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Autore: cartacciabianca    17/04/2009    2 recensioni
[…] I due assassini si issarono sui bastioni della fortezza e furono a portata degli arcieri. -Via, via, via!- Altair l’afferrò per il cappuccio e la trascinò di corsa verso l’angolo della fortezza, che culminava con una torre, la quale facciata dava sull’immenso piazzale del distretto nobiliare. -Salta!- Altair la spinse giù e i due assassini, accompagnati dal ruggito di un’aquila, si gettarono nel vuoto. Nel bel mezzo del volo Altair la strinse a sé, ed Elena si avvinghiò a lui che, capovolgendosi in aria, atterrò di schiena nel cesto. Poi fu il silenzio, scortato dal canto delle campane d’allarme, ma almeno le voci dei soldati e le grida degli arcieri erano cessate. […]
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dea tra gli Angeli' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Un odio infondato





Tutto ciò che fece poi fu fissare il soffitto della stanza dritto davanti a sé, mentre la sua allieva si stringeva a lui poggiando una guancia sul suo petto e potendo ascoltare il battito del suo cuore che, come eccezionalmente era capace di controllare, era lento e regolare.
Le accarezzava dolcemente un fianco, gustando la morbidezza di quella pelle bianchissima alla luce delle stelle che brillavano fuori dalla finestra. Un raggio di luna penetrava dal vetro e irradiava la stanza di quel suo chiarore argenteo che conferiva una tonalità più lattea persino ai capelli di lei, di molto spettinati. Il respiro di Elena gli arrivava sulla pelle, e lo sentiva caldo, bollente, quasi scottare.
I loro vestiti gettati a terra in un angolo buio della camera, mentre condividevano una sola soffice coperta che bastava sì e no a coprirli.
Altair sorrise. Certo, su un pavimento e nel bel mezzo delle macerie di una Dimora predata dai Crociati non ci si poteva aspettare il massimo del confort, ma ugualmente tutto ciò lo rasserenava enormemente.
… Tutti quei gesti, quelle carezze e quei sorrisi erano finalmente sbocciati in qualcosa, si disse poggiando una guancia sui capelli di Elena, inspirandone il profumo. Dovette però ricredersi in fretta.
Era stato un immenso errore, e lo sapeva. Elena l’avrebbe saputo non appena si fosse svegliata, non appena si fosse accorta dei loro corpi nudi avvinghiati; ma a quel punto sarebbe stato intollerabile dirle la verità. Già… ma qual’era la verità? Stentava a credere a se stesso, poteva convincere Elena di quello che era successo? Oppure sarebbe stato bene rivestirla di persona e sperare che avesse dimenticato, così da ritrovarsi con indosso le sue armi come niente fosse mai accaduto. Sarebbe stato saggio in quel frangente, si disse, perché le aveva portato via qualcosa di molto prezioso quella notte e, per di più, ingannandola…
Inevitabilmente pensò a Marhim, e al modo radicale col quale si era contrapposto a ciò che la sua allieva e quel giovane assassino avevano condiviso e avrebbero dovuto ancora condividere. Sapeva cosa si provava, sapeva come si sarebbe sentito quel poveretto, perché un giorno qualcuno avrebbe dovuto dirgli la verità…
Proprio lui che aveva passato le pene dell’Inferno nel venire a conoscenza della vita vera, reale della sua amata Adha, e lui che dall’unione di un uomo e una donna sperava in qualcosa di diverso, sperava in una famiglia. Lui che aveva approfittato di Elena per colmare i suoi vuoti, lui che invece, adesso, ne aveva più di prima.
Era stata la sua allieva, ed era stata sua con così poco.
Giovane, a volte triste, spensierata e debole, quasi implorasse protezione e avesse una mano sempre tesa a chiedere aiuto. Questa era Elena, che dalla vita aveva avuto poco e niente di quello che le spettava.
Si voltò, guardando con attenzione attraverso il buio, e solo allora capì.
C’era un una fiala stappata di idromele adagiata vicino alle gambe di un mobile. Era vuota per metà, di un vetro sporco e graffiato che al suo interno ospitava quel liquido giallognolo e trasparente. Ricordò improvvisamente di averla intravista poche ore prima tra le dita della ragazza.
Quella verità gli fece male davvero, facendolo sentire ancor più incazzato verso se stesso. Avrebbe dovuto capirlo subito!
I suoi occhi accesi di ardore, il suo sguardo assopito e offuscato, i suoi movimenti disperati nel mentre lasciavano correre le loro emozioni! E poi il suo respiro caldo che gli s’infrangeva sul palato e il dolce sapore della sua pelle che Altair aveva toccato con il medesimo desiderio.
Era stato uno stupido, e se lo ripeté nella capa cento e passa volte! Se nel momento in cui i loro sguardi si sarebbero incrociati di nuovo, Elena avesse ricordato, sarebbe stato il primo a sentirsi l’uomo più crudele del mondo. Non solo era stato ingiusto, vile, avido nei confronti della persona che meno al mondo avrebbe dovuto ricevere certe attenzioni da lui, ma aveva privato se stesso e la sua allieva di ciò che restava impresso molto più allungo di una sola notte d’amore.
Sarebbe cambiato tutto. I loro sguardi, i loro sorrisi. Persino la loro missione era compromessa, e chissà che strigliata avrebbero ricevuto da Malik che, da due e passa giorni li attendeva paziente alla Dimora di Gerusalemme.
