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Autore: Adeia Di Elferas    03/07/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~Monsignor Canonici, Vescovo di Faenza aveva accolto di buon grado la richiesta d'aiuto avanzata dal Vescovo di Forlì, che in quei giorni era a Roma, intento, a suo dire, a portare avanti impegni inderogabili.
 Il compito che Monsignor Canonici doveva adempire al posto del suo fratello in Cristo era semplice e anche piacevole, secondo lui. Si trattava della prima tonsura del secondo genito della Contessa di Forlì, il giovane Cesare.
 Il viaggio da Faenza fu breve e abbastanza tranquillo, malgrado la neve impetuosa di quel 19 febbraio, e il Vescovo apprezzò molto il calore con cui i forlivesi lo accolsero alle porte della città.
 Da come gli era stato scritto, aveva creduto che la cerimonia della tonsura sarebbe stata del tutto in forma privata, lontana da occhi indiscreti, invece quell'entusiasmo prorompente della folla gli faceva capire quanto la città fosse coinvolta in quella scelta.
 Essendo un uomo di profonda fede, Canonici aveva cercato di informarsi con attenzione sul ragazzino che sarebbe stato quel giorno avviato alla vita ecclesiastica. Troppo spesso aveva visto figli secondogeniti buttati tra le braccia di Santa Madre Chiesa per pura ambizione o solo per eliminare un possibile pretendente al trono del primogenito.
 Tuttavia i vari precettori e prelati che avevano avuto a che fare con Cesare Riario gli avevano assicurato che in quel ragazzo, per quanto ancora nemmeno di dodici anni, ci fosse già una scintilla degna di un grande uomo di Chiesa. Tutti loro concordavano inoltre sul fatto che la madre non fosse per nulla una donna affascinata dai fasti Vaticani, e che quindi la sua scelta di avviare il figlio a una vita religiosa era da imputarsi solo alla sua materna attenzione nei confronti delle naturali inclinazioni del ragazzino.
 
 L'odore dell'incenso pungeva le narici di Ottaviano, che si stava annoiando a morte nel sentire quel vecchio Vescovo elencare una serie di fandonie in latino, tanto ipocrite quanto inutili.
 Cesare, che invece stava davanti al Monsignore e ascoltava tutto con una serietà quasi trascendentale, era al centro dell'attenzione di tutti, in particolar modo di sua madre.
 Caterina sedeva assieme a Ottaviano e Bianca nella panca d'onore che era stata fatta allestire per l'occasione. Dietro di loro stavano il Governatore Generale Feo, Luffo Numai e le balie con Livio, Galeazzo Maria e Sforzino. Alle spalle di questo nutrito gruppo di spettatori illustri, stavano i membri delle famiglie più in vista di Forlì e di quelle più fedeli a Caterina, in primis i Marcobelli e gli Orcioli, che mai si sarebbero persi un momento tanto importante.
 La Contessa sapeva che con quel giorno non sarebbe cambiato sostanzialmente nulla, perché sia suo zio Ascanio, sia Raffaele Sansoni Riario le avevano consigliato di non allontanare ancora da casa il figlio, facendo solo in modo che seguisse precettori sempre più prestigiosi e si addentrasse man mano nella teologia più pura.
 Tuttavia vedere i capelli di Cesare, di quello che in tenera età era stato il suo bambino più docile e affettuoso, cadere in piccoli ciuffi sotto ai colpi di forbice del Vescovo di Faenza, le diede una sensazione indefinibile di perdita.
 Nel momento in cui il Vescovo dichiarò conclusa la cerimonia e si congratulò – uscendo dal copione che stava recitando – con Cesare per tutto quanto, Caterina dovette ricacciare indietro qualche lacrima di commozione, sforzandosi di sorridere e pensare che con quel giorno il suo piccolo Cesare si preparava a diventare un uomo.
 Ottaviano, al fianco della madre, guardò prima il fratello minore, che ostentava la sua chierica come se fosse stata una medaglia al valore, e poi lanciò uno sguardo a sua madre. L'espressione che le scrutò in viso gli pareva trionfale. Credeva di essere riuscita nel suo intento. Ottaviano aveva capito fin da subito che dietro a quelle sciocchezze degli studi teologici altro non c'era se non un piano per sfaldare l'alleanza tra lui e Cesare.
 Ebbene, sua madre si sbagliava, se pensava che qualche misero tomo teologico e una tonsura avrebbero messo delle distanze tra i suoi due figli più grandi. Cesare sarebbe sempre stato fedele a Ottaviano, come si conveniva a un secondogenito, e insieme avrebbero eliminato per sempre Giacomo Feo, ristabilendo l'ordine naturale delle cose.

