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Autore: Adeia Di Elferas    05/07/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Piero Medici aveva dato l'anima pur di trovare quello che Lazzaro da Pavia aveva richiesto: un diamante, uno smeraldo, un topazio, un'ametista e un rubino. Quando le cinque pietre furono nelle mani del saggio, questi le fece polverizzare e, prescrivendo anche tre salassi al dì – lasciando di stucco Piero, che però l'assecondò, fidandosi ciecamente dello scienziato – si preparò a somministrare il revitalizzante al Magnifico.
 Lorenzo, che da giorni ormai aveva funzioni vitali ridotte all'osso e soffriva di un gonfiore agonico legato ai reni che ormai non erano più in grado di far nulla, bevve l'intruglio a fatica, incoraggiato da quelli che gli stavano attorno.
 La notte dell'8 aprile, nella stanza del Magnifico erano stipati gli amici di sempre e i figli. Pico della Mirandola piangeva disperatamente, incapace di trattenersi, benché avesse cercato di imporsi un contegno stoico.
 Piero Medici se ne stava in un angolo, mesto e scuro in viso, sicuro che tanto il padre non l'avrebbe mai riconosciuto.
 Angelo Poliziano, invece, era inginocchiato accanto al letto e stringeva nelle sue mani quella deformata del suo amico più caro.
 Lorenzo aveva gli occhi spalancati e vitrei, il respiro irregolare e spesso interrotto da momenti di apnea. Da ore sembrava incosciente, ma nessuno era davvero pronto a vederlo morire proprio quella notte. I lampi di intelligenza che in vita avevano acceso così tante volte le sue pupille erano sol un vago ricordo.
 Nel cuore della notte, mentre tutt'attorno al palazzo di Careggi regnava il silenzio più fondo, Lorenzo il Magnifico si spense.
 Tutti i presenti si disperarono, per quella morte annunciata e qualcuno cominciò anche a dar colpe a questo o quell'altro fatto. Solo il figlio del Magnifico, Piero, era convinto di sapere chi fosse stato il vero artefice di quella catastrofe.
 Per troppi anni il medico di corte aveva trascurato il suo signore e, l'ingioiellato figlio di Lorenzo ne era certo, chi altro avrebbe potuto voler morto il Magnifico, tanto da riuscire ad avvelenarlo di nascosto, se non l'uomo che aveva appena perso tutto, scavalcato da un dotto giunto da Pavia?
 Il giorno appresso, il 9 aprile, mentre il feretro di Lorenzo il Magnifico, accompagnato dalla folla di fiorentini, divisi tra le lacrime e lo sbigottimento, veniva portato senza pompa alcuna al Convento di San Marco per celebrare il funerale, Piero Leoni veniva trovato morto, strangolato, in un pozzo.

 Caterina aveva appena finito di dare ascolto alle questue di quel giorno, affiancata come spesso ormai accadeva tanto da Giacomo quanto da Luffo Numai.
 Se il secondo aveva, però, il permesso di prendere parola e dare consigli, il primo veniva redarguito all'istante, appena provava ad aprire bocca. La moglie gli aveva spiegato che prima era necessario che seguisse una sorta di gavetta, e solo in seguito avrebbe potuto prendere parte attiva alle decisioni.
 “Ascolta e impara – gli aveva ripetuto anche quella notte, mentre il profumo di uno degli unguenti inventati dalla Contessa riempiva il loro alloggio al Paradiso – e quando avrai compreso come funziona, allora potrai governare assieme a me.”
 E così Giacomo ascoltava e un po' imparava, benché ogni volta fosse o troppo distratto o dalle idee così diametralmente opposte a quelle della moglie da non riuscire proprio ad accettare la sua visione d'insieme.
 Un messo da Firenze era l'ultima persona che Caterina si sarebbe attesa, come questuante. Costui si era messo in fila con gli altri nella speranza di poter essere subito ricevuto e così era stato.
 “Ditemi, cosa vi porta a Forlì?” domandò la Contessa, facendosi attenta.
 L'uomo portava con sé una lettera, ma non ebbe bisogno di leggerla per sapere cosa dire: “Contessa, sono stato mandato a darvi una notizia spiacevole e triste.”
