Poteva sentire il loro fiato sul
collo. Finche non andò a sbattere contro lo specchio. Aveva sentito dire che
gli spiriti malvagi che sin dalla nascita vivevano nell’oscurità non
sopportavano il loro riflesso allo specchio. Il ragazzo prese l’enorme
specchi e lo voltò un attimo prima che gli esseri gli saltassero alla
gola. Appena videro la luce dello specchio fu come se un fuoco interno ardesse
nelle loro viscere facendoli bruciare. Finche non divennero polvere in pochi
secondi. Ancora un po’ scosso si mise in marcia. Avanzò verso quella che
gli sembrava una luce lontana. Quando sentì dei fievoli versi striduli. Si
abbassò e raccolse un piccolo tesserino. Guardandolo gli ispirò tenerezza. Era
una piccola palla di pelo bianco. Con due piccole zampine anch’esse
ricoperte di morbido pelo color neve. Aveva cinque grandi occhi verdi. Gli
occhietti erano vitrei e teneri. Ne aveva uno al centro della fronte. Due come
gli esseri umani. E due lì vicino. Aveva anche una piccola boccuccia.
L’animaletto non parlava faceva solo versi. Carlo decise di chiamarlo:
“Pelosino”. L’esserino lo guardava con occhicodì dolci e
spaventati che il ragazzo pensò si fosse perso e fosse totalmente innocuo.
Preso dalla tenerezza e dalla compassione decise di portarlo con se. Pelosino
si mise sulla sua spalla come un pappagallo dei pirati. Anche se
l’effetto era molto più strano. Carlo si mise in marcia con
l’esserino che si strofinava alla sua faccia facendo l’equilibrista
per rimanere appollaiato sulla sua spalla. Dovevano essere stati quegli esseri
a far smarrire la via Carlo, perché senza di loro riuscì ben presto a uscire
dalla foresta di giunchi. Il luogo in cui si ritrovò non era certo migliore.
Una vasta e fetida palude. Con acqua gialla che ribolliva. Fango e melma
ovunque. Forse uno o due alberi spogli. Sembravano morti e bruciati. Alzavano i
loro esili rami come mani in supplica di aiuto. Sembrava che la desolazione e
la morte regnassero in quel luogo. L’aria era irrespirabile. Anche se ci
fosse stato il sole non avrebbe potuto vederlo. Il cielo era coperto da una
spessa coltre di nubbi nere. Si ricordò le prime regole nelle paludi dei luoghi
magici. Non seguire voci o luci, non allontanarsi da quello che sembra un
sentiero e stare attenti alle sabbie mobili. Ad ogni passo gli sembrava di
perdere energie. Si sentiva stanco. Una strana depressione gli raggelava il
cuore. Si sentiva confitto. Come faceva un semplice ragazzino a sconfiggere un
Generale? Un uomo che era riuscito a conquistare un intero pianeta. Pensò che
era solo, senza più i suoi amici e i maestri. L’immagine di Miriam, uno
dei motivi per cui non si era ancora arreso, si allontanò dalla sua mente. Più
cedeva sotto il peso di quei pensieri, più affondava nella palude. Arrivato a
essere sommerso fino al bacino, scivolò lentamente nell’incoscienza.
Rimase a lungo privo di sensi. E sognò. Vide Miriam. Gli si stava avvicinando
con passo leggero. Accennando dei passi di danza. Seguendo una musica
impercettibile. Piangeva, ma cercava di rimanere seria. Diceva parole antiche.
Arrivata davanti a lui si chinò. Si mise in ginocchio e lo baciò sulla fronte.
E disse: "Quello che vedi e l’incantesimo di protezione che Miriam
lanciò per proteggerti. Riprenditi". Si svegliò di colpo e vide che
Pelosino gli stava leccando la faccia. Quello strano sogno gli diede abbastanza
energia per uscire da quella fanghiglia. Anche se a fatica si rimise in viaggio.
Quando dal fango uscì uno strano essere. Era un grande coccodrillo. Al posto
delle zampe anteriori aveva le mani. Al posto delle zampe posteriori i piedi.
Sembrava deciso ad aggredire il ragazzo. Si mise a correre verso Carlo. Aprì le
fauci e mostrò i suoi terribili canini. Agitò la coda e con un colpo secco aprì
un enorme falla nel terreno. Carlo si rese invisibile. Perché non lo aveva
fatto nel canneto non lo sapeva nemmeno lui. Il ragazzo se ne sarebbe scappato
non visto se Pelosino non fosse rimasto visibile. Doveva salvare il suo nuovo
piccolo animaletto. L’unico che gli aveva dato conforto in quel luogo.
Saltò in groppa al coccodrillo gigante. Le mani e i piedi dell’essere non
resistettero e il rettile cadde sulla pancia. Il ragazzo gli tenne chiusa la
bocca. La legò con la sua cintura. L’essere disarcionò Carlo. Il
coccodrillo era pazzo di furore. Aprì la bocca rompendo la cintola. Si
mise a saltare ringhiando. Doveva essere quello il verso degli antichi
dinosauri che abitavano sul pianeta miliardi di anni fa. Le scaglie del rettile
sembrarono divenire più forti. Le mani e piedi divennero le normali zampe.
Senza accorgersene il coccodrillo andò indietro. E cadde rovinosamente nella
buca che lui stesso aveva aperto. Nella voragine il mostro trovò la morte.