Rimuginava sugli ultimi duelli passati l’uno affianco all’altra, sventrava i ricordi di quando e in che modo si era preso cura di lei come fosse… era inevitabile dirlo.
Come fosse sua figlia, quella che non aveva mai avuto.
Ma ormai tutto ciò era morto per sempre. Il loro rapporto, la loro strettissima amicizia quasi fossero parenti… si era istinto col solo compiere assieme un medesimo gradino di quella scala che saliva senza troppa pendenza verso l’alto. Una scala facile e semplice da seguire, ovvia, se così si può dire.
Da un lato, certe libertà gli erano state concesse dall’irrefrenabile bisogno di affetto che implorava. Ma dall’altro, era tutto enormemente sbagliato. Gonfiato dal fatto che sarebbe stato impossibile tornare indietro, ripercorrere i propri passi. Non perché non ne sarebbero stati in grado, ma per il semplice motivo che non ne avevano voglia, nessuno dei due.
Questa visione degli aspetti lo mandava su tutte le furie.
Si domandava perché, con quale coraggio aveva osato tanto, ma non riusciva a rispondersi. Si domandava cosa gli fosse passato per la testa quando era cominciato, ma non riusciva a rispondersi. Si chiedeva cosa sarebbe successo dopo, ma…
Ammirò la curva della schiena nuda di Elena, contemplandone la perfezione e la morbidezza.
… non riusciva a rispondersi.
Con un ultimo sforzo, combattendo quell’ingiustizia, Altair scostò il braccio di Elena avvinghiato al suo petto stringendole con delicatezza il polso. La ragazza non diede segni di risveglio e l’assassino poté stringere le fragili membra della sua allieva a qualcosa che non fosse lui.
Afferrò un cuscino e lo sistemò dove un tempo vi era stato steso il suo corpo, ed Elena, cullata dal dolce tepore del sonno, lo stritolò a sé premendolo sul seno, mentre un sorriso gioioso le affiorava sulle labbra.
Altair si sollevò piano, scivolando via dalla accaldata coperta. Non appena fu in piedi mosse qualche passo verso i suoi abiti gettati a terra poco distanti da quelle della sua allieva. Egli si rivestì dei suoi pantaloni e armeggiò il più silenziosamente possibile con le cinghie e i foderi di cuoio. Adagiando le armi su ciò che rimaneva di un vecchio scrittoio, liberando il pavimento di altro che non fosse il corpo della Dea sdraiata sotto le coperte.
Dalla finestra aperta della Dimora entrò un’improvvisa manata di gelo.
L’assassino si chinò su di lei piegando le ginocchia, stando in perfetto equilibrio sulle punte dei piedi.
Mangiò con gli occhi ogni fibra di quel corpo atletico ma fragile che lui stesso aveva contribuito a formare. Ne ammirò le curve infantili e ciò che rimaneva del suo aspetto innocuo, e sorrise ripensando ad alcune fugaci immagini di cosa era successo. Le sua colpa, la sua coscienza che gli rammentava di quel sidro di idromele mezzo svuotato divennero tutto ciò che bastava a fermarlo quando allungò una mano e le carezzò una guancia.
Sentì la sua pelle caldissima sotto i polpastrelli, e per un istante credé che potesse avere la febbre. Smentì i suoi timori nel poggiarle il palmo sulla fronte, ed un istante più tardi intrecciò le dita ad un ciuffo dei suoi capelli sistemandoglielo dietro l’orecchio. Passò in fine sul profilo del suo mento e scese giù fino al collo.
Ed ella dormiva serena. Le braccia avvinghiate a quel morbido cuscino che le copriva i seni piccoli e sodi. Le palpebre appena poggiate le une sulle altre e un sorriso gioioso sulla bocca. Trasmetteva felicità solo guardarla; finalmente in pace con sé stessa, realizzata forse, ma poteva Elena sentirsi estasiata per via di quello che avevano passato? Se credeva in questo modo al loro amore, il cuore le si sarebbe spezzato in due parti che sarebbero rimaste l’una distante dall’altra per troppo tempo. Oppure, poteva semplicemente trattarsi dell’effetto assuefante dell’alcol ancora in circolo nelle vene.
Ma se si fosse trattato del primo caso, in che modo avrebbe risposto lui? Allontanandola, cercando un disperato pretesto pur di rinnegare se stesso e ciò che provava. Sarebbe stato capace di fare una cosa tanto orribile? Ma ormai il torto era stato fatto, non vi era null’altro per cui combattere, così da sperare che si trattasse forzatamente della sua dannata seconda ipotesi.
C’era solo da aspettare: era questione di ore, ed Elena sarebbe tornata padrona del suo corpo e della sua mente. Lo incuriosiva in che modo avrebbe reagito. Quel sorriso sarebbe durato allungo e per il resto della giornata, o viceversa, Altair avrebbe dovuto prestarle una spalla su cui rimpiangere i suoi sbagli?
Allontanò lo sguardo dal suo volto fanciullesco e percorse la linea dei suoi fianchi, fino a raggiungere la superficie morbida e piatta del suo ventre, dove più in basso di lì vi era la coperta.
Distese un braccio e strinse il lembo di questa, sollevandola fino alle spalle della ragazza.
Il suo fu un totale e consumato gesto di affetto, e dopo di quello si allontanò silenziosamente dalla sua allieva. Si affacciò alla finestra, ammirò i colori caldi dell’alba che sorgeva sopra le montagne irradiando pietre e prati. Osservò la meraviglia di quello spettacolo e si chiese come facesse Madre Natura a non innamorarsi di nessuno.