 Caterina si accomodò sullo scranno e altrettanto fece Luffo Numai. Solo Giacomo non sembrava molto preso da quell'esitazione del legato fiorentino, che stava prendendo tempo, come se fosse conscio del peso che le sue parole avrebbero avuto.
 “Il mio signore, Lorenzo Medici, è morto la notte dell'8 aprile e ora è sepolto nella Sagrestia Vecchia della Basilica di San Lorenzo.” disse la staffetta, chinando il capo.
 La Contessa rimase un attimo senza parole. Sapeva da tempo che il Magnifico non era in salute, ma non si era aspettata una notizia simile tanto presto.
 “Riferite alla famiglia del vostro signore che sono molto addolorata per questa notizia.” fece alla fine Caterina: “Natura non produrrà mai più un simile uomo.”
 Il messo fiorentino fece un profondo inchino: “Riferirò le vostre parole alla corte di Firenze, mia signora.”
 Per tutto il resto della giornata, Caterina non riuscì a distogliere il pensiero da quello che era successo a Lorenzo il Magnifico.
 A cena non si rese nemmeno conto delle solite scintille tra Giacomo e Ottaviano. Da quando Cesare aveva ricevuto la prima tonsura, la Contessa aveva voluto dare un taglio più elegante alla sua corte e così, almeno in presenza di testimoni, aveva predisposto affinché i suoi figli vestissero sempre in modo adeguato e venissero rispettate le etichette. Tuttavia, nel cuore della sua rocca, in cui nemmeno l'ambasciatore milanese Sfrondati poteva entrare liberamente, Caterina portava avanti uno stile di vita molto rustico e familiare, tanto che, forse unica tra i suoi pari, cenava assieme all'intera famiglia e a qualche servo, nella medesima sala e allo stesso tavolo.
 “Non spetta a voi dirmi che fare!” sbottò a un certo punto Ottaviano, battendo una mano sul tavolo.
 Caterina si ridestò dai suoi pensieri e cercò di capire quale fosse quella volta la pietra dello scandalo.
 Giacomo si stava infervorando e era a un passo dal dire qualcosa di estremamente spiacevole, lo si capiva dalla curva assunta dalle sue labbra, così la Contessa parlò prima, riprendendo Ottaviano: “Non si alza la voce a tavola.” gli disse, con calma apparente: “Un giorno sarai il signore di queste terre, devi imparare a comportarti come si deve.”
 Ottaviano, che era certo di aver ragione in quella discussione, si sgonfiò di colpo, abbattuto da come la madre l'aveva rimesso in riga senza nemmeno valutare chi tra lui e Giacomo avesse torto.
 “Sì, madre.” rispose solo, in un bisbiglio, mentre lo stomaco gli doleva per il nervosismo.

 “Ma perché sei così dispiaciuta per la morte del Medici?” chiese Giacomo, seduto davanti al camino, mentre la moglie si metteva la solita crema di bellezza serale.
 Caterina sospirò e alzò le spalle, non avendo voglia di parlarne.
 Il giovane stiracchiò le lunghe gambe e si mise le braccia dietro la testa: “Da quello che so, c'è lui dietro la morte del tuo primo marito. È per quello che gli eri così affezionata?”
 La Contessa aprì la bocca, per riprendere Giacomo, ma comprese che nella sua affermazione non c'era ironia, né malizia. A volte dimenticava il modo semplicistico in cui suo marito vedeva le cose...
 “Lorenzo Medici è stato l'ago della bilancia per anni.” spiegò, con il tono di un precettore che spiega una lezione difficile a un bambino non particolarmente sveglio: “Lui ha mantenuto la pace nella penisola. Ci sono state delle guerre, è vero, ma nulla in confronto a quello che poteva essere, con un altro uomo alla guida di Firenze. Ha patrocinato l'arte e la letteratura, la filosofia e le scienze.” Caterina sospiro, ancor più addolorata per quella perdita inestimabile: “Ora che il Magnifico è morto, tutti gli equilibri potrebbero saltare.”
 Giacomo la stava fissando con la fronte aggrottata e le labbra serrate. Era ovvio che non cogliesse il vero valore di Lorenzo Medici, ma si notava come stesse cercando di ragionarci.