 “Ci si affiderà ad altro medico, a un dotto più capace di voi.” disse Piero Medici, evitando lo sguardo affranto di Piero Leoni.
 Erano appena usciti dalla stanza in cui riposava il Magnifico e Piero, dopo essersi consultato col resto della famiglia, aveva deciso di cacciare dalla corte quel ciarlatano di Leoni e di aspettare con fiducia l'arrivo dell'esperto che Ludovico il Moro aveva promesso.
 “I vostri servigi non ci servono più.” ribadì il giovane, sperando che l'altro si levasse di torno senza avanzare altro.
 Piero Leoni strinse il morso e chiese, con un ultimo sguardo alla porta oltre la quale il suo signore languiva preda di terribili dolori: “Potrò almeno restare informato sul decorso della malattia?”
 Piero Medici sbuffò: “Come se vi interessasse davvero...!”
 Il dottore si risentì come non mai per quell'insinuazione che andava a ledere non solo la sua professionalità di medico, ma anche la sua moralità di uomo: “Se la pensate così – concluse – allora è davvero inutile che io resto qui anche solo un minuto di più.”
 Piero Medici mostrò i palmi delle mani, sporgendo in fuori le labbra, dando completamente ragione a quel fanfarone amante dei salassi e degli intrugli maleodoranti.

 Beatrice Este passò la mano grassoccia sulla stoffa che era appena stata srotolata sul tavolo di legno scuro. Il sarto guardava con un misto di orgoglio e apprensione il viso della Duchessa di Bari, moglie di Ludovico Sforza, sperando e un po' temendo che la donna avesse già piani precisi per quella meraviglia di filo d'oro e di seta.
 Sulle labbra morbide della ragazza si stava formando un sorriso compiaciuto che preludeva a uno dei suoi soliti ordini, ingenti e preziosi, ma spesso difficili da portare a termine nei tempi desiderati dalla cliente.
 “Ho fatto un progetto per un nuovo tipo di turchesca.” disse Beatrice, tornando a guardare il sarto, mentre le tante dame di compagnia parlottavano tra loro, tutte eccitate, ben sapendo che presto anche loro avrebbero avuto abiti nuovi per accompagnare degnamente la loro padrona.
 Il sarto chinò appena il capo: “Sarò lieto di vedere i vostri disegni, mia signora, e di ascoltare le vostre indicazioni.”
 La moglie del Moro fece un cenno a una delle sue dame più fidate e questa le prose immediatamente il foglio di pergamena su cui quella mattina stessa Beatrice aveva appuntato lo schizzo per un nuovo abito: un'ampia sopravveste, con accorgimenti fini e aggraziati, che rivisitava la turchesca classica e che sarebbe stata d'incanto alla Duchessa di Bari.
 Da quando Beatrice aveva cominciato a condividere assiduamente la camera con Ludovico, sentiva il desiderio bruciante di piacergli in modo esclusivo, e, per farlo, sentiva di doversi dar da fare, lottando con le armi concesse a una donna, prima tra tutti: i vestiti.
 Con le turchesche poteva nascondere in parte la sua forma, così tarchiata, secondo lei, e ammantarsi di mistero, contrapponendosi in modo spiccato alle altre donne che gravitavano attorno alla corte milanese, che invece schiacciavano le proprie forme in abiti alla spagnola, sempre più stretti e parimenti volgari. 
 “Ne voglio una con questa stoffa per me.” decretò Beatrice, indicando il tessuto che il sarto le aveva appena mostrato: “E una per ciascuna delle mie dame in tessuti di egual colore, anche se meno pregiati.”
 Il sarto fece un inchino spropositato e domandò, con una punta di preoccupazione: “Per quando, mia signora?”
 Beatrice gonfiò un attimo le guance paffute e poi disse: “Per domani mattina.”
 Il sarto impallidì, ma la sua signora non gli diede modo di opporre resistenza, anzi, si raccomandò: “E che siano fatte alla perfezione, non di fretta. Le cose, fatte per scherzo o per serio, van sempre fatte per bene, ricordatelo.”

