Lorenzo venne più volte alla fermata dell’autobus per vedermi. Io cercavo sempre di evitarlo, in modo che non potesse fermarmi e riuscivo a raggiungere il bus giusto un attimo prima che mi scorgesse. Una volta si accorse di me, ma fortunatamente non fece in tempo a salire anche lui: però il suo sguardo triste ancora una volta mi uccise. Mi mandava messaggi e io combattevo con la mia mano, che restava sospesa per dieci minuti almeno, indecisa se cliccare il pulsante della risposta o no. La storia si concludeva sempre con una brutta caduta del mio cellulare, che risultava essere la mia malcapitata fonte di sfogo. I messaggi si accumulavano nelle mie cartelle, sapevo che non avrebbe mollato: una vocina dentro di me mi ripeteva che ci teneva davvero alla mia amicizia, ma io testarda non ci avrei creduto mai. La cosa, che più mi stupiva e, allo stesso tempo, mi faceva vacillare nella mia testardaggine, era che il ritmo degli sms non accennava minimamente a diminuire. Ogni giorno un nuovo messaggio, ogni giorno un “ho un disperato bisogno di sentirti” mi faceva rabbrividire, un “ti voglio davvero bene” mi faceva lacrimare, uno “spiegami, ti prego” mi faceva sentire una cretina. Forse avrei dovuto parlargli, perlomeno, ma avevo il terrore di cadere in una situazione senza uscita, in un tunnel in cui la luce si allontana sempre di più e ti fa sentire in quegli incubi che fai a sei anni e che ti tormentano per tutta la durata della tua esistenza.
Nel frattempo ogni mattina parlavo con Marissa, la mia compagna di banco. La conoscevo da parecchi anni in meno di Francesca, ma la adoravo allo stesso modo. Lei cercava di consigliarmi, voleva spingermi a parlargli, e mi abbracciava ogni volta che i miei occhi iniziavano a sfocarsi, umidi. Non so proprio come avrei fatto senza di lei. Era un’amica sincera, che mi apprezzava senza alcun legame d’obbligo, per stupide vicende passate o… beh, per convenienza. E continuava a ricordarmelo, giorno dopo giorno, con le sue parole gratuite e semplici. Forse pensavo così per rivendicazione nei confronti di quello che non riuscivo a non considerare “il mio migliore amico”, ma le volevo bene seriamente. Un giorno mi trovò accoccolata sulla sedia, in classe in anticipo sulla campanella. Ero la prima a stancarmi delle mie continue crisi, ero noiosa, lo sapevo, ma veramente non sapevo come comportarmi. Mi si avvicinò e mi tenne stretta a sé fino a quando non alzai la testa e le sorrisi triste. Lei ricambiò mi parlò speranzosa: “Sicura che non sia il caso di parlargli? Così non risolvi niente, lo sai…”. Le risposi un po’ angosciata, ma felice di averla accanto: “Non dovrebbe fregarmene più niente di lui…”, lei mi guardò seria: “Ma te ne frega ed è inevitabile! Stare male entrambi che senso ha?”. Già… che senso aveva? Lorenzo mi aveva illuminato i giorni per così tanto tempo che adesso anche il sole mi dava il calore grigio della luce artificiale; con lui, sempre sincero o meno, mi sentivo bene. Era passato troppo tempo per i miei gusti, la mia pelle si stava ingrigendo come il cielo e, anche se si era comportato male, dovevo sperare che adesso si fosse pentito. Dovevo sapere se stava con me solo per abitudine o se tutti gli abbracci, tutte le consolazioni avevano un significato. Se avessi scoperto il contrario, avrei acconsentito alle nuvole perché mi oscurassero completamente, ma fino ad allora il mio sembrava solo un comportamento idiota e infantile. Decisi che avrei fatto la strada del ritorno con lui quel pomeriggio.
Ringraziai Marissa e insieme preparammo i libri e, visto che mancavano ancora dieci minuti all’inizio delle lezioni, ripassammo scienze per il compito imminente. Quando arrivarono i nostri compagni di classe, come sempre il Maroni mostrò tutta la sua conoscenza in ambito di parolacce nel tempo necessario a varcare l’uscio della porta, motivo per cui cademmo a terra dalle risate (n.d. autrice: piccolo riferimento a vita reale. Lo so, siamo stupidi…) e mi sentii rasserenare. Sì, decisamente amavo quella classe e non me lo avrebbe fatto dimenticare uno stupido risentimento, di cui il diretto interessato non sapeva nemmeno il motivo. Appena entro in classe, però, non seppi come comportarmi: guardarlo male non aveva senso, ma non volevo che pensasse che non fossi più arrabbiata con lui. E poi, in fondo, qualcosa di me, una parte forse troppo stupida e viziata, ma apprezzabile, era felice che mi riservasse così tante attenzioni ultimamente. Cercai perciò di evitarlo il più possibile, ma era complicato: non la smetteva di fissarmi e io mi sentivo colpevole. Al cambio della quarta ora sarei andata a chiedergli di tornare a casa insieme, in modo che non avesse altre pause per approfittare della mia improvvisa disponibilità. Le ore passarono lente e opprimenti, come nebbia che sembra bloccare il mondo intero in un istante eterno e soffocante. Non ascoltavo le parole del prof, di fatto feci scena muta un paio di volte quando notò che non stavo attenta e mi chiese della lezione, ma dopotutto sentivo che non sarei mai riuscita a stare attenta. Forse era una scusa, ma in quel momento non avevo bisogno di sensi di colpa.
Finalmente la campanella mi avvisò che era il punto dello spettacolo in cui sarei dovuta entrare in scena. Presi un respiro, mi alzai e mi diressi verso di lui. Stava chiacchierando con il Maroni, sorrideva e disegnava un linea curva e ingarbugliata sul banco, lo sguardo pensoso si rivolgeva ogni tanto al disegno, che immaginai avesse una forma più sensata visto da un altro punto di vista. Come era bello, però! “Basta, calmati, non è il momento…” mi ricordai e ancora una volta preparai un rifornimento di ossigeno, visto che di lì a poco mi sarebbe mancato il fiato. Quando lo chiamai si voltò, più felice che sorpreso, e mi guardò curioso. Io distolsi lo sguardo da quei baratri ipnotici, che spuntavano prepotenti sotto i cappelli arruffati, e recitai la parte che mi ero ripetuta incessantemente per quattro ore di fila: “Più tardi vorrei parlarti, va bene se torniamo insieme?”. E il premio Oscar per la miglior recitazione!!!!!!!!!! Okay, forse è un po’ esagerato per nove parole. Si alzò fino alla mia altezza e la superò con facilità: “Perfetto!” e con un mezzo sorriso traboccante di speranza mi lasciò scivolare al mio posto, giusto in tempo prima dell’arrivo del prof di matematica.