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Autore: Adeia Di Elferas    28/06/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il ravennate guardò Salumbrini, appena arrivato alla Torre di Capo Colle con occhio indagatore, e gli disse, con urgenza: “Mi han detto che voi conoscete Antonio Gionchido, della Villa di Castiglione.”
 Antonio Maria Ordelaffi aveva messo in guardia il suo amico, pregandolo di scegliere bene i propri alleati e di valutare caso per caso se fidarsi o meno di chi aveva davanti. Tante belle parole, ma alla fine il ravennate aveva dovuto scegliere tra quelli che aveva trovato e quello strano soggetto era l'unico che racchiudesse in sé ciò che serviva alla congiura per decollare.
 A Salumbrini scappò una risata, mentre, togliendosi un po' di neve dalla giubba, assicurava: “Amico...! Più che amico, quasi fratello, dico io! Amici e fratelli da una vita, lo giura sull'anima, signor mio!”
 L'uomo di Ravenna si aspettava una risposta simile e si sentì sollevato nel vedere che la soffiata era corretta. Così prese con circospezione un incartamento da una delle tasche interne del suo giubbotto e, fingendo di guardarsi attorno in cerca di eventuali occhi indiscreti, si fece più vicino a Salumbrini.
 Se fosse riuscito a coinvolgerlo, facendogli credere che il suo aiuto era indispensabile – cosa quasi vera, per altro – allora ne avrebbe anche cavato un vantaggio.
 “Vedete, ho questa lettera da consegnarli personalmente.” disse il ravennate, facendo, con la mano libera, un segno inequivocabile, mentre prometteva: “Chi mi porterà da lui verrà ben ricompensato per il suo sforzo.”
 Salumbrini non se lo fece ripetere e acconsentì immediatamente, facendosi uscir di bocca una nuvoletta di vapore: “Preparatevi, mio signore, che vi ci porto all'istante.”

 “Tu e Cesare c'entrate qualcosa?” chiese la piccola Bianca, bloccando Ottaviano mentre le passava accanto.
 “Hai detto che non ne vuoi sapere nulla, no?” ribatté il fratello, appena arrivato dal cortile, evitando di incrociare il suo sguardo, fingendo una fretta che in realtà non aveva: “Mi aspetta il maestro d'armi, devo...”
 “Volevano uccidere anche nostra madre.” disse Bianca, tenendo per la giubba umida per la neve il maggiore, per impedirgli di scapparle.
 A quel punto, Ottaviano perse la pazienza e, puntando gli occhi scuri in quelli chiari della sorellina, la redarguì: “Devi stare molto attenta, Bianca. Non si sa mai chi potrebbe ascoltare.” e con uno strattone si liberò dalla presa della bambina e se ne andò.
 Per quanto fosse convinto che la madre non avesse capito che anche lui era il mandante vero e ultimo della congiura fallita, Ottaviano ormai viveva nel terrore di essere scoperto. Ora che sua madre era tornata assieme al suo amante a Imola, il ragazzino non faceva altro che figurarsi i peggiori scenari del mondo, che andavano da un qualche imolese improvvisamente deciso a confessare qualcosa, al Cardinale Sansoni Riario che, pentito, scriveva alla Contessa per illuminarla sui retroscena di Tossignano.
 Ottaviano ormai non dormiva quasi più la notte e temeva il ritorno a casa di sua madre. Se fino a poco prima avrebbe approfittato della sua lontananza per prendere di mira il piccolo Bernardino con qualche scherzo stupido, ora non osava più. Inoltre, c'era da ammetterlo, la cameriera che faceva da guardia al bambino era un vero mastino.
 Cesare, invece, aveva appreso dalla madre che nel suo futuro c'era ormai per certo la Chiesa. Con tutta la fiducia della sua tenera età, il ragazzino aveva accettato questa mezza imposizione di buon grado, contento di poter approfondire materie che gli interessavano, come il latino e la teologia.
 Non aveva condiviso le stesse inquietudini del fratello, perché aveva l'ingenua capacità di fidarsi di quelli che gli si proclamavano fedeli e così non temeva affatto delazioni o spiate, al confronto del fratello maggiore, che invece ne era atterrito.
 L'unica grande apprensione di Cesare, circa la congiura di Tossignano, era stato il sapere che anche la madre era entrata nel mirino dei congiurati. Aveva timidamente avanzato l'ipotesi che ci fosse qualche altro mandante, a parte lui e suo fratello, ma Ottaviano l'aveva zittito, dicendogli che di quelle cose non capiva niente.
 Livio e Galeazzo, invogliati dallo stesso Cesare, che sperava di trovare in loro qualcuno di più duttile di Ottaviano, si stavano accostando sempre di più agli studi e i loro precettori si aspettavano grandi cose, soprattutto dal secondo. Per quanto fossero svegli, comunque, i due piccoli non potevano minimamente immaginare cosa i loro fratelli più grandi stessero tramando.
 