Sognò di trovarsi in una cella angusta.
Attorno a lei si diffondevano i suoni di passi, grida e litanie assordanti che parevano delle preghiere. Attorno ai suoi polsi e alle caviglie le catene erano troppo strette e, ad ogni suo impercettibile sussulto o movimento, queste diffondevano il loro canto battendo contro la pietra nera del pavimento. Il gelo lo sentiva sulla sua pelle, sotto i suoi piedi scalzi, e alle sue orecchie non giungevano altro che canti disperati di aiuto. Voci che venivano da luoghi lontani, ma erano toni familiari, note di una musica ascoltata più volte. Ma d’un tratto, queste voci cessarono, lasciando il silenzio ad infagottarla.
Vi erano quattro pareti strette a contenere il suo terrorizzato sguardo che invece vagava oltre le sbarre della sua gabbia, perdendosi nel nero di quelli immensi corridoi oscuri e malvagi. La luce filtrava, ma chissà da quale finestra e chissà che luce era! Se di una candela, o del sole, ma quel luogo in cui si trovava sembrava più notte che giorno.
Di fatti, in un battito di ciglia, i meri corridoi si volatilizzarono, e dinnanzi ai suoi occhi spalancati, Elena vide una sala ampia, luminosa, invitante e accogliente. Vi erano ampie arcate che mostravano i tetti di una città caotica e colorata. Arazzi ai muri, tappeti pregiati, candelabri, affreschi e scaffali colmi di libri e pergamene. Era la più bella stanza che Elena avesse mai visto, ma lei era ancora lì, accovacciata al suolo con quelle catene infrangibili ai polsi.
Vi era un tavolo al centro della sala, e su di esso sedeva una donna cui zigomi e il volto non apparivano chiari, ma dalla fluente massa di capelli rossi, le fu facile riconoscerla. Subito dietro, vi era uno scranno, sul quale sedeva composto e regale un uomo. Anche il viso di costui era appannato, incerto, ma tra la folta chioma scura, egli teneva un magnifico diadema d’orato incastonato di pietre preziose. Era in questo salone che presiedeva il Re di Gerusalemme. Era in questa sala che sostava Corrado.
Elena si trascinò in piedi, trovandosi scattante, agile e leggera come non mai. Si chiese se, dritta dinnanzi a loro, Minha e Corrado potessero vederla. Ma essi non diedero alcun segno vitale. Erano fermi, immobili come manichini senza né occhi, né bocca, né naso. Era ben visibile la barba dell’uomo, ma non le sue orecchie come il suo sorriso.
La ragazza, interdetta, avanzò ancora, trovandosi a poter toccare con mano il volto di egli che però, non si mosse. Era lì in attesa di qualcosa… ma cosa?
Elena balzò indietro, quando nella stanza comparve improvvisamente una quarta presenza. Vestiva di una lunga tunica bianca che ne copriva ogni indumento indossasse al di sotto di essa. Il cappuccio candido gli celava il viso, del quale era possibile scorgere solo un pizzetto chiaro sulla punta del mento. Pareva una fantasma, per forma e per colore.
Ma al suo collo pendeva un ciondolo d’argento. Una catenella luccicante che terminava con un buffo simbolo che in principio non riconobbe. Era confuso, così come i volti di Minha e Corrado che… erano spariti.
Elena si guardò attorno, e si fece una ragione di quello che stava succedendo, di quanto quel sogno fosse inquietante e triste, ma almeno, lì con lei, c’era suo fratello Gabriel che… se n’era andato. Pure lui. Il Falco dagli occhi di ghiaccio aveva abbandonato quel luogo per sempre, e chissà se sarebbe tornato oppure lei avrebbe avuto occasione di vederlo… magari altrove, non in sogno.
Ora lo scranno del Re di Gerusalemme era vuoto, vagante in quella sala che restava sempre bellissima ed esemplare. Elena, solitaria, si avvicinò alle balconate aperte e si affacciò di sotto. Riconobbe il Tempio di Salomone, e quella dove si trovava doveva essere una delle stanza più ampie di tutto il palazzo Reale. Ma cosa ci faceva lei lì? Perché stava sognando queste persone, questi oggetti e certi particolari le venivano nascosti? Non aveva senso tutto quello. Era solamente, dannatamente e maledettamente assurdo.
Alle sue spalle sentì una voce angelica, melodiosa che chiamava il suo nome. Si voltò, ma attorno a sé trovò un paesaggio completamente differente da tutto quello che si attendeva di trovare.
C’era un prato, verdissimo, quasi brillante di quel colore che pareva estratto dalle piante più pregiate solo per dipingerlo in un quadro. C’era un sole che si arrampicava tra le nuvole, che invece erano bianche e soffici. Il canticchiare degli uccelli, il fruscio del vento che la pervase soffiando violentissimo tra i suoi capelli, dandole quasi la sensazione di volare.
-Salta!- ancora quella voce, che distante e confusa azzardava parole che incantavano.
Chiuse gli occhi, ma quando li riaprì, vide il vuoto sotto i suoi piedi e la gravità la trascinò verso il basso in una caduta senza fine. Come quelle volte in cui aveva toccato con mano il potere del Frutto dell’Eden, quando era riuscita a sprigionarne la forza immonda e a simularne le catastrofi.
