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Autore: The Custodian ofthe Doors    26/06/2016    2 recensioni
Come si definisce l'importanza di un eroe? Le sue sole imprese possono dirci quanto esso sia stato grande?
Dalle azioni di un uomo si delinea il suo successo ed il ricordo che il mondo terrà di lui, le folli gesta di chi è stato designato come eroe ed è destinato all'immortalità.
Loro non sono altro che mezzi eroi invece, nessuno li ricorderà mai, non saranno i protagonisti di leggende fantastiche e racconti mozzafiato, nessuna canzone verrà composta e cantata alla vivace fiamma di un falò nelle notti stellate, nessun bambino desidererà mai esser come loro, ripercorrere i passi di chi ha lottato, ha sofferto ed è morto come semplice soldato senza poi ricevere la corona d'alloro.
Perché loro erano lì, ma questo non conta.
Loro erano solo Mezzi Eroi e sempre tali sarebbero rimasti.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Half Heroes


12. Butch- La luce del Prisma.


Fin da quando era piccolo aveva sempre trovato estremamente affascinante l'arcobaleno.
Era la strada per la ricchezza, per la fortuna, per l'amore. Portava alle possenti porte di Asgard, conduceva a palazzi di cristallo che galleggiavano alti nel cielo. Era il sorriso di un angelo, la preghiera di perdono del cielo alla terra, per aver sfogato tutta la sua rabbia, le sue lacrime, il suo dolore sull'inerme amata.
Era il raggio incolore che colpiva l'ancor più incolore cristallo per aprirsi nel più meraviglioso ed incredibile ventaglio di colori, come un pavone che orgoglioso faceva la ruota. L'arcobaleno lo faceva sentire meglio e se si sdraiava sul letto a testa in giù e guardava fuori dalla finestra vedeva proprio un sorriso felice e sembrava rivolto proprio a lui.
Butch vedeva i colori dell'arcobaleno in ogni cosa, in ogni persona, animale o pianta, ogni essere per lui brillava di magnifici colori.
Con il passare del tempo Butch imparò che la luce che entrava nel cristallo – poi avrebbe imparato essere un prisma- era bianca e che il bianco era la totale assenza i colori. Eppure lui non capiva, se prendeva una girandola colorata e la faceva ruotare forte, questa diventava bianca, e quindi aveva in se tutti i colori, ma se provava a mischiare tutte le sue tempere gli veniva fuori uno strano miscuglio marroncino-griggiastro- tendente al nero.
La prima crisi filosofica ed esistenziale di Butch si risolse con un gran mal di testa e tanta confusione.
A sedici anni disse a suo padre di volersi fare un tatuaggio e si sarebbe ricordato per tutta la vita la faccia del tatuatore, avvolta da una leggera nebbiolina rossastra, quando gli aveva detto di voler un arcobaleno. Quando suo padre non sentiva aveva aggiunto che “ era per sua madre”, come a giustificarsi, perché in effetti era un po' da femmina e lui era un armadio a due ante e un po' si vergognava; ma c'era anche qualcosa di maledettamente giusto in quella frase che fece annuire comprensivo l'omone, spandendo una soffusa luce color salmone per tutto lo studio.
L'uomo gli disse che nei riccioli bianchi delle nuvole avrebbe scritto “Iris” perché per la dea degli arcobaleni e gli avrebbe portato fortuna.
La luce giallo vitalità e rossa d'amore si mescolò nello sguardo di suo padre, l'orgoglio brillava arancione nelle iridi normalmente scure.

