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Autore: revin    01/07/2016    2 recensioni
La vita da reclusa è molto più dura di quella che Gwen avrebbe potuto immaginare, soprattutto in un penitenziario di massima sicurezza interamente dominato da uomini. Fox River è un inferno al quale sembra impossibile poter sopravvivere. Ma Gwen ha una missione da compiere... la vendetta.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Michael/Sara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era domenica mattina, la prima domenica che trascorrevo in cella, ed erano appena scoccate le 7 quando lasciai la mia branda e mi avvicinai al lavabo per sciacquarmi la faccia. Fu in quel momento che sollevai il viso per specchiarmi e ricevetti la prima batosta. Per diversi secondi restai immobile a fissare l’immagine riflessa dallo specchio, facendo fatica a riconoscerla. Chi era quello yeti in cattività che mi fissava con espressione sconcertata?
“Ho davvero un aspetto orribile”  pensai, posando entrambe le mani su due guance dello stesso colore del lenzuolo steso sulla branda. A peggiorare il disastro, contribuivano un cespuglio di rovi aggrovigliati e sporchi in testa e due grosse occhiaie marcate a fuoco.
  • Colazione tra 4 minuti. Preparatevi!  -  sentii gridare ad una delle guardie appena passata accanto alla mia cella.
Mi vestii in fretta, felice più che mai di potermi recare a mensa per la colazione. Dovevo assolutamente mangiare una doppia razione di cereali e rimettermi in forze.
Infilai una maglietta pulita a maniche corte, poi presi i pantaloni nuovi che solo il giorno prima mi erano stati consegnati e che apparivano perfettamente stirati e ancora mai indossati prima. Fu una delusione quando mi accorsi che nonostante fossero della mia misura, ero costretta a trattenerli in vita perché non mi scivolassero dalle anche. Per giunta, la sera prima avevo consegnato i pantaloni sporchi, gettandoli nel cassetto per la lavanderia. L’unica idea che mi venne sul momento fu di stringere i bordi laterali dei pantaloni con dei punta panni, cercando di nasconderli sotto la maglietta, quindi passai ai capelli.
Li pettinai per più di un minuto, ma nessuna forma umana sarebbe riuscita a ridare vita a quell’ammasso di rovi che avevo in testa. Era inutile continuare a perdere tempo in simili dettagli che, in ogni caso, non avrebbero prodotto alcun risultato. Ormai i detenuti si erano riversati fuori dalle loro celle. Non potevo fare altro che buttarmi e iniziare anch’io la giornata.

Per fortuna fu una colazione tranquilla. La domenica i detenuti avevano il permesso di recarsi nella cappella del penitenziario per assistere alla messa e pregare. Io non ero mai stata un’assidua frequentatrice di chiese o altri luoghi di culto, però quel giorno avevo deciso di recarmi alla cappella, una decisione che in un certo senso mi era stata ispirata quando, durante una conversazione a mensa, avevo capito che Lincoln fosse un frequentatore abituale.

Giunsi nella cappella a messa cominciata, e quando ispezionai i pochi banchi riservati ai detenuti, non mi fu difficile individuare chi cercavo. Lincoln sedeva al terzo banco. Appena un banco dietro di lui, l’immancabile fratello, che da quanto potevo vedere si era avvicinato per potergli parlare sottovoce. 
Li raggiunsi andando ad occupare il posto accanto a Burrows. All’improvviso i due uomini mi puntarono gli occhi addosso e tacquero a disagio. Evidentemente avevo interrotto l’ennesima conversazione privata. 
  • Posso anche scegliermi un altro posto se sono di troppo.  -  dissi sottovoce con assoluta tranquillità guardando entrambi. 
In un primo momento avevo pensato di essere arrivata, come di consueto, nel bel mezzo di uno scambio di confidenze, poi però avevo visto le espressioni turbate di Michael e Lincoln e avevo intuito che dovesse essere successo qualcosa. 
  • No, rimani pure. Io e Lincoln abbiamo finito.  -  rispose il ragazzo con un mezzo sorriso.