D’un tratto, attorno a lei divenne tutto ancor più buio e la sua caduta ebbe fine, atterrando in un cesto di paglia grande quanto un letto. Le scappò un gemito, e qualcuno rispose…
-Fa’ silenzio!- e lei tacque ammutolita, mentre attorno alle sue membra percepiva la forza di un paio di braccia. –Non è il momento…- mormorò ancora quella voce.
E di nuovo, tutto cambiò.
La ragazza crollò seduta su una sedia. No, era una panca che contornava un tavolo. C’erano candele accese per la stanza, gente che ballava, tanta gente che cantava e ballava ed era vestita di bianco. Tanta gente che ballava, cantava, vestita di bianco e che portava buffi cappucci.
Al suo fianco, vi era una presenza che indosso aveva una tunica familiare dal copricapo grigio abbassato sulle spalle. Anche il suo volto era appannato, e al fianco gli pendeva una spada accurata in un fodero semplice. Questa strana figura la fissava, ma restava prettamente immobile, ed Elena si girò guardandosi attorno spaventata, quando i suoi occhi caddero su un volto differente dagli altri.
Era un uomo, composto, retto e contornato di altri uomini che chiacchieravano allegramente in quel clima di festa. Quest’essere anche lui la guardava, ma accanto vi era una figura più minuta ma molto simile. I capelli leoneschi, dal volto oscurato. Rhami si alzò dal tavolo d’alto rango e venne verso di lei. Lo vide porgerle una mano, mentre il manichino alle sue spalle restava immobile. Ed Elena accettò, seguendo l’assassino verso il centro della pista da ballo.
Quando le dita di lei s’intrecciarono a quelle del suo accompagnatore, tutto svanì, di nuovo.
Restava solo lui. L’uomo alto e padrone di se stesso che, altri non era, se non un qualcuno che Elena conosceva troppo bene per poterlo confondere con altri. Il cappuccio ne nascondeva il sorriso, poiché il suo fosse l’unico tra tutti i volti che riusciva a scorgere a pieno. Ma anche questa figura, si dissolse come polvere.
E dalla stessa polvere si formò un nuovo individuo, in piedi, di fronte a lei che era ancora seduta. Chissà su che cosa, ma era seduta.
Quest’uomo, questo ragazzo dal cappuccio grigio portava sottobraccio un libro. Elena allungò le mani e glielo sfilò lentamente. Quando le dita di lei passarono sulla copertina rigida del tomo, il ragazzo si dissolse come fumo.
Ma dallo stesso fumo nacque una donna, dai fluenti capelli corvini e vestita di un lungo abito rosso ricamato e merlettato d’oro. Le braccia conserte e il peso su una sola gamba volevano dire molto, e come se non bastasse cominciò a battere un piede.
Elena allora comprese che il libro che aveva in grembo non doveva essere sfogliato, e apparteneva a quella donna, o a qualcuno cui quella donna non voleva si venisse a sapere nulla. Così glielo porse, e la magnifica dama, in cambio al suo gesto, le carezzò una guancia fissandola col suo sorriso vuoto e sfumato. Anch’ella era senza volto, ma il tocco della sua mano sulla pelle di lei le provocò un formicolio lungo tutta la schiena, ed Elena scattò in piedi.
Sotto le suole dei suoi stivali si aprì una botola e, come se non bastasse, al suo grido si aggiunse quello di  una voce che chiamava il suo nome e la incitava a fuggire.
La botola nera non aveva fine e, solo nel momento in cui Elena spalancò le braccia si udì lo sbattere di un paio di ali, e sulla sua spalla comparve un bellissimo uccello.
Aveva un becco, due ali, due zampe, ma nessun occhio. I suoi artigli le attanagliarono le carni ed Elena gridò di dolore ma, spaventata da tale strillo, il falco volò via.
Senza che se ne fosse accorta, sotto di lei era comparso un terreno arido e polveroso, mentre tutt’attorno rimbombavano nelle sue orecchie nomi che non aveva mai sentito, gente che chiamava a gran voce:
-Palla!-.
E così si trovò sopraffatta da una mandria di corpi a torso nudo e senza volto che la gettarono a terra, e il cielo comparve limpido davanti ai suoi occhi.
Qualcuno si chinò per osservarla, e questo qualcuno aveva un aspetto familiare. Le porse una mano, l’aiutò ad alzarsi, ma non fece nulla di più, allontanandosi poi e sparendo in una tempesta di sabbia.
Era sabbia bianca, che le girava in circolo, e questa sabbia bianca si depositò d’un tratto al suolo, tingendo di un bianco candido tutto il paesaggio.
Vi era l’ingresso in pietra di una fortezza, ed Elena varcò quella soglia. Sulle scale trovò ad attenderla un uomo. No, non un uomo. Quell’uomo.
-Tharidl vuole vederti- pronunciarono le sue labbra. Lui solo che tra tutti quelli che aveva incontrato ne possedeva un paio.
-Come mai?- chiese, ma ella non aveva mosso un muscolo. La sua voce suonava senza che lei aprisse bocca, come amplificata dalla sua stessa mente.
-Avanti, vieni- e quell’uomo risalì le scale.
Elena lo seguì, ma molto più tardi si accorse che stavano percorrendo gradini infiniti. Sempre gli stessi, per di più.
Intontita, demoralizzata ma per nulla stanca, Elena si fermò. -Vi prego, se sono qui per essere punita di qualcosa…-.
Non c’era senso in quello che le stava accadendo. Era tutto assurdo, privo di logica e dunque un sogno.
Un dolore immenso le ribollì alla mano sinistra. Sollevò il braccio, notando un fiume di sangue che andava inondare tra le sue quattro dita mancanti.
