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Autore: Jo_The Ripper    29/06/2016    0 recensioni
Raccolta di one shot slegate tra di loro, che abbracciano vari generi, situazioni e tematiche (nonché what if e possibile caratterizzazione OOC dei personaggi), scritte per lo più sotto impulsi ed ispirazioni del momento.
1. Dead man walking: “Si sentiva un cacciatore d'oro all'inferno, alla ricerca della vena fortunata.”
2. Once upon a dream: “Molly sogna, e nei suoi sogni Sherlock è ombra.”
3. Cold blooded (2° classificata al contest Film e telefilm: dimmi qual è il tuo): “Sono l’unico uomo a cui non potrai mettere un guinzaglio.”
4. Gluttony: “Tutto comincia con un capriccio.”
5. The sound of silence: “Mi sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in frantumi.”
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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[John centric; missing moment dell’episodio 2x03 – The Reichenbach fall; angst is the way, introspettivo]

The sound of silence
Hello darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while I was sleeping
And the vision
That was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence
Simon and Garfunkel – The sound of silence

John Watson ricordava con estrema precisione il giorno in cui aveva smesso di sentire.
La giornata uggiosa, il cielo una lapide bianca nebulosa, con poche nuvole plumbee che lo solcavano. Ricordava l’odore del taxi che aveva preso: stantio e dolciastro, come se qualcosa vi marcisse all’interno; la strada del Barts insolitamente vuota, così nera in confronto al bianco sporco dell’edificio.
Il telefono aveva preso a squillare, era Sherlock. Gli disse di guardare sul tetto dell’ospedale, e lo vide lì, fermo come un mago in procinto di lanciare un incantesimo.
John non poteva immaginarlo che quella sarebbe stata la loro ultima conversazione, nonostante Holmes avesse cominciato un discorso che il suo cervello rifiutava perché era così dannatamente surreale.

Era tutto vero.
“John, eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.”1

Lui era un bugiardo, aveva inventato Moriarty per i suoi scopi.
“John, è un errore enorme teorizzare a vuoto. Senza accorgersene, si comincia a deformare i fatti per adattarli alle teorie, anziché il viceversa.”2

Nessuno poteva essere così intelligente.
“Non posso vivere se non faccio lavorare il cervello. Quale altro scopo c’è nella vita? Sai bene che nulla è insignificante per una mente superiore.”3

Le persone lasciano un biglietto.
“Il modo migliore per recitare una parte è quello di viverla.”4

Dicono addio.

“Il tocco supremo dell’artista: sapere quando fermarsi.”5

E poi un solo movimento, un salto a braccia spiegate, il loro annaspare violento, il cappotto gonfiato dall’aria prima di impattare al suolo.

Il mondo attorno al dottor Watson si ammutolì improvvisamente.

John, la bocca spalancata in un grido strozzato, cominciò a correre, prima di essere investito da un ragazzo in bicicletta.
Stordito, con le orecchie gli fischiavano, non sentiva nemmeno il dolore della caduta. I suoi occhi erano fissi su Sherlock, sulle persone che, correndo, si accalcavano attorno a lui per prestargli soccorso.
Non gli giunsero all’orecchio nemmeno le sue stesse parole, dette mentre incespicava incredulo verso quell’involucro vuoto che  “No, non può essere Sherlock, perché Sherlock ha sempre un piano, è uno scherzo, tutto uno stupido scherzo…”
“Lasciatemi passare, sono un dottore, lui è mio amico…” esalò mentre un gruppo gli faceva da barriera per non lasciarlo avvicinare.
La vista gli si annebbiò ed un conato gli avvinghiò lo stomaco di fronte allo spettacolo del sangue di Sherlock che scorreva nelle scanalature del marciapiede, raccogliendosi in una pozza sotto di lui.
Come un disperato naufrago alla ricerca di un appiglio per restare a galla e non venire sballottato dalle onde, John allungò la mano per sentirgli il polso.
Niente.
Eppure la pelle di Sherlock era ancora calda, tanto calda da sembrare così viva. Lo strinse più che poté, rafforzando la presa attorno a quel corpo che doveva ancora conservare un soffio vitale.
Si accasciò tra le braccia di un paramedico quando voltarono il corpo del detective.
I capelli impiastricciati di sangue, gli occhi di vetro, fermi a fissare il vuoto. Il suo viso una maschera cerea segnata dalle ferite.
“No… Dio, no.”
I paramedici caricarono Sherlock su una barella e lo portarono all’interno.
John riuscì ad alzarsi e, incurante della pioggia che aveva preso a cadere, fissò impotente l’ingresso del Barts.
Davanti a lui si era spalancata una voragine.
E in quel momento sperò che qualcosa, oltre al silenzio, lo inghiottisse.