  • Vuoi dire che non rimani?
  • Spiacente.  -  rispose prima di allontanarsi. 
Avevo tanta voglia di chiedere al mio improvvisato amico Burrows cosa fosse accaduto, ma qualcosa mi diceva che non avesse molta voglia di parlarne. Appariva angustiato.
Peccato che mancassi letteralmente di delicatezza.
  • Tu e Michael avete litigato, non è vero?  -  iniziai, pensando che fosse un buon modo per cominciare un approccio di qualche tipo.
Non so perché mi ero aspettata che l’uomo non rispondesse o tirasse fuori uno dei suoi monosillabi inconcludenti, invece parve sorpreso e immediatamente rilassò il volto. 
  • No, perché avremmo dovuto litigare?
  • Tu e tuo fratello avevate un’espressione strana, ho pensato che fosse successo qualcosa.
  • In effetti qualcosa succederà presto. Non hai sentito la novità? Michael sta per essere trasferito.
  • Scusa?!
Arrossii all’istante e mi tappai la bocca quando alcuni detenuti seduti nelle panche davanti, si voltarono infastiditi dal livello della mia voce improvvisamente salito. A quell’inaspettata notizia, mi era scappata un’ottava di troppo. Dovetti riportare il volume nuovamente ad un livello accettabile. 
  • In che senso trasferito? Trasferito da Fox River?  -  Lincoln annuì.  -  Perché?
  • Non lo so. Pope glielo ha comunicato ieri sera.
  • Ma dev’esserci un motivo. Michael che ha detto in proposito?
  • Niente, non ha detto niente.
Ed eravamo a quota due. La seconda batosta della giornata era appena arrivata, facendosi sentire come un poderoso pugno allo stomaco.
  • Ma… è Michael che ha chiesto di essere trasferito?  -  continuai.
  • No, sembra che la decisione arrivi dall’alto. Ha scavalcato persino Pope.
  • Dannazione, non può lasciarsi portare via così quando mancano 3 settimane alla tua esecuzione…
Troppo tardi mi resi conto non solo di essere stata indelicata ad imprecare in una cappella durante una funzione religiosa, ma di aver anche urtato i sentimenti di Lincoln ricordandogli dell’imminente scadenza sulla sua vita.
  • … oh scusa, sono una stupida, non volevo…
  • Non importa. D'altronde è vero, mancano solo 3 settimane.
Mi sentii immediatamente in colpa.  -  Lincoln, mi dispiace.
  • E’ tutto ok.
  • Che possiamo fare per fermare il trasferimento? Non possiamo lasciarlo andare via.
All’improvviso l’idea che Michael potesse lasciare Fox River appariva come una catastrofe. Avevo trovato una persona interessante con cui andare d’accordo, cosa che non pensavo potesse mai capitare. Si era instaurato una sorta di rapporto tra noi, non volevo salutarlo proprio adesso che stavo cominciando a conoscerlo.
 
Cavolo, io non voglio che vada via”.
 
A quel punto notai Lincoln voltare la testa verso di me e fissarmi, quasi avessi fatto chissà quale rivelazione. Sembrava divertito. Continuava a squadrarmi con uno strano sorrisetto sarcastico che però non riuscii ad interpretare.
  • Che c’è?  -  chiesi indispettita.
  • Puoi ripetere quello che hai detto?
  • Quando?
  • A momenti. Hai detto che non vuoi che Michael vada via.
No, non lo avevo detto, lo avevo soltanto pensato. Avevo per caso pensato ad alta voce senza rendermene conto?
  • No, ti sbagli, io non ho detto niente del genere.  -  mentii senza sapere nemmeno il perché.
Il sorrisetto sarcastico di Lincoln si fece ancora più sfacciato.
  • Si che l’hai detto, l’ho sentito.
  • Si amico, come ti pare.
L’uomo si voltò nuovamente verso la funzione, ma un minuto dopo tornò a voltarsi verso di me con la fronte aggrottata e gli occhi fissi ridotti a due fessure.