Sì. Era stata punita.
Erano i suoi ricordi. Quelli più difficili da accettare, quelli più contorti da interpretare, quelli che erano rimasti appesi ad un filo troppo allungo e che era bene spolverare almeno in un luogo come quello: in un incubo.
Se stava gridando, qualcosa interruppe il suo urlo, ed era un braccio che le cingeva il fianco, mentre si conveniva stesa su un qualcosa di duro e con la testa appoggiata ad un qualcosa di caldo, che le respirava tra i capelli.
La ragazza si trovò improvvisamente catapultata nella dimensione reale del tempo: il buio di una stanza, dove passato, presente e futuro dei suoi ricordi non si mescolavano ed avevano ancora un senso logico.
Quando sognava, la Dea era schiava di un qualcuno che prendeva decisioni per lei e non le lasciava minimamente il tempo per riflettere su cosa e come fare. Nella realtà, ogni sfumatura e colore pareva vero e intenso, non sfumato e approssimato come i volti della gente che aveva incontrato.

Il calore di un corpo stretto al suo, ma questo calore si consumò in fretta allontanandosi dal battito sereno del suo cuore. Sentì il fruscio di un telo, ascoltò dei passi leggerissimi muoversi quatti sul pavimento mentre a sé stringeva un qualcosa di morbido e setoso. Altri passi. Udì dei sussulti metallici, dei ganci, forse delle cinghie, e rabbrividì. La ragazza emise un gemito, come per dire basta a quel frastuono assordante che non le permetteva di indagare oltre nei suoi ricordi. Voleva svoltare ogni vicolo della linea temporale della sua breve vita, e strapparla via dalla finzione in quel modo sarebbe stato disonesto. Dalle gola di ella si levò  un mugolio, e con cautela si voltò dalla parte opposta, scappando alla fonte di quei suoni bizzarri che, improvvisamente, tacquero.
Gli occhi di lei restavano chiusi, sigillati dal dormiveglia di un sonno che reclamava parecchie altre ore. Quanta energia aveva speso, si chiese, ma il bello fu… non ricordarsi in cosa avesse faticato tanto.

-Tu!- sbottò una voce. –Chi sei?- e una lama le fu puntata alla gola.
Sì, era proprio una stanza stretta e angusta, l’androne di quella che Elena riconobbe alla svelta come la camerata della Dimora. E in piedi, di fronte a lei, vi era il Rafik che impugnava saldamente una spada. –Chi sei?! Come sei entrata qui?!- gridava il vecchio dalla barba bianca, capo sede di Acri.
-Sono Elena!- ruggì lei, ma un momento dopo tutto scomparve.
Odiava quel genere di sogni. Detestava dover rivivere scene già passate della sua vita.
Dalla polvere del vecchio Rafik si disegnò ben presto un incappucciato di bianco, ansimava riprendendo fiato, appena piegato sulle ginocchia.
Senza pensarci, senza ragione in zucca, Elena si gettò al suo collo abbracciandolo disperata, avvinghiando il suo corvo a costui che, al momento, pareva solo un perfetto sconosciuto.
-Maledetto! Sarei dovuta rimanere a combattere, lo sapevo! Ero certa che vi sarebbe successo qualcosa! Se fossi rimasta al vostro fianco, nulla di questo sarebbe successo! Sono abbastanza forte, voi…-.
-Elena- disse lui scostandola gentilmente. -Sono vivo- aggiunse col solito tono pacato, neutro e così dannatamente tranquillo…
Vi era un che di dannatamente familiare, ma tra le sue memorie non riuscì a ripescare altro ricordo che non fosse di quella notte quando Elena era giunta ad Acri nelle sue vesti di assassina. Ricordava bene come il suo maestro era rimasto prode a combattere fuori dalle mura, mentre ella, codarda di, si era data alla fuga… quante altre volte avrebbe deluso il suo maestro? Si chiese.
Tutto scomparve in una folata di vento.
C’erano dei bracieri, un corridoio buio, un grosso portone di legno nero intarsiato e le fiaccole accese alle pareti di pietra. Un battente dell’ingresso alla sala era scostato, ed Elena lo attraversò.
I suoi passi svelti la condussero fino al fianco di un uomo; si sedette accanto al medesimo incappucciato di bianco che, appena ella prese posto attorno al tavolo, la fulminò con un’occhiataccia.
Egli aveva degli occhi: neri, nerissimi! E una bocca, che in breve si schiuse.
-Era ora- sibilò Altair. –Dov’eri? Sono dieci minuti che aspettiamo te!- digrignò.
-Davvero?- si stupì lei squadrando i volti dei presenti uno ad uno.
-No- ridacchiò Altair allegramente…

Elena si strinse nelle spalle, avvolta d’un tratto da una gelida manata di vento.
Ascoltò dei passi, e poi il silenzio.
Percepì una mano calda poggiarsi sulla sua pelle e accarezzarle appena la guancia, quando il tepore di una coperta diffuse in lei un terribile e maggior senso di annebbiamento, quasi il sogno che stava vivendo la stesse chiamando nuovamente a sé.
Ascoltò degli altri passi, impercettibili, ma poi di nuovo il silenzio.