Pelosino scappò. Carlo si mise a rincorrerlo. L’esserino lo condusse
fuori dalla palude. Appena uscito quella sensazione di sconfitta scomparve. Si
ritrovò in un prato. Anche se non c’era la luce del sole ed era notte si
vedevano, grazie alla luce prodotta, centinaia di lucciole. Sembrava un posto
felice e tranquillo. Il danzare dei piccoli insetti rilucenti era tanto bello,
ammaliante, quasi ipnotico. Tutto intorno c’erano le belle di notte. Che
sbocciavano solo quando il sole andava a dormire e si richiudevano alla stella
di Venere. Si sentiva come se avesse bevuto
un’intera bottiglia di vino. Forse era la felicità di essere scampato
alla palude. Forse un altro incantesimo. Non se ne preoccupò. Voleva godersi quella
sensazione di pace. Sembrava di esserein estate. Il caldo torrido, la stella
polara lontana e la stella di Sirio splendente. A poco a
poco il figlio della notte, fratello minore della morte: il sonno, lo prese con
se. Non sapeva che tutto quello era causato dal profumo magico di una piccola
rosa bianca nascosta dietro una bella di notte. Più Carlo veniva incantato più
la rosa diveniva rossa. Se poi avesse continuato sarebbe divenuta nera
tramutandolo in una bella di notte. Erano stati uomini tutte le altre piante di
quei dolci fiori. Destinati a non vedere più la luce del sole. Pelosino era
immune al suo effetto, non avendo naso. Aveva un compito segreto da attuare.
Prima di tutto evitare la morte o la trasformazione di Carlo. Con la sua vista
più acuta di un aquila, che vuoi con cinque occhi, scovò la rosa. Con le sue
veloci zampine la distrusse. L’incanto si ruppe. Carlo si svegliò. Era
ancora nella palude. Intanto persone addormentate di ogni specie. Libere dall’incanto
furono teletrasportato alle loro dimore lontane. Il ragazzo non sapeva quello
che era successo e non immaginava che quel piccolo animale avesse sconfitto un
illusione tanto forte. Alzandosi notò una grande lavagna. Come quelle di
scuola. Era nera e lucida. Molto più grande di quelle normali. Alta almeno come
una parete. Era del tutto illogico che si trovasse lì in mezzo al nulla
comparsa all’improvviso. Tutto intorno c’era la palude. Ci appoggio
la mano per vedere se fosse vera e vide che l’attraversava. Non arrivava
dall’altra parte, rimaneva all’interno della lavagna. Arrivò
Pelosino correndo e l’attraversò sparendo nelle lavagna. Doveva essere
una sorta di porta, di passaggio. Era preoccupato. Non sapeva dove portava.
Pensò che ovunque però, sarebbe stato meglio che lì. Carlo infilò la testa per
vedere. Fu risucchiato. E dopo avere fatto un viaggio che lo aveva sballottato,
arrivò in un luogo da fiaba. Quello che vedeva in cielo non poteva essere il
sole vero. Aveva due occhi giovali, un naso un naso all’insù e un gran
sorriso. Gli faceva l’occhiolino. Gli uccellini invece di cinguettare,
cantavano: "Ciao, ciao, ciao". Gli animali erano più grandi del
normale e parlavano. Vide Pelosino che saltellava. L’animaletto aveva compiuto
la sua missione. Quel popolo era amico del veggente. Che li aveva avvertiti
dell’arrivo del ragazzo. Carlo fu accolto dai genitori di Pelosino. Senza
saper di aver indovinato il nome dell’esserino. Il padre di Pelosino era
azzurro. La madre rossa con macchie gialle. Erano per il resto identici, forse
un po’ più grandi di altezza. Al contrario del cucciolo parlavano. Si
fecero raccontare le avventure del giovane e decisero di aiutarlo. In cambiò
però dovette fargli dei favori. Raccogliere il miele dalle api assassine per l’orso.
Arare i campi del maiale-fattore che erano immensi. Costruire la stalla
dell’asino gigante. Camminare sulle braci ardenti per far divertire la
iena. Abbattere alberi per il castoro. Aiutare a fabbricare le armi per il
toro. Costruire un nido, lui lo fece come un cesto di canne col fondo riempito
d’erba, per il passero. Fare i massaggi col piede al porcospino. Far
restare il ghiro per mezz’ora. E tante altre. Alcune pericolose, altre
dolorose, altre faticose, ma tutte fattibili. (Mi rivolgerò al comitato dei personaggi.
Nella storia tu mi sfrutti NdCarlo) (No, che dici? L'hai passato
l'aspirapolvere? NdA). Alla fine salutò i nuovi alleati. E fu teletrasportato
alla città sotterranea dei nani. Dove lo aspettava un pericoloso essere. Se lo
ritrovò davanti. Doveva essere una specie di troll. Sembrava un pezzo di
montagna che si fosse staccato e avesse preso vita. Aveva uno sguardo ebete, ma
assolutamente feroce. In mano aveva una mazza bitorzoluta. Sembrava avesse
sradicato un albero e lo avesse livellato dandogli quella forma a suon di
colpi. Aveva un alito appestante. E Carlo notò che puzzava come il suo prozio
Molt. Anzi non era veramente uno zio. Lui era il fratello del
padre adottivo. L’essere portava una cotta di maglia con disegnata
Note:
stella del mattino
stella visibile solamente in estate
dette anche Moire, nella mitologia greca le tre dee che stabilivano il destino degli uomini
dette anche Erinni, nella mitologia romana le tre vendicatrici facevano impazzire
Ringrazio chi mi ha messo tra i preferiti e:
Milli lil: Ora mi posso slegare dal pc? Ho le gambe anchilosate. Inoltre la
frusta fa male. No scherzo. Fammi sapere se hai gradito. ciauuuuuuuu
berry345: Sono felice che ti piaccia leggere le tue storie. Spero un giorno di
leggere nuovamente Help us, per ora ho recensito l'altra tua ff. Spero che il
chappy ti sia piaciuto. alla prox. kiss