  • Dì la verità, ti piace mio fratello?
Invece di rispondere subito, gli lanciai un’occhiataccia e lo colpii al fianco con una gomitata. Burrows si lasciò scappare una risatina che nascose dietro la mano, poi affermò con più convinzione:
  • Si, è così, ti piace Michael!
  • Smettila! Perché diavolo dovrebbe piacermi Michael?-  sbottai punta sul vivo.
  • Non lo so, sembri proprio la classica adolescente innamorata. Ho notato che giri sempre intorno a mio fratello, e arrossisci quando ti parla…
  • Io non arr… -  La mia voce aveva di nuovo superato il limite consentito, tanto che persino il prete in piena funzione religiosa aveva interrotto la sua omelia per lanciarmi uno sguardo carico di rimprovero. Vergognandomi come un ladro, cercai di regolare il tono con un sospiro, tornando a bisbigliare.  -  … Io non arrossisco quando Michael mi parla.
  • Però ti dispiace che venga trasferito.
  • No… cioè si, mi dispiace certo. Lui è uno dei pochi “ospiti” qui dentro con cui sono riuscita a fare amicizia, e poi… che ne so, è un tipo apposto anche considerando tutti i suoi segreti e le sue tresche con Abruzzi.
  • Decisamente ti piace! -  rincalzò Lincoln divertito.
Avrei voluto replicare e dirgli che era completamente fuori strada. Michael poteva anche essere un ragazzo intelligente e carino, ma era pur sempre un detenuto con una condanna sulle spalle da scontare. Tra pochi mesi io avrei varcato i cancelli di Fox River buttandomi tutto alle spalle, e di tutti i suoi attuali inquilini non avrei più voluto sentir parlare. In quel momento però mi dispiaceva molto per Lincoln. Non lo dava a vedere, ma la notizia del trasferimento del fratello lo aveva turbato, forse perché aveva sperato di poter trascorrere le ultime settimane accanto a lui. Era così ingiusto.
 
La giornata per fortuna trascorse veloce. Passai la maggior parte del tempo chiusa in cella a leggere e boccheggiare a causa dell’improvviso sbalzo delle temperature. Da qualche giorno sembrava che avessero acceso i fuochi dell’inferno in tutta Fox River. Nell’Illinois non faceva mai caldo, era uno degli stati più piovosi e freddi degli Stati Uniti e per giunta era il mese d’aprile, allora perché improvvisamente sembrava che fosse arrivato ferragosto?
Quasi avessi sgobbato tutta la giornata ai lavori forzati, finii per collassare alle 9 di sera e mi svegliai solo la mattina seguente, quando RoyGeary fece tintinnare il suo manganello contro le sbarre della mia cella, ricordandomi la visita in infermeria dopo colazione.
Nello stesso istante in cui varcai la porta dell’infermeria, non potei fare a meno di notare quanto Sara Tancredi avesse curato il suo aspetto quel giorno. Mi sembrò perfetta. Viso perfetto, capelli perfettamente ondulati, abiti freschi e profumati. Mi sentii immediatamente una sciattona accanto a lei, con il mio viso pallido e provato, i capelli raccolti dietro la nuca alla buona per evitare di apparire più disperata di quanto già non fossi e con indosso la consueta divisa che puzzava di fritture e unto a causa del lavoro a mensa e nelle cucine.
  • A che pensi?  -  mi chiese in tono distaccato la donna, quando mi sorprese a valutare la lucentezza dei suoi capelli.
A dire il vero, stavo pensando a molte cose contemporaneamente.
Stavo pensando che il giorno stesso in cui avrei lasciato Fox River, mi sarei comprata dello shampoo nutriente agli estratti di aloe e del balsamo e avrei riportato quell’ammasso di ciuffi ribelli che avevo in testa al loro antico splendore.
Stavo pensando che con un po’ di correttore e di cipria extra coprente, forse sarei riuscita a nascondere quelle orribili occhiaie dal mio viso.
