Mit dem weinenden Herzen…
Seduto in una stanza, solo.
Nonostante la voglia di evitare
l’argomento, ci sto pensando da tempo. Questa idea, va
e viene, nel mio cervello e, ogni qualvolta torna, si fa sempre più forte.
Sospiro.
Gustav se n’è andato perché
era arrivato il momento.
Il suo amore per la musica non era mutato, lo sapevo, ma aveva scoperto, che la
sua priorità, improvvisamente era diventata un’altra.
Con la sua “ritirata”, in noi, era
cambiato qualcosa.
Io, Tom e Georg ci eravamo fissati a lungo
mentre Gustav, le valigie in mano, ci salutava, per
tornare al luogo al quale, sarebbe appartenuto d’ora in poi. Lo avevo visto,
salutarci, il sorriso sulle labbra e, per la prima volta, un lampo di tristezza
negli occhi. Avevo sentito un blocco all’altezza dello stomaco ma ero rimasto
in silenzio. Gli altri avevano fatto esclamazioni che andavano dall’ “Amico, ricordati di chiamarci, ogni tanto!” al “Gus! Ma dov’è che teniamo l’ammorbidente?!?”
io, invece, ero rimasto in silenzio, limitandomi a sventolare la mano.
Gustav mi aveva fissato, aspettando, anche lui
in silenzio, poi mi aveva abbracciato un secondo ed io, rigido come un pezzo di
legno, avevo dovuto mordermi le labbra, per non scoppiare a piangere.
Erano passati mesi e mesi, da quel
momento. Io, Tom e Georg, andavamo avanti, facendo ciò che dovevamo fare. Uniti, quando uno si spazientiva o andava in crisi.
Urlandoci dietro, in genere sempre io e Tom, Georg che subito accorreva, portando un po’ di pace.
Ma c’era qualcosa.
Da quando Gustav
era andato via, c’era qualcosa. In me.
Uno strano richiamo.
Stai sbagliando, Bill,
da troppo tempo…,
mi diceva, una piccola vocina nel mio cervello,…e
la vita è troppo breve, per persistere nello stesso errore.
Ogni qualvolta capitava, deglutivo,
pensavo a Tom e Georg e la
ricacciavo indietro, nascondendola nel luogo più remoto del mio cervello,
sperando che non saltasse mai più fuori.
Ma la vocina tornava. Sempre e comunque, con lo stress, l’insonnia e la nausea ma io,
cocciuto, andavo avanti, esprimendo i miei dubbi agli altri, un decimo delle
volte che li avevo.
Georg mi fissava, lo sguardo allarmato, in
silenzio. Tom, invece, si irrigidiva,
segno che non approvava. Poi, entrambi, concludevano
con “Sei tu che devi decidere, lo sai…”
Avevo sospirato,
ogni qualvolta era
successo. Ci avevo pensato mille e mille volte. Non volevo andarmene. Non
volevo essere solo. Non volevo staccarmi dalle due persone che, assieme a Gustav, lontano fisicamente ma “mentalmente” presente,
costituivano la mia famiglia. Non volevo. Loro erano tutto.
Sapevo che avrei dovuto, ma non volevo
perciò avevo ricominciato a ricacciare di nuovo lontano la voce del mio
cervello, rituffandomi in quella vita che, non riuscivo più a sostenere,
emotivamente. Andavo avanti, ma diventavo sempre più debole, più stressato,
quasi isterico perché, da sempre, i miei “mali” interiori, si erano trasformati
in fisici. Non dormivo, non mangiavo, fumavo come un turco.
Amavo ciò che facevo, cantare, ma,
improvvisamente, non era più sufficiente. Avevo, la sensazione che per me era
più simile ad una certezza, che anche Georg e Tom, prima o poi se ne sarebbero
andati. Ci saremmo separati e, pur restando uniti ed amici, avremmo avuto una
vita diversa da quella attuale, incentrata sul “noi”.
La cosa mi rattristava. Non ne parlavo,
ma mi sentivo uno schifo.
Avevo cercato di passarci sopra finché,
un giorno, al culmine dello stress, ero esploso, scoppiando a piangere, da
solo, in mezzo ad una strada. Le persone che mi fissavano, ma che,
fortunatamente, non mi avevano riconosciuto, mi ero rintanato nel luogo più
isolato che conoscevo. Solo. Io e un pacchetto di sigarette.
Gli occhi irritati, la matita colata
dietro gli occhiali da sole, fissavo il mondo,
domandandomi cosa avrei dovuto fare, dato che ero consapevole che non avrei più
potuto reggere quel ritmo ma che, allo stesso tempo, non volevo allontanarmi
dagli altri. Avevo pianto, a lungo, abbandonato a me stesso, in quel luogo,
prima di avere il coraggio di chiedere aiuto.
Mi ero rialzato, traballante e, anche se
non volevo ammetterlo, anche se restavo aperto al parere contrastante di mio
fratello, anche se continuavo a fuggire, qualcosa in me, lo sapeva, che tutto
questo non sarebbe durato a lungo. Fisicamente, non avrei
potuto reggere a lungo, perciò, avevo staccato, tornando da mia madre,
lasciando gli altri in città. Volevo stare solo. Dicevo che dovevo riflettere
ma, in realtà, nemmeno ci volevo pensare. Sapevo già quale sarebbe stata la
decisione che avrei preso.
Tom, chiamava tutti i giorni. Prima si sincerava
se avessi preso una decisione e, ogni volta che rispondevo che non sapevo e,
che non ne volevo parlare, cambiava argomento. Sapevo come la pensava, a
proposito. Lui, sapeva come la pensavo io, a proposito. Ma
sarei stato io a decidere ed ero consapevole che lui, d’accordo o meno, mi
avrebbe sostenuto.
Ero fuggito, per altre due settimane poi,
una mattina, avevo capito che non potevo continuare così. I
Tokio Hotel erano la mia famiglia. Lo sarebbero sempre stati ma non potevo restare per sempre. Dovevo avere il coraggio di
lasciare ciò che amavo, la mia famiglia, per gettarmi nel mondo. Dimostrare
qualcosa. A me stesso. A loro. Al mondo.
Era questo il momento.
Avevo rimandato per mesi ed,
improvvisamente, avevo sentito che era questo il momento.
Ero spaventato a morte. Avrei dovuto
allontanarmi anche da Tom e Georg.
Non avrei più potuto vivere con loro. Avrei dato qualsiasi cosa per non provare
quello che provavo, ma non potevo tornare indietro, fingere che nulla era
cambiato. Dovevo andare.
I Tokio Hotel erano la mia famiglia ed io,
dovevo lasciarla, per imparare a volare da solo. Ero triste.
Sapevo che anche loro, per quanto
tentassero di mostrarsi forti, sarebbero stati tristi. Anche
Gustav, a distanza, era triste. Sapevo, allo stesso
tempo, che nessuno dei tre, avrebbe fatto qualcosa per fermarmi. D’accordo o
meno, Bill sarebbe stato reso libero di andare.
Chiudendo la porta, partendo, mi ero
morso le labbra.
D’accordo o meno, per quanto fosse doloroso per lui e per coloro che doveva lasciare, Bill doveva andare.
Avevo sorriso, lievemente, un solo
istante, lasciando quella casa, la “nostra”
Bill, doveva andare ma non era detto che un
giorno, Bill, non potesse anche tornare.
Strinsi gli occhi, una lacrima che
cadeva, sperandoci con tutto il cuore…