 L'uomo si tolse la maschera da medico della peste con un gesto quasi stizzito e mostrò a Piero Medici il suo vero volto.
 Non era anziano, ma il suo viso era segnato da ogni sorta di ruga e, tra le sopracciglia, stava quella più importante, segno del suo continuo accigliarsi. Con fare supponente, l'uomo appena arrivato da Milano sospirò, come se parlare gli costasse fatica, e guardò interrogativo il giovane figlio del suo nuovo paziente.
 Piero non capì subito che significasse quell'espressione, ma poi comprese che il luminare, Lazzaro, studioso dell'Università di Pavia, giunto espressamente dalla corte del Moro per curare il Magnifico, gli stava domandando dove fosse il malato.
 “Prego, da questa parte...” sussurrò con reverenziale ossequiosità Piero, che, accanto allo scarno dottore vestito solo con una pesante tunica nera, dimostrava appieno come il suo soprannome, 'il Fatuo' fosse azzeccato, con tutti i suoi monili tintinnanti e il suo abito dai colori appariscenti.
 Lazzaro da Pavia seguì Piero fino alle stanze in cui riposava Lorenzo, ormai a fissa dimora alla villa di Careggi. Per tutto il tragitto, il luminare guardò con sdegno ogni angolo della casa, trovandola sottotono, per gente che si vantava di essere ai vertici della politica mondiale.
 “Eccolo.” bisbigliò Piero, una volta giunto alla camera del padre: “Sta riposando.”
 Lazzaro fece un respiro profondo e scorato, che stava per: 'lo vedo anche io'.
 Piero preferì non urtarsi con quell'uomo che Ludovico il Moro aveva così gentilmente spedito a Firenze solo ed esclusivamente in nome del rispetto provato per il Magnifico, e così lo lasciò al suo lavoro.
 Lazzaro si avvicinò al letto di Lorenzo Medici e lo guardò un momento solo, prima di cominciare a declamare, a voce alta: “Gotta, gotta, terribile gotta. Se vivrà, sarà mio massimo merito e ne parleranno nei secoli. Se perirà, cosa assai plausibile, che Dio l'abbia in gloria.”
 Lorenzo aprì appena un occhio. Quel giorno si sentiva confuso e debole, ma era abbastanza lucido da capire le parole dell'uomo vestito di nero che gli stava davanti. Lo mandò silenziosamente a quel paese e, mentre sentiva il menagramo tastargli il polso, richiuse l'occhio e tornò a dormire.
 