 Antonio Gionchido guardò il ravennate e il Salumbrini con gli occhi spalancati, senza parole.
 Aveva giustappunto terminato di leggere la lettera – e Salumbrini aveva insistito per rimanere e sentirne il contenuto, rinunciando perfino al suo compenso, tanta era la curiosità – e ora non sapeva come dire al ravennate che lui proprio non poteva accettare.
 “Allora, la vostra risposta? Badate, che bisogna agire subito.” disse l'uomo di Ravenna, con fermezza e una certa ombra minacciosa sul viso.
 “Ma è un piano che non sta in piedi...” provò a lamentarsi Gionchido: “Ordelaffi non ce li ha, i soldati per invadere Forlì...”
 “Che ne sapete voi?” lo attaccò il ravennate: “Devo forse dire al nostro vero signore che non siete più un suo servo fedele?”
 “No, no...” riparò subito Antonio: “Solo... Qui dice che devo prendere Porta Schiavonia, occuparne la rocca, ucciderne il castellano e preparare l'arrivo a Ordelaffi, ma non so nemmeno da che parte prendere... Non ne sono all'altezza!”
 Fu il turno di Salumbrini, che, schiarendosi la voce, prese la parola: “Ho io un metodo che può funzionare.”
 Il ravennate guardò il forlivese dall'aspetto viscido e, con palpabile scetticismo, chiese: “Ovvero?”
 “Conosco uno dei camerieri del castellano della rocchetta di Porta Schiavonia. Lo convincerò a collaborare con noi e poi troverò altri alleati.” disse Salumbrini, come fosse una cosa di estrema facilità.
 Il ravennate si accigliò: “Dovrò scriverne all'Ordelaffi, per sapere se appoggia questa linea.”
 “Non c'è tempo!” lo riprese Salumbrini: “Forza, andiamo subito a Forlì, là troverò gli amici che ci servono, primo tra tutti Giovanni Montanari!”
 
