Camminavamo fianco a fianco, sul marciapiede che percorreva la solita via, ormai così familiare che l’avrei potuta percorrere anche a occhi chiusi. Eppure eravamo entrambi persi. Il silenzio più assoluto incombeva e ci divedeva, una spessa patina di distacco ci separava, un intruglio d’imbarazzo e timore dell’altro che ci soffocava appena tentavamo di schiudere le labbra. Ti cercavo con gli occhi, ma tu sembravi continuare a sfuggire, mi voltavo e tu cercavi il mio sguardo e così continuavamo in una danza di scintille e di cenere che vorticava, nascondeva e illuminava, e ci lasciava impazzire nelle nostre congetture private. Quando finalmente ci incontrammo il mio cuore si tuffò dal trampolino, ma chiuse gli occhi e io nascosi i miei. Avevo paura. Paura di quello che mi avresti detto, paura di quello che avresti pensato, paura di sbagliare a tuffarmi e di non trovare l’acqua fresca ad accogliermi tra le sue braccia. E tu non parlavi. Perché non parlavi? Non ti ero mancata in questi giorni? Era finzione quell’ansia che leggevo nei tuoi messaggi? Non capivo. Forse la mia paranoia mi stava assalendo ancora, come sempre, e come sempre mi impediva di vedere qualcosa, ma fino a che non l’avrei scorta, questa verità nascosta, come avrei potuto crederci? “Mi manchi…” sussurrai a me stessa. E fortunatamente lui non lo sentì.
Ero così presa dal mio terrore che quasi saltai quando parlò: “Per domani c’è da studiare 20 pagine di storia.. Uff! credo che non sopravvivrò! È dagli ebrei che non apro il..” le sue parole fluttuarono a mezz’aria, incomplete, mentre il mio sguardo confuso e un po’ tradito lo chetava. Poi l’astinenza si fece sentire e le frasi traboccarono, chiacchiere futili, senza profondità, ma di cui sentivo troppo la mancanza. Parlammo della scuola, degli amici, addirittura scherzammo e ridemmo, come se quei giorni di tortura non fossero mai esistiti. E quando arrivammo a casa lo salutai quasi sollevata. Solo dopo aver aperto il cancello e tirato fuori le chiavi, però, mi arrivò in viso come uno schiaffo l’entità di ciò che avevo lasciato che succedesse. Non avevo risolto niente. Avevo riempito il tempo, lasciato nascondere ogni preoccupazione, mi ero dissetata della sua voce, senza accorgermi che era acqua salata, che mi aveva reso ancora più vogliosa, ancora più bisognosa di lui. Cretina. Sì. E già mi mancava.
Mi voltai e lo rincorsi. Non so come mi venne, fui impulsiva, risoluta, forse per la prima volta nella mia vita; non riuscivo a controllare le lacrime che di colpo si erano affacciate alle mie palpebre. Mi piantai sul marciapiede, quando la distanza tra me e lui si accorciò a cinque metri, e urlai, perché mi sentisse chiaramente: “è per questo che sei mio amico?! Per passare il tempo nel tragitto da scuola?!”. Lui si voltò sorpreso. Mi fissava con uno sguardo che sembrava chiedere di tradurre quella che per lui era una bestemmia: “Ma di cosa stai parlando?”. Scoppiai a piangere, mi strinsi con le braccia per evitare di stringere lui: non era il momento, dovevo essere forte, dovevo capire. “Ho … parlato con Francesca.. mi ha detto tutto, mi ha detto il motivo per cui è cominciata questa storia, mi ha detto di tutte le volte che hai approfittato del mio affetto!”, rimase bloccato al suo posto, a osservarmi con le due stelle del mio sistema solare. Il silenzio calò di botto, come una pietra franata dal monte, scesa dalla pendice solitaria e pesante. Rimanemmo fermi, bloccati in quella bolla che non avevamo la forza di far scoppiare, mentre lottavo contro il mio corpo, perché non impedisse ai miei occhi di vedere la sua immagine, perché non offuscasse con le lacrime il suo viso. “È vero.. all’inizio è stato come dici.. ma ti giuro che non è più così! Ti voglio bene, non so fare a meno delle tue parole di conforto, dei tuoi abbracci, dei pomeriggi insieme a vedere film! Non saprei mai rinunciare alla tua amicizia.. ti voglio bene, come hai potuto pensare il contrario?”, disse.. ed era sincero, lo sapevo.. “Perdonami.. non ti mentirò più, te lo prometto, sarò l’amico perfetto, non ti tradirò mai.”. Si avvicinò e allargò lievemente le braccia, come a chiedere il permesso di cingermi.. ma era troppo lento e non riuscii a evitare di correre tra le sue braccia. Mi lanciai nel suo calore e lasciai che i singhiozzi di paura si calmassero con me.
Mi lasciò al cancello di casa, sorridendomi finalmente tranquillo. Io mi sforzai di ricambiare, felice, ma un sussurro nel mio cuore mi ricordava che la tristezza non sarebbe mai finita. “Amico”. Questo ero per lui e questo voleva essere per me, la situazione non era cambiata. Ma oggi non era tempo di pensarci.
Prima di entrare in casa, mi preparai al mio spettacolo quotidiano. Mi asciugai le lacrime, mi inumidii le dita per passarmele dove ero arrossata, mi legai i capelli, sorrisi alla lamiera di metallo del citofono, controllando che fosse un sorriso credibile, e sbattei gli occhi un paio di volte. Ero pronta. Infilai la chiave e la girai sicura. “Ciao! Sono a casa!”. Altri tre “ciao” seguirono il mio e mia madre venne a chiedermi come avevo passato la mattinata. Io risposi col solito “bene” vago e le sorrisi per addolcire il tono. Mi rifugiai velocemente in camera, accesi il computer, la mia vera casa certe volte, presi il cordless e informai Marissa e Francesca del sotterramento dell’ascia di guerra. Ero tranquilla con me stessa, mi ero abituata all’odore dell’aria, riscoprendo nelle sue spire i vecchi sapori, e riuscivo finalmente a respirare la mia vita.