Stavo pensando che fino ad un mese prima conducevo una vita tranquilla e spensierata, mentre adesso trascorrevo le mie giornate in un carcere ed ero costretta a sentirmi una sciattona accanto ad una donna abituata a curare il suo aspetto ogni giorno.
E poi stavo pensando anche ad un’altra cosa.
  • Le stanno molto bene i capelli in quel modo.  -  le dissi sincera.
Sara Tancredi a quelle parole si bloccò, sorpresa. Era meravigliata che le avessi fatto un complimento e, in effetti, lo ero anch’io.
  • Grazie.  -  rispose, sfoderando il solito tono austero e perfettamente controllato.  – Tu invece sembri uno spettro stamattina.
“Non solo stamattina, purtroppo”.
  • Che succede Gwyneth?
  • Non lo so, mi sento stanca.
  • Il carico di lavoro è eccessivo?
  • No… non lo so. E’ da ieri mattina che mi sento fiacca e da alcuni giorni soffro di mal di testa. Senza contare che la mia temperatura corporea sembra impazzita. Un momento prima sudo come se mi trovassi nel deserto del Sahara e un momento dopo ho sudori freddi e brividi.  -  confessai sconsolata.
  • Ok, facciamo i soliti controlli.
 Mi feci guidare docile come un agnellino. La dottoressa mi fece tutti i controlli di routine senza pronunciare una sola parola, alla fine venne a sedersi di fronte a me.
  • A giudicare dai sintomi che mi hai descritto e dal tuo attuale stato, ho la sensazione che non starai meglio prima di un paio di giorni. Ti somministrerò degli integratori. Sei pallida e visibilmente dimagrita, ma credo sia normale. Purtroppo non posso fare molto per aiutarti, però posso trattenerti qui in infermeria nella stanzetta accanto per la prossima mezz’ora, così potrai saltare il turno di lavoro ed evitare di affaticarti, cosa ne pensi?
  • La ringrazio, ma me la caverò. 
  • Come vuoi.
Forse per una volta avrei dovuto mettere da parte l’orgoglio e accettare l’offerta di rimanere in infermeria. Riposare ed evitare il turno di lavoro non sarebbe stata una cattiva idea, e poi ero terrorizzata all’idea di sentirmi male in mezzo ai detenuti. Se fosse capitato durante i turni di lavoro o durante le ore d’aria, sarei stata una facile preda per chiunque e per me sarebbe stato molto difficile, se non addirittura impossibile, potermi difendere.
Stavo aspettando che la dottoressa finisse di compilare i dati sulla mia cartella medica e riportasse i nuovi aggiornamenti, quando entrambe venimmo attirate dal vociare di alcune guardie proprio sotto la finestra dell’infermeria, in cortile. Senza chiedere il permesso, mi alzai precipitandomi a vedere cosa stesse accadendo. Attraverso le grosse sbarre di protezione, vidi Michael Scofield che veniva scortato da due guardie verso il cancello della prigione e immediatamente mi sentii colpire da un grosso vuoto allo stomaco. Non riuscivo a dare una spiegazione a quel groviglio di sentimenti contrastanti che esplosero in quel momento nella mia testa: rabbia, delusione, sconforto. Sapevo solo che lo stavano portando via. Michael stava per essere trasferito e io non ero neanche riuscita a salutarlo.
Perché me la prendevo tanto? Era solo un detenuto. Infondo era un bene che lasciasse Fox River. Michael aveva scoperto la mia vera identità, se fosse rimasto avrei dovuto convincerlo di essersi sbagliato, avrei dovuto mentirgli, così invece potevo tirare un sospiro di sollievo. Problema risolto. Per un problema che andava però, un altro subito compariva: adesso che Scofield era fuori dai piedi come avrei fatto ad arrivare a Burrows? 
  • Ti dispiace che lo stiano portando via?
Mi voltai e vidi la dottoressa al mio fianco che stava osservando come me lo stesso detenuto e la sua scorta accompagnarlo verso l’uscita. 