 Rodrigo Borja guardava a Innocenzo VIII come un cerusico avrebbe fissato un morente reso pazzo dall'agonia.
 “Vi dico che possiamo!” continuava a dire il papa, allontanandosi dal caminetto che cercava di contrastare il freddo pungente di quel giorno: “Abbiamo questo prigioniero che... Insomma, che sto a dirvelo... Possiamo ricattare i mori e convincerli alla resa.”
 “Voi auspicate una nuova crociata – fece notare Giuliano Della Rovere – mentre invece dovreste preoccuparvi delle voci insistenti che vi vogliono propenso a spostare la sede vaticana in Francia...!”
 Innocenzo VIII agitò una mano per aria, zittendo lo scomodo Cardinale e proseguì: “In Spagna ormai la riconquista è quasi completa, dunque è il momento di attaccare...”
 Rodrigo, spinto soprattutto da uno sguardo esasperato di Ascanio Sforza, che non era ancora stato in grado di proferir verbo, prese la parola, con un sottile sospiro: “Santità... Per quanto mi sia difficile ammetterlo, il caro Della Rovere ha ragione. Ho sentito che più di un cancelliere paventa una nuova Avignone...!”
 Vedendo che quell'argomento non toccava minimamente il vecchio papa, Borja provò per un altro verso: “Meglio pensare ai vostri figli...! In gennaio vostra nipote Battistina, figlia di vostra figlia Teodorina, sposerà Luigi d'Aragona, nipote di Ferrante. Una pace con Napoli va festeggiata con la pace, non con una nuova crociata.”
 Innocenzo VIII, un po' confuso, guardò lo spagnolo come se lo vedesse in quel momento per la prima volta e dopo un momento di esitazione annuì: “Già, il matrimonio di mia nipote Battistina... Dobbiamo organizzare tutto...”
 Se solo almeno uno dei tre Cardinali che lo stava assistendo, si fosse sentito abbastanza sicuro della propria posizione da rischiare un conclave, per certo Innocenzo VIII non sarebbe arrivato vivo al mattino seguente. Tuttavia nessuno di loro si sentiva tanto ardito, in quell'ottobre.
 Giuliano Della Rovere non era del tutto sicuro dei suoi alleati in Vaticano e temeva di non arrivare nemmeno alla metà dei voti necessari per vincere un conclave.
 Ascanio Sforza sapeva di essere ancora troppo giovane e, agli occhi degli altri porporati, troppo vicino a un Ducato scomodo come quello di Milano, la cui insostenibile diarchia di Ludovico e Gian Galeazzo faceva sparlare in tutta Europa.
 Rodrigo, invece, era ancora scosso per la morte del figlio Pedro Luis, che era stato Duca di Gandia e non si sentiva potente come avrebbe voluto. Per quanto fosse certo che ungendo gli ingranaggi giusti sarebbe riuscito a ottenere un plebiscito, preferiva temporeggiare, sperando che Cesare e Juan riuscissero a rendere ancora più stabile la loro famiglia.
 Così, mentre Innocenzo VIII cominciava a elencare i piatti che avrebbe voluto al banchetto del matrimonio della nipote, i tre Cardinali fingevano di ascoltare, mentre invece erano intenti a valutare silenziosamente ciascuno la sua situazione.
  Rodrigo, Ascanio e Giuliano si scambiarono un'occhiata complice e, mentre portavano il papa su quell'argomento innocuo, tutti e tre si chiesero quanto tempo sarebbe passato, prima di doversi fronteggiare l'un l'altro per prendere il posto di quel vecchio.

 Il cameriere del castellano della rocchetta di Porta Schiavonia accettò servilmente di aiutare Salumbrini, ma se ne pentì quasi subito.
 Una volta tornato all'interno della rocca, cominciò a rimuginare su quello che era accaduto pochi giorni prima proprio lì a Forlì.
 Prima di ripartire per Imola, la Contessa Sforza Riario aveva messo in gattabuia tutti quegli imolesi che avevano osato sfidarla e ora quelli giacevano nelle segrete di Ravaldino, mangiati da topi, al buio...
 Non voleva finire così anche lui.
 Quando lo sguattero arrivò a dargli una mano con gli abiti del castellano, il cameriere non resistette oltre e gli confessò quello che aveva accettato di fare.
 Lo sguattero, per quanto fosse ottuso e ignorante, commentò con un sonoro: “Boia mondo, sei morto, amico!”
 Il cameriere lo guardò un lungo momento, sperando di trovare argomenti con cui smentirlo, ma sapeva che tutto quanto sarebbe finito male e che lui sarebbe stato impiccato o squartato davanti alla piazza, altro che carcere a vita. Non aveva un cognome importante come i Tartagni o i Vaini. Lui l'avrebbero dato in pasto ai cani, tanto per divertimento.
 Prima che scendesse la sera, il cameriere del castellano della rocchetta di Porta Schiavonia scappò dalla città, sotto la neve che cadeva copiosa, portando con sé le sue poche cose e qualche moneta d'oro rubata dalle tasche del suo signore.
 