*

I giorni seguenti trascorsero in uno strano limbo irreale, di cui non ricordava molto.
Al funerale il celebrante gli chiese di dire qualche parola.
Fu uno sforzo titanico alzarsi e trascinarsi sul pulpito. La bara di Sherlock, con i suoi intarsi e ghirlande di fiori sembrava occupare tutto lo spazio.
Il silenzio era così soffocante.
In quel momento, mentre faceva vagare lo sguardo sui pochi presenti, l’anima ammutolita del dottore si accese di rabbia.
Un sentimento che gli bruciava la pelle, gli rodeva le viscere e spingeva per uscire a gran voce. John avrebbe voluto urlare, maledire quell’uomo tanto geniale quanto stupido che aveva commesso un gesto così folle, avventato ed incosciente.
John si sentiva tradito. E arrabbiato.
Perché Sherlock gli aveva mentito? Perché l’aveva abbandonato con una fottuta telefonata? Perché aveva dovuto anteporre sempre le vite degli altri alla sua?
“Sherlock Holmes era un egoista figlio di puttana. Un uomo senza mezze misure. Ma io nutro ancora una fede cieca e incrollabile in lui.”

Ecco cosa avrebbe voluto dire in quel momento agli amici sofferenti, alla famiglia distrutta.
Le parole, però, gli morirono in gola. Mormorò delle scuse stentate e tornò a sedere.
Quando tutto finì, qualcuno si avvicinò a lui per dirgli qualcosa. Parole vuote che lui non ascoltò.

*

Il silenzio di Baker Street gli pesava sulle spalle come una cappa di piombo. Sapeva che rimanere lì non sarebbe stato facile.
Di notte si rigirava continuamente nel letto ma, non appena provava ad abbandonarsi al sonno, le immagini di Sherlock, del suo viso imbrattato di sangue, della sua bocca dischiusa senza respiro, si impadronivano prepotenti di lui.
Così si alzava e rimaneva seduto per ore, con le braccia mollemente distese sulle ginocchia, a fissare la poltrona di fronte alla sua.
La quiete della notte si caricava della sua rabbia mai sopita e del senso di colpa. Quel sentimento s’insinuava nella sua anima, pungolandola, tormentandola, scomponendola in frammenti infinitesimali.
Cosa aveva fatto per salvarlo? Niente. Non aveva nemmeno saputo trovare parole adatte a dirgli che si sbagliava su tutto, perché lui credeva.
Credeva e avrebbe sempre creduto in Sherlock Holmes.
Ma in quel silenzio, quella coltre spessa, quel fumo denso che gli penetrava nei polmoni e gli impediva di respirare, stava smarrendo anche se stesso. L’atmosfera della casa non era più pregna delle macchinazioni del detective, del lieve respiro quando si rifugiava nel suo Mind Palace, dell’attesa spasmodica e della concentrazione quando seguivano un caso. Non sentiva il silenzio del tempo che trascorrevano seduti su quelle poltrone senza il bisogno di dirsi alcunché, ma con la consapevolezza di essere l’uno presenza indispensabile nella vita dell’altro.
Ora che era rimasto solo, quel silenzio malsano stava crescendo attorno a lui come un cancro aggressivo.

A volte rimaneva alla finestra per ore e, se aguzzava la vista, allora gli sembrava di scorgere una figura allampanata vestita di nero in un cono di luce proprio sotto al lampione all’angolo della strada.
Il suo cuore mancava un battito ma la figura fugace spariva in un battito di ciglia, beffandosi del suo dolore. Così rimaneva immobile, a fissare la notte diventare giorno e il giorno ritramutarsi in notte.
Perché il tempo continuava a scorrere? Perché le persone andavano avanti con la loro vita? Che diritto ne avevano loro, che non erano niente di speciale? Nessuno si soffermava a pensare a Sherlock? Non era forse ancora affamato di vita anche lui?
John ormai vedeva un mondo spezzato che, ignaro della sua sofferenza, disperazione e angoscia, andava avanti anche senza Sherlock.
E in quel mare, in quella spirale di nero abisso, John si scoprì a nuotare da solo.