  • Perché mai dovrei esserne dispiaciuta?  -  dissi in tono del tutto indifferente.
  • Non sapevo che Scofield dovesse essere trasferito… non sarà per caso per quello che è successo ieri sera…
  • A che si riferisce? 
  • Ma come, non ti sei accorta che l’intero penitenziario è stato in fermento per un tentativo di evasione?
Cadevo letteralmente dalle nuvole. Non avevo sentito di nessun tentativo di evasione, anzi, non mi ero neanche accorta che fosse accaduto qualcosa di diverso dal normale.
Continuai a fissare la dottoressa con palese perplessità, aspettando che si spiegasse. 
  • E’ impossibile che non ti sia accorta di niente.  -  cominciò sorpresa.  -  Mi è stato raccontato che ieri sera, durante la conta, uno dei detenuti mancava all’appello. Non si trovava nella sua cella, e visto che il suo compagno di cella non ha saputo giustificarne l’assenza, né il detenuto aveva alcun permesso per non trovarsi al suo posto, le guardie l’hanno interpretato come un tentativo di evasione.
  • E il detenuto in questione era Scofield?
  • Proprio lui.
Ero ammutolita. La conta dei detenuti solitamente veniva fatta 2 volte al giorno, una volta la mattina, l’altra la sera. Se le guardie si erano accorte che Scofield mancava all’appello durante la conta serale, che in teoria sarebbe dovuta avvenire alle 9, perché io non mi ero accorta di niente? 
  • Quindi Michael ha tentato davvero di evadere?
  • A quanto ho capito si è trattato di un malinteso. Michael non era nella sua cella perché a quell’ora si trovava nell’ufficio del direttore.
  • A fare cosa alle 9 di sera?
  • A questa domanda non saprei proprio rispondere.  -  disse la donna, allontanandosi dalla finestra.  -  Davvero non ti sei accorta di niente? Sono scattate le procedure di emergenza, l’allarme è risuonato nell’intero penitenziario e tu non hai notato nulla di insolito?  -  Non mi credeva, era palese.
  • Probabilmente dormivo.
  • Devi essere stata in catalessi per non accorgerti della confusione. Immagino sarai triste di non aver potuto salutare il tuo amico. 
Sollevai un sopracciglio quando mi accorsi che l’approccio della dottoressa era appena entrato in modalità indagatoria. Faceva finta di niente, ma glielo leggevo in faccia che voleva soltanto sondare il terreno.
  • Chi l’ha detto che Scofield è un mio amico?
  • Non lo è?
  • Non sono affari suoi.  -  risposi sulla difensiva.
  • Qualche giorno fa Michael mi ha raccontato che lo hai stracciato a scacchi.
  • E allora?  -  M’infastidiva parecchio che Michael avesse parlato di me ad un’altra donna, lo giudicavo un comportamento politicamente scorretto.  -  Mi tolga una curiosità, il personale del penitenziario può instaurare rapporti interpersonali con i detenuti?
  • Non che io sappia.
  • Allora perché questa confidenza col signor Scofield? -  continuai senza accennare a moderare il mio tono palesemente acido e pungente.
  • Si è trattato solo di cortesia professionale. Io ero il suo medico e tenevo sotto controllo il suo diabete, e poi scusa tanto, ma non credo di dovermi giustificare con te.  -  rispose offesa, indicandomi la porta e chiarendomi con questo gesto che avevamo finito. 
Senza aspettare che me lo ribadisse a voce, lasciai l’infermeria e permisi alla guardia di ammanettarmi perché mi scortasse a mensa a completare il mio turno di lavoro.
Ancora una volta ero stata scortese con la dottoressa, sempre così ben disposta nei miei confronti. Non ce l’avevo con lei, non più di quanto ce l’avessi col mondo intero, semplicemente quella mattina non stavo bene e diventavo sgarbata e sgradevole più del solito quando non ero al massimo della forma.