 “Sicura che sia una buona idea restare a Imola così tanto?” chiese Lucrezia, con voce un po' nasale per via del raffreddore, mentre lei e sua figlia si godevano un momento di riposo davanti al caminetto.
 Ottobre stava già mostrando i denti e la sua morsa fredda aveva stretto da un giorno con l'altro tutta la Romagna, con gelate mattutine e nevicate pomeridiane e serali, promettendo un inverno non dissimile da quelli appena passati.
 “La congiura l'hanno tentata degli imolesi. Devo farmi vedere qui, almeno per un po'. Ho aspettato troppo a tornare in questa città.” spiegò Caterina, che anche quel giorno era stata in giro per le stradine di Imola, parlando con la gente e carpendo informazioni di ogni tipo sui loro malcontenti e sulle loro eventuali rimostranze.
 Lucrezia si strinse nelle spalle e, sorbendo qualche sorso del decotto che le aveva preparato sua figlia per aiutarla a farsi passare la congestione nasale, fece: “Forse hai ragione. Hai passato molto tempo chiusa nella tua rocca, uscendo così di rado...”
 Caterina avrebbe voluto controbattere dicendo che aveva avuto i suoi buoni motivi per non uscire da Ravaldino troppo spesso, ma sua madre in un certo senso l'anticipò: “Certo, ora che Giacomo Feo non è più castellano, credo che ti vedrò qui molto più spesso.”
 La Contessa sprofondò nella poltroncina e, allacciandosi le mani in grembo, diede voce a uno dei suoi dubbi più grandi: “Secondo te sto sbagliando a lasciare i miei figli a Forlì? Avrei dovuto portarli qui con me?”
 “Credi che siano in pericolo?” domandò Lucrezia, dopo aver starnutito due volte, puntellandosi sul divanetto, le mani strette attorno al calice rovente.
 Caterina alzò il sopracciglio e, mentre pensava che la sua vera preoccupazione stava nel lasciare Ottaviano solo in balia di se stesso e dei suoi pensieri rancorosi, rispose: “Non lo so. In fondo lo siamo sempre tutti.”
 “E Giacomo si è un po' ripreso? L'ho visto molto in difficoltà...” s'informò Lucrezia che in tutto quel soggiorno non si era mai permessa una volta di lamentarsi del genero, benché lo trovasse un po' troppo scontroso e sempre pigro.
 A dirla tutta, Lucrezia non si sentiva nella posizione di criticare la scelta della figlia, ricaduta su un giovane uomo, di bell'aspetto, sufficientemente coraggioso da starle accanto malgrado tutto e dall'innegabile fedeltà. Quando era stata giovane, lei aveva riposto il suo sentimento d'amore in un uomo decisamente peggiore. Benché Galeazzo Maria le fosse sempre parso affascinante, Lucrezia aveva l'onestà di ammettere almeno con sé stessa che il Duca di Milano era stato un uomo crudele e poco equilibrato. E non l'aveva sposata, adducendo mille scuse, prima tra tutte, la differenza di rango e l'aperta opposizione da parte di Bianca Maria Visconti.
 Caterina, almeno, si era innamorata di un uomo che la ricambiava e che sembrava proprio intenzionato a non tradirla mai, nemmeno con il pensiero. Perché di una cosa Lucrezia era stata certa fin dal primo istante in cui li aveva visti arrivare assieme a Imola: per Giacomo non esisteva altra donna se non Caterina e per Caterina non esisteva altro uomo se non Giacomo.
 La Contessa si fece scura in viso e rispose: “Sì. Deve solo farci l'abitudine.” guardò la madre e suggerì: “Anche tu, quando vivevi con mio padre, hai dovuto convivere con la paura delle congiure, eppure eri felice ugualmente, no?”
 Lucrezia annuì pacatamente e confermò: “Hai ragione. Ci si abitua a tutto e col tempo si capisce che con certe cose bisogna convivere.”
 Per un istante sulle due donne aleggiò il ricordo di Galeazzo Maria Sforza e di come fosse morto all'improvvisa, sgozzato davanti al portale della chiesa di Santo Stefano.
 Caterina fu la prima a riscuotersi da quel ricordo e proseguì: “Quando Giacomo capirà che questa è stata solo una grande fortuna, che siamo ancora vivi e che potrebbero passare anni, prima di incorrere in una nuova congiura, allora gli passerà.”
 Lucrezia bevve ancora un po' di decotto e concluse, fiduciosa: “Ne sono certa.”

 Giovanni Montanari stava scuotendo con forza il capo a destra e a sinistra, facendo ondeggiare la barba lunga a ritmo col suo diniego: “Voi siete un povero pazzo.” aggiunse, per togliere ogni dubbio.
 Salumbrini lo guardò con un misto di rancore e incredulità: “Pazzo siete voi, che non capite il potenziale di questo piano! Il cameriere del castellano è pronto ad aprirci le porte della rocca. Sarà un gioco da ragazzi! Uccideremo il castellano e in meno di un giorno Ordelaffi sarà qui coi suoi e tutti i suoi fedeli di Forlì prenderanno le armi...!”
 “Ho detto di no.” ribadì Montanari: “Lasciatemi fuori da questa storia.”
 “Dovremmo uccidervi, perché potreste fare la spia...” notò Gionchido, poco convinto.
 “E a chi?” ghignò Montanari: “A un Conte di undici anni? A una donna che mi metterebbe ai ceppi senza riguardo, malgrado il mio 'pentimento'? No, grazie, preferisco farmi gli affaracci miei.”
 Salumbrini si sentiva tradito da quello che riteneva un amico, ma capiva anche lui che da Montanari non avrebbero ottenuto null'altro.
 “Che Dio vi abbia in gloria, Giovanni.” disse, la voce resa acuta dall'ira, Salumbrini e fece segno a Gionchido di seguirlo fuori da quella casa.