Ora quelle nuvole erano tagliate di netto da una ferita, nessuna luce particolare illuminava la scia di una lama nemica -mostri? Giganti? Romani?- che gli aveva strappato quei riccioli candidi e con loro il nome di quella che effettivamente era sua madre. La guerra era finita, non davvero però, bisognava curare i feriti, bruciare i cadaveri, ricostruire palazzi e sanare menti, inseguire tutti i mostri che erano usciti dalle porte della Morte e ricacciarli all'inferno. E per ora non erano neanche lontanamente a buon punto.
L'infermeria e la casa Grande erano una bolgia, l'ospedale da campo era gremito di persone, a lui le sue ferite le aveva pulite e fasciate una figlia di Demetra, una ragazzina dal volto provato dalla stanchezza che si era scusata di non poter far di più, di non potergli dare dell'ambrosia e del nettare perché servivano per i feriti. Di chiamare un figlio di Apollo per qualche taglio e tanti lividi, neanche a pensarci, era tra i fortunati, tra quelli che potevano fare e alle volte gli veniva in mente che forse erano più fortunati i malati, che dovevano pensare solo a se stessi e non agli altri, che non dovevano vedere tutta quella distruzione e quell'orrore, protetti dalla pesante cortina nera che era il coma del ferito.
Poi vedeva passare ragazzi distrutti, che comunicavano la morte di un altro compagno, l'ennesimo adolescente deceduto per una guerra che non doveva conoscer, di cui avrebbe dovuto sentir parlare solo nelle ore di mitologia e capiva che effettivamente il peggio era restare e assistere a tutto ciò.
Vedeva il nero denso del sangue secco sporcare gli abiti di quell'ennesimo corpo e la nausea gli saliva alla bocca dello stomaco, stroncandogli di netto il respiro: non ce la poteva fare a spostarne un altro, ogni volta che toglievano delle macerie spuntava un cadavere, ormai il conteggio dei morti e dei feriti superava quello dei vivi ed i dispersi, dopo tre giorni, si sperava solo di non trovarli già con un principio di decomposizione. Fece leva sulla barella per non crollare ed una mano gli batté sulla spalla: Clarisse gli passò vicino mormorando qualcosa sul rimettere a posto il tatuaggio, una cosa come “te lo rimetto a nuovo un giorno di questi”, poi si avvicinò al cadavere, un fantoccio bianco con la maglia arancione, il cui colore sembrava risucchiato dal pallore innaturale ed azzurrino della pelle, spostò con inimmaginabile delicatezza la ragazza di Ermes che piangeva il fratello e prese il defunto in braccio, come se stesse dormendo, come se fosse la cosa più naturale, come se fosse l'ultima gentilezza che potesse porgergli.
Non aveva la più pallida idea di come facesse a toccarlo così, mentre tutti cercavano di sfiorarli il meno possibile, cercando di non sentire il contatto di quella pelle fredda ed inerme, così terribilmente simile alla consistenza della carne da macello. Ma quando la ragazza gli passò di fianco, in quella gigantesca spirale nera che risucchiava tutti i colori – tutta la luce - Butch poté giurare di aver visto uno scintillio rosso sangue avvolgere il corpo della guerriera, qualcosa di innaturale in quell'ambiente, qualcosa di mortalmente umano e neanche lontanamente divino.
In tutto quel grigiore sprigionato dalla tragedia lo spirito combattivo di Clarisse, di chi non si arrende mai, vibrava dei caldi toni del rosso sangue, sangue vivo e pulsante come quello di un cuore sano che batte contro tutti e tutto.
Come poteva essere “colorata” in mezzo a tutta quella disperazione? Non una sola scintilla di luce filtrava il pesante mantello della morte, eppure Clarisse brillava, mentre lui si sentiva solo un vetro rotto in mezzo a centinaia di frammenti suoi fratelli, rotto dalla guerra, dal dolore, dal non essere riuscito a fare di più, dallo sconforto per la grama vittoria, dalla colpevolezza infondata di chi resta e dal desiderio di chiudere gli occhi e non riaprirli più, di non dover più vedere tutto quello.
Poi un altro scintillio. Tra le corsie si muoveva veloce un figlio di Apollo, Will Solace urlava contro Clarisse La Rue che prima o poi anche lei si sarebbe dovuta far visitare, il giallo accecante del mezzogiorno gli brillava in testa come una corona. La ragazza che lo aveva medicato si fece largo tra lui ed il suo compagno di lettiga portando in mano un cesto di erbe, il verde della sua anima inondò la stanza seguendo la scia del giallo di Will e colpendo in pieno il blu elettrico degli occhi di Jason Grace, che voleva alzarsi dal letto a tutti i costi ed aiutare; poi il rosa shocking della piccola Lacy della 10, arruffata come un pulcino mentre puliva con attenzione il viso sporco di un semidio ancora svenuto, vicino a lei il viola porpora di Castore che disinfettava ferite avvelenate.
L'azzurro di un figlio di Ermes che portava da mangiare, l'arancio dei capelli tinti di Lou Ellen che blaterava di patriottismo del capo, il verde acqua della pelle di una ninfa che portava notizie, in un punto indefinito della sala l'oro di un figlio di Nike e l'argento di una cacciatrice di Artemide che collaboravano come una macchina perfetta.
Butch ama i colori quasi quanto gli arcobaleni, perché questi ultimi sono la prova che anche dopo la più terribile tempesta tornerà il sole che si specchierà nelle migliaia di piccole gocce come un raggio di luce rimbalza nelle sfaccettature di un prisma, e forse li ama così tanto perché essere figlio di Iris gli fa vedere davvero i colori, perché anche se lui ora è un vetro rotto ed il campo è la confusione che si lascia la tempesta alle spalle, la vita e la voglia di vivere sono la luce che si specchia nelle gocce e ci sono anime forti e valorose che stanno già risplendendo per riportare i colori nel loro piccolo mondo.
Perché li amasse prima, gli arcobaleni, non saprebbe spiegarlo, perché erano il sorriso degli angeli, la strada per l'amore, per la ricchezza e la felicità, per tanti motivi confusi ed uno strano ed inspiegabile senso d'appartenenza, ma ora Butch lo saprebbe dire con certezza: Ama gli arcobaleni perché vi vive in mezzo, perché ogni anima ha un colore e per ricominciare, per ricominciare a vivere, tutti quei colori collaborano e coesistono senza sopraffare gli altri, ma dando vita a splendide sfumature, che riunite tutte assieme formano il bianco cangiante della luce che colpisce il prisma pieno si sfaccettature che è la vita.


   
 
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