Poco dopo, di ritorno dall’infermeria, accadde una cosa molto strana, inaspettata. Stavo camminando come al solito persa nei miei pensieri, scortata dal fedele dobermann incaricato di riportarmi nel Braccio A e all’improvviso ci imbattemmo nel direttore. La vera sorpresa però fu riconoscere Scofield accanto alle due guardie che seguivano Pope, e quasi mancai un battito quando il mio sguardo incontrò quello di Michael. 
  • Signorina Sawyer che fa in giro a quest’ora?  -  mi domandò cortese il direttore, fermandosi a pochi passi di distanza da noi.
Quasi avessimo ricevuto un ordine, sia io che il secondino al mio fianco come anche Bellick e Green Rizzo che scortavano il detenuto tenendolo per le braccia, ci fermammo.
  • Torno adesso dall’infermeria, signore.  -  risposi, lanciando un’occhiata furtiva in direzione del ragazzo in manette.
Non riuscivo a capire. Perché le guardie lo stavano riportando indietro? Avevano rinviato il trasferimento? Lo avevano cancellato?
Vidi Michael ammiccare appena nel momento in cui i miei occhi tornarono a fissarlo. Ecco un altro mistero che avrei dovuto svelare. 
  • In infermeria di prima mattina? E’ tutto apposto, vero?  -  continuò Pope.
  • Si signore, tutto apposto.  -  E lo sarebbe stato ancora di più adesso che Michael era tornato.
  • Ottimo. Guardia, riporta la detenuta nella sua cella. Oggi niente lavoro alla mensa.  -  ordinò al secondino al mio fianco, prima di rivolgersi nuovamente a me.  -  Va a riposare Gwyneth, sei piuttosto pallida.
Finii per trascorrere il resto della mattinata nella mia cella, sdraiata sulla branda con un fazzoletto bagnato sulla fronte per cercare di combattere il caldo e il massacrante mal di testa che non voleva decidersi a lasciarmi in pace. Solo la chiamata alla ribalta verso la mensa, riuscì a convincermi che fosse arrivato il momento di abbandonare quell’aria malaticcia per rimettersi in sesto con un pranzo abbondante. Prima però provai a ridare vita al mio aspetto di zombie deperito davanti allo specchio, ma il tentativo fallì miseramente. Era tutta fatica sprecata, meglio farsene una ragione. Ero consapevole di essere solo una detenuta che scontava la sua pena in carcere. Non importava a nessuno se avevo i capelli in disordine o andavo in giro come una sciroccata con delle spille da balia a sorreggere in vita i pantaloni, però era ugualmente frustrante. Non che fossi un tipo particolarmente vanitoso o pensassi di incontrare l’uomo della mia vita in un posto del genere, semplicemente odiavo guardarmi allo specchio e vedermi in quello stato. Non mi riconoscevo. 
Certo, se quell’aspetto malaticcio e pietoso avesse potuto tenere alla larga da me i malintenzionati come T-Bag, allora non avrei avuto nulla da ridire, ma sospettavo che nemmeno ricoperta di fertilizzante sarei riuscita a scoraggiare l’intero penitenziario a saltarmi addosso. Quindi tanto valeva darsi un tono, o perlomeno, rendersi meno spettrale.

A mensa, durante il pranzo, non riuscii ad individuare né Michael, né Lincoln, né Sucre, in compenso notai che tutto il gruppetto dei cattivi era al gran completo e avevano tutta l’aria di stare architettando qualcosa di losco. Il che era pressappoco quello che facevano sempre, niente di cui sorprendersi.
Finii per pranzare insieme a Westmoreland e alla sua inseparabile gatta e fortunatamente tutto filò liscio come l’olio.
  • E’ strano che faccia così caldo, qui dentro è un forno.  -  constatò il vecchio asciugandosi la fronte sudata. 
Avevamo aspettato, come di consueto, che la mensa si spopolasse prima di incamminarci verso l’uscita. 
  • L’aria condizionata dev’essersi guastata.  -  risposi disinteressata.
  • Come fai a dirlo?