 Era solo ottobre, eppure su Firenze era caduta la prima massiccia nevicata e secondo gli astrologi di corte, non si trattava che dell'inizio.
 “Se non sapessi che è impossibile – disse il Magnifico, stringendosi nella coperta, mentre gli occhi stanchi indugiavano sulle piante innevate che si scorgevano dalla finestra – dire che questo è una sorta di maleficio.”
 “Lanciatoci da chi?” chiese Poliziano, divertito da quell'ipotesi.
 Lorenzo fece spallucce: “Da quel maledetto Savonarola, per esempio. O dai miei cugini di Cafaggiolo.”
 Poliziano, che come altri amici del Magnifico, faceva a ruota per stare con il signore di Firenze in quei lunghi pomeriggi di inizio inverno, accavallò le gambe, lisciandosi le calzabrache scure: “Suvvia, i tuoi cugini non hanno simili poteri.”
 Lorenzo ridacchiò: “Forse loro no, ma ci scommetto che il frate li ha.”
 Poliziano guardò a lungo il suo signore e si chiese quanto Piero Leoni avesse capito di quella malattia. Quel pomeriggio il Magnifico, malgrado la copertina sulle spalle e gli occhi cerchiati da pesanti occhiaie, sembrava ancora un ragazzino, mentre solo quella mattina pareva un vecchio prossimo alla tomba. Che fosse anche quello un maleficio di Savonarola?
 “Se lo odi tanto – soffiò Angelo Poliziano, allargando le braccia, mentre il naso adunco tremava – perché non lo dici chiaramente anche ai fiorentini? Lo appoggiano ogni giorno di più e non sentirti ribattere mai alle sue invettive ti metterà in difficoltà, sai?”
 Il Magnifico si alzò dal suo scranno: “E con che forze? Dovrebbe essere mio figlio Piero a scagliarsi con forza contro quel frate, a farlo rinsavire, a fargli capire che le sue prediche non ci garbano e a ricordargli che noi lo abbiamo voluto di nuovo qui. Noi. Ma Piero è troppo pavido per farlo e io sono troppo debole.” e fece un paio di passi scricchiolanti, come a dimostrare che le sue parole erano vere.
 Poliziano fece una smorfia. Lorenzo aveva ragione, su tutto. Come al solito non sbagliava. Stavolta, però, che ne sarebbe stato di Firenze, orfana del suo signore?
 
 “Che?” chiese il castellano della rocchetta di Porta Schiavonia, quando il suo sguattero gli ripeté parola per parola quello che il cameriere gli aveva confessato prima di darsela a gambe.
 “Giuro su Dio e sulla mia animaccia, mio signore.” confermò lo sguattero, allungando una mano in cerca di una ricompensa in danaro.
 Il castellano non guardò nemmeno la mano tesa e cominciò a bestemmiare a voce alta per poi correre prima a scrivere una lettera e poi agli alloggi dei soldati a gridare: “Andate subito ad arrestare Salumbrini, Gionchido e Montanari, portateli al podestà con queste accuse di tradimento – e porse a una delle guardie la missiva appena scritta – e assicuratevi che tutti li vedano arrivare in pubblica piazza con il capestro e la faccia rigata di lacrime!”
 Appena i soldati, intabarrati come fosse gennaio, partirono per adempire alla loro missione, il castellano tornò nel suo studiolo e si affrettò a scrivere una missiva per la Contessa, ancora a Imola, chiedendole di tornare immediatamente in città, per mostrare il suo pugno di ferro anche con quei codardi che agivano, così aveva detto lo sguattero, su ordine di quell'infame di Antonio Maria Ordelaffi, 'che Dio lo mandi in malora', soggiunse l'uomo, prima di chiudere la lettera con la sua firma.

   
 
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