 Mentre ancora il freddo avvolgeva l'Italia intera, isole comprese, a Cesena gli animi si stavano scaldando e le famiglie dei Tiberti e dei Martinelli avevano cominciato a soffiare sul focolare della guerra civile.
 In parallelo con il popolo, anche il Conte Guido Guerra aveva iniziato a dar battaglia a sua madre che, da quando era rimasta vedova, aveva compiuto la leggerezza di non lasciar mai un attimo libero il figlio di prendere le decisioni per conto proprio, benché egli avesse ormai quasi venticinque anni.
 Quando la notizia dei primi scontri in città arrivarono a Forlì, Caterina si affrettò a rimarcare la propria posizione di neutralità. Per star più tranquilla, poi, fece in modo che ai forlivesi – e agli imolesi – venisse ricordata la legge da lei stessa promulgata qualche tempo addietro, secondo cui a tutti gli abitanti delle sue terre era severamente vietato immischiarsi nelle guerre altrui.
 Se qualcuno avesse in qualche modo appoggiato od osteggiato una o l'altra parte, per puro ideale o anche solo per averne un riscontro economico o di prestigio, allora sarebbe incorso nella stessa punizione che spettava ai traditori comuni.
 In ogni caso, più la guerra tra madre e figlio a Cesena si faceva accesa, più i Consiglieri di Forlì si interrogavano su quanto fosse opportuno evitare di essere coinvolti.
 “Dovremmo appoggiare il Conte Guido Guerra.” disse con fermezza Bartolomeo Codiferro, davanti al Consiglio al gran completo.
 Luffo Numai, che presenziava in sede straordinaria, come Giacomo Feo e il cancelliere Giovanni Cardella, alzò un sopracciglio, proprio mentre anche Caterina esprimeva il suo scetticismo dicendo: “Guido Guerra aveva appoggiato Monsignor Savelli, quando io e i miei figli eravamo prigionieri degli Orsi. Direi che non è il caso, ora, di mostrarci troppo permissivi verso di lui. Anzi, è già tanto che non abbia assaggiato la nostra vendetta.”
 Qualche Consigliere batté le mani, primo tra tutti Francesco Numai, che la pensava come il suo parente, che, seduto accanto alla Contessa, annuiva con convinzione.
 “Appoggiamo la madre, allora!” propose Ettore Ercolani, che per indole era sempre pronto a prendere la spada.
 “A che scopo?” ribatté subito Caterina: “I soldati seguono il Conte Guerra, dunque sua madre non ha possibilità. Perché mai dovremmo schierarci con lei? La neutralità è la cosa migliore, come già detto.”
 Ercolani sbuffò, ma si rimise a sedere con un tonfo, a braccia larghe, come dire che aveva fatto il possibile.
 “Dunque propongo di tenere ancora la linea già prestabilita.” disse Luffo Numai, scrivendo qualcosa nel verbale della seduta, sperando di poter chiudere l'udienza.
 Qualcuno stava guardando Giacomo Feo, il Governatore Generale delle truppe e delle rocche che, forte della sua carica, avrebbe dovuto dire la sua esattamente come gli altri.
 Il ragazzo, dalle larghe spalle valorizzate dal vestito sfarzoso che portava, invece se ne stava seduto sul suo scranno, un po' storto, il volto corrucciato e l'indice appoggiato alle labbra, pensieroso.
 Quando Giacomo si accorse degli occhi puntati su di lui, comprese bene che quei forlivesi aspettavano di sentirgli dire qualcosa. Era il Governatore Generale, in fondo, e in caso di guerra sarebbe spettato a lui organizzare la difesa o l'attacco.
 Aveva seguito la vicenda di Cesena con un certo interesse, ma senza basarsi troppo sulle informazioni tecniche riguardanti l'esercito del Conte Guerra o le alleanze della madre, perciò quando parlò lo fece spinto solo e unicamente dalla sua impressione personale sul dramma familiare in atto nelle stanze del palazzo dei Guerra: “Per me la neutralità in questo caso non ha senso. È ovvio che Guido Guerra odia sua madre e da questo nasce tutto. Dobbiamo schierarci contro questi capricci da bambino viziato e aiutare la madre di questo insulso Conte.”
 Il silenzio accolse le parole di Giacomo che, forse per eccesso di insicurezza, aveva parlato con un tono aspro e con parole troppo dure, per essere il suo primo intervento in aula.
 Caterina lo guardò, trasecolando e ci volle Luffo Numai, per salvare la situazione: “Il Governatore dice bene, ma come abbiamo già discusso prima, i motivi dello scontro tra madre e figlio a noi non interessano. Se non scendiamo in campo è solo per evitare allo Stato una spesa inutile, se non dannosa.”
 La Contessa si riprese in fretta, e diede manforte a Numai, riuscendo a sciogliere il Consiglio senza altri incidenti.
 “Ma che ti è saltato in mente?” fece Caterina, dopo aver trattenuto Giacomo e averlo portato in una delle stanze deserte del palazzo.
 Il ragazzo, le cui guance ora sempre rasate alla perfezione si stavano tingendo di rosso, aprì la bocca per difendersi in qualche modo, ma la moglie lo rimproverò subito: “Non devi mai dire certe cose senza aver prima chiesto il mio parere! Ma ti rendi conto che avresti potuto istigare il Consiglio a votare per una guerra? Sai cosa comporta, una guerra?”
 Giacomo aveva la bocca secca e si sentiva a disagio. Si guardava intorno, come alla ricerca di un appiglio e solo a fatica riuscì a farfugliare qualcosa di incomprensibile.
 Caterina non sopportava quel genere di scene. Il ricordo di Girolamo che accampava scuse per la sua inettitudine era ancora troppo fresco nella sua mente e riscoprire anche in Giacomo debolezze simili la faceva vacillare.
 “Andiamo a casa.” concluse alla fine, sforzandosi con tutta se stessa di convincersi che quello scivolone era dettato solo dalla giovane età e dall'inesperienza del marito: “Ma non farlo mai più.” aggiunse, mentre pensava che lei, alla stessa età di Giacomo, aveva preso Castel Sant'Angelo, tenendo sotto tiro di cannone tutta Roma e i suoi alti prelati.