*

La pioggia torrenziale non lasciava speranze alla comparsa del sole. La sua era una cacofonia cadenzata, un’orchestra composta da tetti dei palazzi, automobili, asfalto, foglie degli alberi.
Lo studio della sua analista era uguale a come lo ricordava l’ultima volta che c’era stato.
Prima della caduta.
Prima di Sherlock.
Prima del silenzio.
“Perché oggi?” un tuono fece vibrare le finestre e John abbassò lo sguardo sulla propria mano intenta a tracciare segni invisibili sul bracciolo della sedia.
“Vuole proprio sentirmelo dire?”
“Sono passati diciotto mesi dal nostro ultimo appuntamento.”
Quel tono di sottile rimprovero innervosì John.
“Li legge i giornali?”
“A volte.”
“E guarda la televisione? Lo sa perché sono qui.”
“Perché i miei amici mi hanno obbligato. Perché mi hanno detto che devo vincere il silenzio. Perché non ce la faccio più.” Proseguì la voce del suo inconscio.
John prese un altro respiro.
“Sono qui perché…” faceva male. Era normale che facesse così male? Quel dolore era arroventato e gli lacerava la gola, i polmoni e il cuore. Chiuse gli occhi alla ricerca di sollievo, provando a regolarizzare il respiro spezzato.
“Cosa è successo, John?” insisteva la dottoressa.
“Sherl…” un’altra pausa e si sentiva sempre più scoppiare. La voce ridotta ad un lieve fiato gracchiante.
“Deve riuscire a dirlo.”
Annuì debolmente, alla ricerca di un ultimo appiglio di coraggio e forza per mostrare la sua fragilità.
“Il mio migliore amico… Sherlock Holmes… è morto.”
La donna lo guardò e lui trovò nel suo sguardo una disgustosa compassione. Di quella proprio non sapeva cosa farsene. Era ancora così arrabbiato, così ferito…
“Questo come la fa sentire, John?”
Il dottore fece scattare la testa, un’espressione esterrefatta gli si appuntò sul viso e dalle labbra uscì una soffocata risata isterica.
“È seria? Come crede che dovrebbe farmi sentire la cosa?”
“Non lo so, John. Me lo dica lei.”
Come poteva spiegarle anche la metà di quello che provava? Perché non riusciva ad arrivarci da sola? Possibile che non avesse perso nessuna persona a lei cara?
John in quel momento avrebbe voluto alzarsi e andarsene. Ma se si trovava lì era perché aveva bisogno di aiuto, per quanto avesse provato a negarlo a se stesso. Attinse alla sua fonte di determinazione e provò ad illustrare la parte più oscura di sé, quella che non gli dava più un briciolo di pace.
“Ha presente quei quadri di Picasso, quelli dove nulla è al suo posto? Ecco, io mi sento esattamente così. Niente è più al suo posto, anche se il contenitore è integro. Mi sento come se nulla dentro di me possa proseguire a funzionare come prima.”
“Crede sia dovuto al fatto che i mass media hanno distrutto l’immagine che tutti avevano del signor Holmes e che lei non abbia potuto fare niente per riabilitarlo? ”
John scosse la testa in diniego.
“I giornalisti pensino quello che vogliono, alla fine volevano solo un cattivo da sbattere in prima pagina. Una storia succulenta su cui mettere le mani e voilà!” Watson aprì le dita a ventaglio in aria, disegnando un immaginario fuoco d’artificio.
“Io non ho potuto fare nulla, il peso che mi porto dentro resterà sempre una parte di me. Ho sempre creduto che Sherlock Holmes fosse una persona speciale. Quell’ultimo caso, però, mi ha esposto crudelmente alla fragilità di quell’idea. Sherlock era più umano di quanto lasciasse trasparire e alla fine il conto è venuto a bussare alla sua porta, reclamando il suo tributo. E con lui mi sono spezzato anch’io.”
John rilassò le spalle contro la sedia, uno strano senso di torpore gli formicolava sulle gambe.
“Mi sono spezzato, come un sasso che colpisce uno specchio e lo manda in frantumi. Mille schegge tenute insieme dalla prossimità, ma che hanno perso la nitidezza dell’insieme.”
“Ci sono cose che avrebbe voluto dire… ma non ha detto.”
“Esatto.” John ingoiò un grumo di saliva che gli stringeva la gola.
“Le dica adesso.”
“No…” strinse le labbra in una linea dura e cominciò a torcersi le mani in grembo. Il fiato sempre più soffocato da quelle lacrime che faticavano a mostrarsi. “Mi dispiace, non ci riesco.”