 Caterina si rimise a specchiarsi e terminò il trattamento serale, prima di tornare a concentrarsi sul marito: “Ora dipende tutto da Piero, il figlio del Magnifico. Il potere passerà nelle sue mani con una facilità assoluta, ma starà a lui riuscire a mantenerlo.”
 A Giacomo scappò uno sbuffo, ma non espresse ad alta voce la sua opinione, ovvero che quel Piero Medici era ricco sfondato, dunque che problemi avrebbe avuto, a mantenere il potere?
 “Avevano anche sentito dire che i cugini del Magnifico erano pronti a fare opposizione, proclamandosi addirittura contrari alla famiglia Medici, una volta morto Lorenzo...” soppesò Caterina, inclinando il capo.
 “Andando contro la loro famiglia?” chiese Giacomo, incapace di credere a una cosa simile.
 La Contessa si alzò e si avvicinò al marito: “La ragion di Stato fa calpestare anche le parentele più strette.”
 Il ragazzo puntò gli occhi scuri in quelli ramati della moglie e si ricordò di come anche lei era stata vittima della ragion di Stato e per un istante infinito si sentì sperduto e piccolo in un mare in burrasca che gli era del tutto estraneo.
 “Ma adesso è inutile pensarci. Quello che succederà, succederà. Staremo a vedere le mosse di Piero e reagiremo di conseguenza.” decretò Caterina, prendendo Giacomo per mano, facendogli lasciare la sedia e tirandolo a sé.

 La notizia della morte di Lorenzo il Magnifico era arrivata anche a Milano, dove Ludovico il Moro aveva versato calde lacrime, nel sentire come il rivale e l'amico di una vita avesse trovato la sua fine in modo tanto miserrimo.
 La tristezza per quella morte prematura, comunque, venne in fretta accantonata in favore delle febbrili missive spedite a destra e manca. Ora che il signore di Firenze era morto, lasciando verosimilmente il potere al giovane figlio Piero, era necessario tessere nuove alleanze e rinforzare quelle vecchie.
 In quel finale di aprile, mentre di giorno gli impegni dello Stato lo tenevano incatenato alla scrivania, le notti per il Moro si tingevano con colori audaci e inattesi. La compagnia di Beatrice diveniva per lui ogni sera più imprescindibile e indispensabile e la giovane ne sembrava non solo lusingata, ma proprio entusiasta.
 Se da un lato Calco, con fare cameratesco, insinuava come il Moro piacesse tanto alla moglie solo perché era un uomo di potere, dall'altro il cancelliere doveva ammettere che il suo signore, malgrado l'aspetto un po' pingue e il naso importante, avesse sempre avuto un grande successo tra le donne. Evidentemente Beatrice non faceva eccezione.
 “Presto avrò un erede, lo sento!” andava dicendo Ludovico, quando Calco gli chiedeva notizie: “E allora Milano capirà che conviene avere me come Duca e non mio nipote!”

 “Monsignor Gasparo Biondo è rimasto ucciso da Guido Guerra in persona, in un'osteria.” disse con voce cupa Luffo Numai.
 Caterina smise di scrivere la lettera diretta al Cardinale Sansoni Riario, al quale aveva promesso di riferire tutti i progressi di Cesare negli studi teologici, e guardò il fidato consigliere: “Dunque è per questo che non ne avevamo più notizie.”
 Gasparo Biondo era un notabile di Forlì, massimamente interessato alla pace, che era andato a Cesena, contravvenendo gli ordini precisi della sua signora, con il nobile fine di ristabilire l'armonia tra Guerra e sua madre.
 “Pare che il Conte Guerra lo abbia lasciato uscire dal loro palazzo, e che poi l'abbia seguito fino alla periferia di Cesena, e gli abbia teso un agguato nell'osteria in cui si era fermato a rifocillarsi.” spiegò Numai, con un sospiro contrariato: “A quanto pare il Conte credeva che il nostro Biondo fosse pronto a schierarsi con la madre. Forse temeva che sarebbe tornato qui a Forlì per riferirvi qualcosa che vi avrebbe portata a schierarvi in favore della madre del Conte...”