 La Spagna ribolliva, dopo la riconquista portata a termine all'inizio dell'anno e i suoi regnanti, Ferdinando II d'Aragona e Isabella di Castiglia, avevano spiccato anche un editto contro gli ebrei che vivevano in terra ispanica.
 Veniva offerta loro la possibilità di convertirsi e rimanere in Spagna, oppure di restare ebrei e lasciare la terra che li aveva fino a quel momento accolti. Avrebbero avuto tempo quattro mesi esatti, ovvero fino al 31 luglio, per abbracciare la vera fede oppure per piegare la testa all'esilio.
 Quest'improvvisa affermazione di cristiano potere aveva esaltato i religiosi di tutta Europa, facendo breccia anche nel cuore di Girolamo Savonarola che a Firenze continuava a predicare la sua Apocalisse e implorava i fiorentini di rinnegare il Magnifico – prostrato dai suoi stessi vizi – e pentirsi per i propri peccati.
 Ci sarebbe voluto, a quel punto, solo un qualche segno dal cielo, un simbolo da seguire, un evento straordinario che convincesse gli abitanti di Firenze a prendere la croce e ribellarsi al paganesimo.
 Come se Dio avesse ascoltato le preghiere tonanti del frate, la notte del 5 aprile, squarciando un cielo altrimenti pacifico, un fulmine si abbatté sulla lanterna del Duomo, quasi distruggendola.
 Immediatamente, come chiamati da una voce divina, i Fiorentini che abitavano più vicini al Duomo, accorsero a vedere che fosse accaduto, richiamati tanto dal bagliore improvviso, quanto dal rumore incredibile.
 Per Savonarola fu tutt'altro che difficile sfruttare quella casualità a suo favore, e già il mattino seguente era lui a tuonare sulla città, feroce come la saetta che aveva colpito la lanterna e altrettanto abbagliante: “Pentiti, Firenze, la fine di Lorenzo Medici e della sua stirpe è vicina!”

  Giovanni Medici era immerso nella lettura di un'opera latina che aveva da poco scoperto e che l'aveva subito rapito, quando suo fratello Lorenzo entrò nel salone a velocità sostenuta, esclamando: “Anche Botticelli è corso a Careggi, al capezzale di nostro cugino. Pare che ci siamo.”
 Giovanni chiuse il volume, tenendo il segno con indice e medio: “Veramente?”
 Il fratello, arricciando il naso schiacciato, annuì non senza una certa soddisfazione: “Sì, sì e ha anche chiamato a sé Savonarola, per farsi confessare e benedire, quel codardo... Adesso si pente, non quando era ora...”
 Giovanni strinse le labbra e, spostandosi una ciocca di riccioli castani dalla fronte, sospirò: “Non dobbiamo nutrire ancora odio verso nostro cugino. Come vedi alla fine è stato punito per le sue colpe, adesso dobbiamo pensare solo al nostro futuro, non al passato.”
 Lorenzo guardò il fratello minore, chiedendosi dove trovasse lo spirito di essere tanto prodigo di perdoni e grandiosità, ma alla fine sbollì, concordando: “Adesso dobbiamo riprenderci il nostro posto nel mondo.” e uscì di nuovo dal salone, diretto chissà dove a parlare con chissà chi.
 Ormai distratto dalla sua lettura, Giovanni abbandonò definitivamente il suo libro in latino e si avvicinò alla finestra.
 Quella stentata primavera – pensò – si stava dimostrando molto crudele con la famiglia Medici. Se a Careggi Lorenzo il Magnifico stava morendo del male di famiglia a quarantatre anni, lì a Cafaggiolo Giovanni, che di anni non ne aveva ancora venticinque, cominciava a temere di avere ereditato il male di famiglia. Forse questo suo dubbio, che nemmeno il suo medico personale era riuscito a dirimere, era ciò che lo rendeva indulgente verso il cugino. Il terrore di poter incorrere nella stessa sorte, gli impediva di gioire di quella specie di vendetta del fato.
 Passandosi una mano sul viso, Giovanni tentò di riprendersi un momento, chiedendosi se fosse o meno il caso di mettere a parte il fratello maggiore delle sue tribolazioni.
 Oltre la finestra, le campagne di Cafaggiolo si stendevano tranquille e addormentate sotto al pallido sole di quell'inizio di aprile, indifferenti agli uomini e alle loro penitenze.
 Con quell'immagine stampata nella mente, Giovanni lasciò la sua postazione alla finestra e decise di uscire per una cavalcata. Non poteva sapere cosa il futuro avesse in serbo per lui, dunque non poteva fare altro se non godersi quello che aveva: il presente.

   
 
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