Vi era una figura, poco distante, immobile dinnanzi ad una fonte di luce soffusa e naturale, ma alquanto sobria e ristretta. Questa figura si girò appena, e sul suo volto balenò un sorriso triste, tristissimo…

-Mi è stato insegnato che in questo luogo il rispetto degli altri e di se stesso è la quarta voce del credo di un assassino!- perché aveva parlato e detto tutto ciò? Quale essere superiore muoveva le sue labbra in tali parole, quale?! Era terrorizzata, ma in quella situazione vi si riconosceva. Aveva vissuto anche quella medesima avventura…
-Esci dal campo, ragazza!- le sbottò Altair. -Nessuno ti da questo permesso!- aggiunse collerico.
Ci fu il vuoto dopo quell’immagine, ma ne comparve immediatamente una completamente nuova, ed egli era di due passi più vicina a lei che, invece, era crollata al suolo spinta da un colpo che non c’era stato.
-E tu saresti scappata da Acri con battaglioni di soldati alle spalle?- proferì Altair arrogante. -Secondo me hanno gonfiato un po’ troppo la storia!- ridacchiò.

C’era uno sguardo, nel nero della notte che andava consumarsi dato il leggero chiarore di un’alba. Era uno sguardo che la fissava, dall’angolo della camera. Due pozzi scuri che si confondevano alle ombre dei mobili, ma nei quali balenava un luccichio suffuso e assorto, distante, pensoso. Fu un istante quello in cui la Dea si accorse di quegli occhi; qualche secondo più tardi tutto scomparve nell’istante in cui le palpebre le si richiusero sulle iridi azzurre, ma ancor troppo stanche per riavvalersi di quella realtà…

Era bello tornare in sé, riappropriarsi della coscienza di avere un corpo, delle gambe, delle braccia che non erano più schiave di un burattinaio onnipotente nelle proprie decisioni, nei propri movimenti. Era quella la sensazione che Elena provava nell’immaginare sé stessa lontana dalla fattezza concreta del mondo: la completa assenza dei sensi su sé stessa, ed era più o meno la stessa cosa che accadeva quando…

Era ubriaca.

Strinse le palpebre e serrò i denti, rifiutandosi di accettare quelle parole. Ma ben presto le fu tutto più chiaro, nitido, e la verità le venne schiaffata in faccia con incredibile violenza e senza un briciolo di tatto.
In un lasso di tempo pari a qualche secondo, Elena ricordò ogni cosa: lo scontro col templare, i due pugnali che aveva prestato al suo maestro, poi la fuga nel bosco, il corpo di una donna dilaniato sul pavimento dietro il bancone; il caos della Dimora e la stanza nella quale si era rifugiata. La sua mano stretta attorno alla fiala di idromele, la coperta, dei passi che venivano verso di lei, delle braccia salde che la riscaldavano, e il sapore di labbra che non aveva mai saggiato.
Poi, il nero più nero di tutti i neri.
I suoi ricordi s’interrompevano lì, ma era successo ben altro, lo avvertiva sulla sua pelle e nel suo cuore. Percepiva un dolce amaro che si mostrava sottoforma di una fitta dilaniante allo stomaco. Era venuto il momento di reagire, svegliarsi, e la Dea si rivoltò con violenza sotto le coperte.
No. Desiderava tornare in quel mondo dolce e pacifico dei sogni, e avrebbe pianto pur di ottenere ciò che voleva. Era una sensazione terribile e delle più sgradevoli.
Elena…
Chiamata a gran voce da un sussurro distante, la ragazza spalancò gli occhi trovandosi avvolta dalla luce di una mattina piombata all’improvviso. Un bagliore accecante al quale, ahimé, si abituò in fretta, così da scorgere una figura seduta con le gambe a penzoloni su un vecchio tavolo.
Lo riconobbe subito: il suo maestro con indosso solo i pantaloni. Era seduto, ma assorto nel tentativo delicato di appurarsi le ferite riportate dal duello. Controllava minuziosamente ciascun taglio e passava su di esso una pezza umida bagnata certamente di un efficace disinfettante. Egli non si accorse di lei e proseguì nella sua opera trafficando con delle garze e avvolgendole sui lembi di pelle lesi.
La Dea si sollevò seduta e, nell’istante in cui Altair alzò lo sguardo dalle medicazioni per piantarlo nel suo, Elena sussultò.
-Oh mio dio…- mormorò ella tirandosi le coperte addosso. –Cos’ho fatto…- c’era il vuoto nei suoi occhi che un tempo erano stati azzurri come il cielo. Ora erano spalancati di paura, come se avesse visto un fantasma, e le parole scorrevano sulle sue labbra rimbombando troppo forte nelle sue orecchie.
-No!- gridò d’un tratto stringendo con maggior vigore la coperta attorno al suo corpo nudo. Il suo corpo che sapeva ancora del profumo del suo maestro. –No!- strillò di nuovo.
Altair tacque, fissandola allungo in silenzio. Egli poggiò la garza in eccesso sul tavolo al suo fianco e giunse le mani in grembo; -Mi dispiace-.
Elena scoppiò allora in un pianto disperato, le lacrime le rigarono le guance senza alcuna pietà, e lei non fece niente per trattenerle. Non era riuscita a sfuggire da se stessa, pensò affondando il volto nel cuscino. Sapeva che era stata sua la colpa, e aveva troppi rimpianti che temeva non le sarebbe bastata l’energia per piangere su ognuno di questi.
Ingerendo quella quantità anomala di alcol, Elena non avrebbe poi potuto fare nulla per impedire alla parte più umana, spietata e innamorata che dormiva in lei. Ed inconsciamente, era successo. Aveva perso ciò che avrebbe dovuto regalare all’unico ragazzo che avesse mai amato fin dal suo arrivo nella confraternita.