  • Ieri la temperatura era pressoché uguale a quella di oggi, eppure nel Braccio non si superavano nemmeno i 30 gradi. Stamattina nella stanza dell’infermeria il termometro segnava 34 gradi ed erano appena le 8.
  • Beh, questo non va bene. -  mormorò Charles con un sospiro.
  • Su questo mi trovi d’accordo.
  • No, dico sul serio. 
Nella sua voce avvertii una nota di preoccupazione che mi spinse a smetterla di guardarmi in giro e prestargli maggiore attenzione. 
  • Che cosa ti preoccupa Charles?
  • Sono rinchiuso qui dentro da così tanto tempo che ormai riesco ad avvertire quando cambia il vento anche ad occhi chiusi, e sono venti burrascosi quelli che si preparano, Gwyneth. Al tuo posto starei molto in guardia.
Riuscì ad angosciarmi con quelle parole.  -  Che vuoi dire?
  • Voglio dire che i detenuti tendono ad andare in escandescenza per molto meno. Non ti sei accorta che l’atmosfera è cambiata? Gli uomini sono insofferenti e di malumore a causa del caldo e se le guardie continueranno a fregarsene accendendo i loro bei ventilatori negli uffici, presto gli animali esploderanno. 
Non riuscivo a condividere le preoccupazioni del vecchio. In effetti la temperatura era salita vertiginosamente, ma io non avevo notato niente di diverso nei detenuti rispetto agli altri giorni. Secondo me Charles stava esagerando, in ogni caso avrei comunque seguito il suo consiglio e tenuta alta la guardia per un po’. Tanto per essere sicuri. Certo, non avrei mai e poi mai immaginato che le sue previsioni potessero avverarsi così in fretta.
Alle 15 esatte tutti i detenuti del Braccio A vennero fatti uscire dalle loro celle e fatti allineare sulla linea limitrofa per la conta. Dopo il malinteso del giorno precedente in cui si era creduto che Michael Scofield avesse tentato di evadere, il direttore aveva ordinato alle guardie che venisse effettuato un terzo giro di controllo, oltre a quello mattutino e a quello serale.
Nel momento in cui vidi Bagwell lasciare la fila per fare un passo avanti oltre la linea, percepii una strana sensazione, un brivido lungo la schiena. Istintivamente cercai con gli occhi il vecchio Charles e vidi che anche lui mi stava guardando. Nei suoi occhi leggevo ansia, attesa… paura. 
  • Perché non ci portate in un posto più fresco… tipo Africa!!
La battuta sarcastica del pedofilo riuscì a scatenare l’ilarità generale, ilarità che provocò subito la reazione, inizialmente controllata, del secondino incaricato di contare i detenuti al pianterreno. Osservai RoyGeary mentre appoggiava una mano sul manganello e intimava all’uomo di rimettersi a posto, ma T-Bag non obbedì, continuando a restarsene impalato a fissare il secondino con un mezzo sorriso stampato in faccia.
Il silenzio che seguì parve eterno. All’improvviso anch’io cominciai a guardare alla situazione con gli occhi di Charles Westmoreland e mi parve che qualcosa fosse cambiato. Anch’io percepii quella situazione di attesa, come se tutti non avessero aspettato altro che quel gesto di sfida per scatenarsi.
Senza rendermene conto, feci un passo indietro nello stesso istante in cui altri 5 o 6 detenuti ne facevano uno avanti per aggregarsi al temerario T-Bag. Poi altri li imitarono. Al centro del Braccio adesso era schierato un discreto gruppetto di detenuti. La dichiarazione di guerra era stata lanciata, le truppe erano schierate.
Il povero Geary, da solo di fronte al nemico, non poté far altro che battere in ritirata.
Accadde tutto molto velocemente, quasi non me ne resi conto. Prima, dalla postazione di controllo a pochi passi dalla mia cella, scattò l’ordine per tutti i detenuti di rientrare nelle proprie celle e venne proclamato lo stato di isolamento. Tutte le guardie presenti nel Braccio A andarono a blindarsi dentro la stanza di controllo, un gabbiotto protetto da una grata di ferro, dal quale solitamente le guardie controllavano l’apertura e la chiusura elettronica delle celle e dov’erano situati schermi a circuito chiuso dell’intero blocco.