*

Quel mattino aveva promesso alla signora Hudson di accompagnarla al cimitero. Il viaggio in taxi trascorse senza proferir parola ma la buona padrona di casa si sentiva in dovere di riempire quel vuoto. Le sue preoccupazioni, i suoi ricordi, vennero snocciolate come un fiume in piena: cosa fare della roba di Sherlock, i segni sul tavolo, i colpi di pistola al mattino, la confusione, i campioni nel frigorifero…
“Non posso tornare a Baker Street.”
La signora Hudson aveva capito e, poco dopo, lo lasciò solo davanti alla lapide di Sherlock.
John masticò a vuoto, voltandosi brevemente per scorgere la sua ex padrona di casa allontanarsi con un fazzoletto stretto tra le mani.
Adesso erano soli, lui e Sherlock.
Trasse un respiro e cominciò quel discorso che per troppo tempo era stato inghiottito dal silenzio.
“Ok… una volta mi hai detto che non eri un eroe.” Si fermò espirando rumorosamente. “Ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non fossi umano, ma ti dico una cosa… eri l’uomo migliore e l’essere umano più umano che io abbia mai conosciuto, e nessuno mi convincerà che tu mi abbia mentito. Ecco… l’ho detto.” Si umettò le labbra, spostò il peso da un piede all’altro, dondolando al verso di un corvo che si era andato ad appollaiare su un ramo rinsecchito.
John si avvicinò e andò a toccare il freddo marmo nero della lapide in una carezza leggera.
“Ero davvero molto solo e ti devo tanto.”
Si voltò per ripristinare la distanza tra loro, aprì e chiuse le mani in un pugno, cercando di mettere a tacere quel suo desiderio irrealizzabile, quella fantasia che ancora lo portava ad illudersi, a non scendere a patti con se stesso, ma che sapeva di dover confessare.
“Ma, ti prego, c’è un’ultima cosa. Un’ultima cosa, un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non essere morto.”
La speranza era un demone crudele che continuava a prendersi gioco di lui.
“Potresti farlo, per me? Smettila, smettila!” soffiò prima di abbassare lo sguardo al suolo.
Un silenzio dalle tinte cupe dell’amarezza e del cordoglio lo riempì come una marea. E le lacrime, quel tanto atteso sfogo, arrivarono.
John si strinse le mani sugli occhi, bagnando i polpastrelli, dopodiché strusciò i palmi attorno agli occhi per cancellarne le tracce.
La sua espressione si fece determinata, nonostante nel suo cuore ci fosse ancora una ferita aperta e sanguinante, ma doveva andare avanti.
Si lasciò alle spalle la tomba di Sherlock con la marcia fiera di un soldato.
Ed i suoi passi echeggiarono nel suono del silenzio.

Note
1-2-3-4 sono tutte citazioni tratte dai libri di Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle.
I dialoghi sono in parte gli stessi dell’episodio, tranne la parte in cui John parla con la dottoressa di come si senta spezzato (ma tanto sono sicura che le battute le ricordate a memoria, birichine/i XD)

***
Fa caldo, devo studiare, Game of Thrones è finito, #Hiddlexit dal mondo dei single, in sostanza #mainagioia.
Traduzione del delirio: non c’è niente la sera in TV ed io rivedo l’episodio che ha gettato tutti nella più cupa disperazione.
Si vede proprio che “All work and no play makes Jo a dull girl.”
Con molto amore vi saluto e spero di non far passare altri 9 mesi per il prossimo aggiornamento ^^

  
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