-Non ero io, non ero io…- gemé lei. –Era un’altra, era un’altra! Non ero io, era quell’altra…-.
Era stata un’altra Elena a volerlo. Precisamente quella Elena che nel suo maestro aveva sempre visto qualcosa in più di un insegnante di ruolo. La piccola ed insignificante parte di lei era venuta a galla, chiamando di diritto ciò che erano stati i suoi desideri nascosti troppo allungo. Quella Elena era rimasta a piede libero il tempo sufficiente per prendersi ciò che voleva.
Terrorizzata, in preda alle convulsioni, la ragazza si voltò più volte da un lato all’altro della stanza, una volta incontrando gli occhi severi e rammaricati di Altair e un’altra fissando il vuoto della parete davanti al suo naso. –Perché…- mugolò. –Perché…- le lacrime le entrarono in gola ed ella le gettò giù nello stomaco.
-Va bene così- udì un sussurro di una voce stanca, incrinata dal dolore.
Elena si volse, sollevandosi su un gomito e aprendo bocca, senza però riuscire a proferire parola.
-Va bene così- ribadì il suo maestro smontando dal tavolo. Riunì le garze e le fiale di disinfettante in una sacca adagiata a terra. –Va bene così- sospirò e, senza aggiunger nulla, lasciò la stanza. Esitò nel chiudersi la porta addietro, scrutando nel corridoio e lanciandole un’ultima occhiata immensamente triste.
Elena ammutolì.
-Ora rivestiti. Dobbiamo riprendere…- s’interruppe, tacendo di fronte all’infinito dolore che si specchiava sul viso della sua allieva.
Per un momento, Elena credé di cogliere una nota ulteriormente dispiaciuta, ma ciò che aveva appena detto l’aveva lasciata incerta.
Nonostante ricordasse poco e niente di quella notte, sapeva che era successo. Eppure, alla sua immensa tristezza si unì l’irrefrenabile rabbia accompagnata da un ardore impulsivo che balenò nei suoi occhi.
-Questo è tutto quello che sapete dire?!- ruggì improvvisamente.
Altair serrò i denti e, trafitto da quelle parole, si ridusse ad abbassare lo sguardo.
-Non è stata solo colpa mia- sibilò l’uomo.
-Ero io quella ubriaca! Voi non avete scuse! Perché non vi siete fermato…- gemé. –Perché non mi avete respinta, perché…- miagolò tirandosi le coperte fino al collo. –Non avevate motivo di farmi questo, non ne avevate… a meno che non lo voleste, ma…- ingoiò il groppo che aveva in gola. -è così?- domandò, in ansia che la risposta a quella domanda potesse essere ciò che si aspettava e che la seconda Elena in lei desiderava follemente.
Altair sollevò il mento guardandola e fece alcuni passi dentro la stanza. –Io…- provò a dire, ma ella si stanziò da lui tenendosi stretta il telo sul corpo.
-Statemi lontano!- digrignò fissandolo furiosa.
-Non so spiegare ciò che ho fatto- mormorò egli. -Ma ti prego di capirmi- aggiunse tentando un approccio più sorridente.
-Cosa dovrei capire? Che siete innamorato di me? Che mi amate, oppure è solo stato un desiderio passeggero e mi butterete fuori dalla finestra! Non sono quel genere di allocca, maestro! Spuntai le corna a Rhami non molto tempo fa!- ridacchiò collerica.
-No!- ribatté Altair. -Non ho mai pensato di approfittarmi di te, mai!-.
Elena tirò su col naso. -Spiegate allora le vostre intenzioni…- sussurrò trattenendo a stento un nuovo pianto.
Il suo maestro prese fiato e abbassò il tono di voce. -Ero terribilmente stanco… e ferito… e debole. Perciò non ho saputo opporre resistenza, e me ne rammarico, più di te- il suo volto era serio, composto come se quella conversazione fosse una semplice chiacchierata a proposito di un’indagine poco attendibile.
-C’è dell’altro?- balbettò Elena stringendosi nelle spalle, distogliendo lo sguardo.
-Sì- proruppe, così da attirare l’attenzione della ragazza su di lui. -Voglio sapere cosa hai da dire tu, a riguardo- allungò le labbra in un sorriso sornione che, invece di rincuorarla, le diede solo maggior conferma di ciò che aveva in mente di confessare.
-Io…-.
-Parla-.
-Io vi odio! Quello che mi avete fatto è il gesto più crudele che poteste osare! Vi odio, con tutta me stessa!- strillò. –Vi odio, e dovete scomparire dalla mia vista!
L’assassino indietreggiò a capo chino stringendo i pugni. -Bene, allora! Se è questo che pensi, ho solo un’ultima cosa da aggiungere!- eruppe tornando all’ingresso della camera.
-E sarebbe?!-.
-Rivestiti! Non ci rimane altro tempo. Dobbiamo essere a Gerusalemme prima di questa sera, avanti! E non preoccuparti: ammazzato Corrado, salvato tuo padre e restituito il Frutto alla setta, non mi rivedrai mai più! Stanne certa!- sbatté la porta e permise che il silenzio calasse su di lei come una secchiata di acqua fredda.
Prima che Elena potesse pensare, dire o fare niente, un gridolino acuto si diffuse per la stanza, ed un secondo più tardi Rashy si posò sul cornicione della finestra artigliando il legno.