Così come molti altri detenuti, anch’io preferii rispettare l’ordine e rientrare nella mia cella. Quello era il luogo più sicuro del mondo, al momento. Il resto dei detenuti, preferendo prendere parte alla battaglia, si unì al gruppo di T-Bag e cominciò a scatenarsi, ammassandosi contro il gabbiotto delle guardie per cercare di forzarlo. Il loro attacco di massa in pochi minuti riuscì a scatenare il caos. Dalla mia postazione non era difficile poter sentire i loro schiamazzi, gli insulti lanciati contro Geary, Bellick e Stolte rifugiatisi dentro. Sembravano come impazziti, un branco di gorilla inferociti.
Che cosa avevano intenzione di fare? Sfondare la grata e rischiare di farsi ammazzare?
Solitamente i secondini utilizzavano soltanto i manganelli come armi per difendersi, ma era da stupidi pensare che da qualche parte non tenessero anche la pistola di servizio e che non fossero pronti ad usarla.

Inaspettatamente, dopo una serie di tentativi, il gruppetto sempre più infervorato dal folle T-Bag riuscì a far cedere la grata e prendere possesso della stanza di controllo, mentre le tre guardie si dileguavano velocemente per salvare la pelle.
All’improvviso compresi di essere stata abbandonata completamente al mio destino, sentii crescere una sensazione di terrore sempre più palpabile che si trasformò in panico nell’istante esatto in cui tutte le celle vennero nuovamente aperte. Evidentemente qualcuno doveva aver attivato il comando di apertura per l’intero Braccio.
 
Devo andarmene da qui, sono in pericolo”.
 
Sarebbe stato uno sbaglio restare impalata nel posto dove presto o tardi qualcuno sarebbe potuto venire a cercarmi, ricordandosi di me. Lì ero indifesa, ero scoperta. Dovevo nascondermi, ma prima dovevo uscire allo scoperto e sbandierare ai quattro venti la mia presenza, ma che altro avrei dovuto fare? Restare avrebbe segnato senza ombra di dubbio la mia condanna a morte.
 
Rifletti Gwen, rifletti”.
 
Dovevo riuscire ad arrivare alla stanza di controllo e superarla facendo attenzione a non farmi notare e, una volta fuori dal blocco, trovarmi un angolino sicuro dove aspettare che le acque si calmassero o perlomeno, che qualcuno le facesse calmare. Peccato che quel piano era praticamente impossibile da attuare. Sperare che nessuno mi notasse mentre sgattaiolavo via dalla mia cella, era più o meno come sperare di diventare improvvisamente invisibile.
Appiattita contro la parete, diedi una sbirciatina verso l’esterno. La via verso la stanza di controllo delle guardie era libera, i detenuti erano riusciti a superare la porta che dava accesso ai corridoi del penitenziario. Calcolai a mente la breve distanza e constatai che sarebbero bastati una manciata di secondi per coprire lo spazio che separava la cella 93 dal gabbiotto. Ma una volta fuori, chi poteva assicurarmi che nessuno dei delinquenti rimasti in giro, vedendomi, non decidesse di inseguirmi? E se qualche altro pazzo a zonzo per i corridoi al di là del gabbiotto avesse cercato di aggredirmi e io non fossi riuscita a trovare una via d’uscita? Non conoscevo quella zona dell’edificio riservata al personale e alle guardie, non avrei saputo dove scappare, dove nascondermi.
 
“Oh piantala Gwen. Ti sei voluta mettere in questa situazione, quindi porta fuori le chiappe da qui. Restare in cella a tremare come una foglia non è un opzione”.
 
Presi un profondo respiro, lanciando l’ennesima occhiata furtiva verso la stanza di controllo. La via era ancora libera, era arrivato il momento di andare. 
  • Ciao bambolina, cercavi me?!
   
 
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