-Rashy- mormorò flebile la ragazza; e la falchetta si levò in volo tra i mobili e in pochi battiti d’ali le fu di fronte, zampettando sul pavimento a pochi passi dalle sue ginocchia che spuntavano da sotto la coperta. –Rashy- ripeté piangendo, e l’animale avvertì il suo rancore.
Forte nella convinzione di poterle essere d’aiuto, la falchetta domestica del suo maestro le saltò sul braccio graffiandole appena la pelle.
-Grazie- ridacchiò euforica Elena notando il rossore lasciato dagli artigli dell’animale.
Rashy la guardava coi suoi infiniti pozzi scuri e a scatti muoveva la testa di qua e di là. –Whà!- scappò dal suo becco.
Elena alzò una mano e le carezzò le piume soffici del petto. –Che cosa ho detto?- gemé la ragazza. –Che cosa ho fatto? Perché l’ho allontanato da me così? Sono più crudele io di lui se pretendo di poterlo trattare in questo modo- tirò su col naso percorrendo le piume argentate del dorso dell’uccello. –Sono stata più stupida io! Ma perché me ne pento solo ora che è troppo tardi? Perché sono così cieca? Ma ho paura, Rashy…- le sussurrò. –Ho paura di perdere per sempre qualcun altro che mi sta a cuore. Come mio padre e mio fratello, ma essi sono tornati da me lo stesso! Non so cosa fare, piccola. Ho paura, ho sbagliato, non ho la forza di rimediare. Diglielo tu, ti supplico!- strillò abbracciandola, e Rashy si fece spupazzare come un cuscino. –Diglielo tu, digli che mi dispiace! Digli che lui non ha colpa, digli che è umano ciò che ha fatto e digli anche che sono disposta a rinunciare a Marhim!-.
Non poté credere di aver davvero detto una cosa del genere.
-Ho capito, Rashy! Doveva finire così fin dall’inizio!- bagnò le piume della falchetta delle sue lacrime. -Forse era proprio ciò che Tharidl cercava di raggiungere mettendoci l’uno così vicino all’altra! Sennò perché lui? Perché affidarmi lui come maestro? Non voglio perderlo… io lo amo! Lo amo, lo amo!- di risposta a quelle parole, Rashy si comportò nel modo più plausibile possibile. Le picchiò il becco sul naso e alla ragazza scappò un sussulto di dolore.
-Ehi!- con un gesto svelto del braccio, scacciò l’animale via dal suo braccio.
Rashy spiccò il volo e si allontanò nel frastuono delle sue ali fuori dalla finestra, andando volteggiare sul pianoro circondato dalla roccia.
-Stupido uccello…- blaterò Elena sfiorandosi con due dita la punta del naso. –Non ci si può fidare di nessuno!- strillò levando gli occhi al cielo.
D’un tratto, la sua attenzione cadde su un movimento fuori dalla porta e, con suo immenso stupore, score un’ombra di piedi che vegliava fuori da essa.
Elena sbiancò. Aveva ascoltato ogni cosa…
Nel silenzio della stanza, la ragazza ascoltò i passi di Altair allontanarsi nel corridoio.
Si alzò di colpo, afferrando tutto ciò che le capitò tra le mani e rivestendosi alla svelta. Non avrebbe permesso che egli fosse il primo a fraintendere! Non gli avrebbe concesso il tempo sufficiente per ricredersi! Quello che aveva ascoltato era stato uno sfogo finito lì! Altair non doveva ricredersi e accettare il fatto che la sua allieva l’amasse.
Piuttosto, quando si lasciò calare la coperta dal corpo, fu imbarazzante accorgersi di una piccola macchiolina rossa all’altezza dell’incavo dei suoi seni. Ce n’era un’altra, sulla spalla sinistra e una terza all’altezza del fianco poco distante dall’ombelico.
La ragazza arrossì spudoratamente, ma cercò di non pensarci e indossò di fretta i pantaloncini corti e la canottiera, sovrapponendo a questa la parte della veste con le maniche.
Impiegò quelli che le parvero una manciata di minuti per ritrovare nella confusione di libri e pergamene il resto dell’uniforme, ma maledisse la sua ricerca e volò fuori dalla stanza in quello stato. Dopotutto, non aveva più motivo di vergognarsi!

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Allora, per questo capitolo intendo aprire solo qualche piccola parentesi.
1.    neppure io ho capito perché Elena ha confessato a Rashy di amare il suo maestro.
2.    Nella parte centrale del capitolo ci sono alcuni pezzi scritti in corsivo e altri no. Quelli in corsivo corrispondono ai sogni di Elena, mentre quelle parti in stampatello sono estratti di quello che accade mentre la Dea è semi cosciente nel sonno. Insomma, avete presente quando ci rendiamo conto di quello che ci accade intorno ma stiamo ancora “dormendo”? Ecco, proprio questo intendo. Lo so, è parecchio confuso e, sinceramente, i sogni assurdi di Elena non mi sono mai piaciuti un granché, ma scrivendo quelle parti era come se stessi facendo io quei sogni, e descrivevo esattamente quello che vedevo. XD assurdo, orribile e senza senso, ma spero comunque che vi sia piaciuto.
3.    Ho staccato raggiunte le 11 pagine piene e sono esausta.
4.    pensavo che con questo capitolo sarei arrivata oltre, ovvero all’infuriata di Malik nel lamentarsi del loro ritardo! *dannato spoiler!
5.    E pensare che avevo previsto che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo, ma come avete potuto vedere, sono bravissima a dilungare su certe cazzate! XD
6.    Qui è tutto, Elik.












   
 
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