 Caterina scosse piano il capo. Stimava Gasparo Biondo, tanto che non aveva preso subito provvedimenti contro la sua scelta di andare a Cesena. Era figlio di un letterato, Flavio Biondo, che aveva fatto involontariamente un grande servigio ai Riario, scrivendo, in tempi non sospetti, accese arringhe contro gli Ordelaffi.
 Se solo fosse stato ucciso nelle sue terre, la Contessa avrebbe potuto ottenere in fretta una vendetta soddisfacente, di quelle che fanno guadagnare rispetto. Invece Biondo era stato assassinato in terra straniera, per di più in una terra in cui imperversava ormai una chiara guerra civile.
 “Quanto vorrei poter portare quell'insolente Guido Guerra qui nella mia rocca e chiuderlo in una cella, assieme ai Vaini e ai Tartagni...” sbuffò Caterina, adirata con quella situazione paradossale.
 Se almeno Cesena fosse stata in pace, avrebbe potuto far la voce grossa con i suoi signori, chiedendo almeno un indennizzo in denaro, che avrebbe volentieri girato ai familiari superstiti del Monsignor Gasparo Biondo.
 E invece tutto quello che poteva fare era tacere e, anzi, sperare che Guido Guerra non si mettesse in testa di imbracciare le armi anche contro Forlì, travisando il tentativo di Biondo, che era volto solo ed esclusivamente alla pace.
 “I pericoli ci attanagliano da ogni lato...” costatò Caterina, ripiegandosi un po' su se stessa, non riuscendo a vedere altro che ostacoli sul suo cammino: “Forse dovrei scegliere un Governatore migliore per Imola. Qualcuno di cui mi fido...” soppesò.
 Luffo Numai annuì: “Sarebbe una buona cosa. Temo che Gian Piero Landriani come castellano non basti. Ci vorrebbe un Governatore fidato che vada a sostituire l'attuale, che ormai, con tutto il rispetto, è anziano e stremato...”
 La Contessa sapeva bene chi avrebbe dovuto richiamare presso il suo servizio. C'era un solo uomo, a parte il barbiere Bernardi, di cui sentiva di potersi fidare. Anche se aveva dubitato di lui in passato, cominciava a pensare di aver travisato tutto, di aver commesso un imperdonabile errore di valutazione.
 “Forse dovrei richiamare al mio servizio mio cognato, Tommaso Feo.” concluse Caterina.
 Luffo Numai non sperava di meglio, così si affrettò a incoraggiarla: “Con voi qui a Forlì e il capitano Feo a Imola, il vostro Stato sarebbe di certo più al sicuro, mia signora.”
 L'idea era effettivamente molto allettante e avrebbe davvero reso la vita più semplice tanto a Caterina quanto a tutta la popolazione. Giacomo aveva in mano una carica che da sola valeva più di due cariche da semplice governatore, ma non era capace di tenere sotto controllo tutto lo Stato. Non riusciva neanche a seguire come si doveva i lavori al quartiere militare, figuriamoci giostreggiarsi tra spie e ambasciatori...
 “Ci penserò.” fece la donna, ben sapendo che per richiamare a sé Tommaso avrebbe dovuto fare uno sforzo notevole tanto in umiltà, quanto in faccia tosta.
 L'aveva scacciato in modo ingiusto e senza dargli spiegazioni. Solo un folle avrebbe accettato di tornare. Un folle, o un uomo innamorato.
 Luffo Numai guardò lo strano sorriso che aveva acceso il volto della sua signora e si permise di sperare. Un giorno forse non molto lontano, pensò, nello Stato degli Sforza Riario sarebbe finalmente tornato il Feo giusto, quello degno di rispetto, quello capace, quello che sarebbe stato un Conte così giusto e liberale...

 Isabella d'Aragona era rimasta a riposare, quella mattina, mentre Gian Galeazzo, che in quegli ultimi giorni godeva di una salute quasi perfetta, era uscito per andare a caccia.
 La Duchessa lo aveva lasciato andare, senza nemmeno proporsi per accompagnarlo. Se nei primi tempi del loro matrimonio si sforzava di farsi piacere i suoi passatempi e lo assecondava per vincere le sue resistenze, ora non ne vedeva più il motivo.
 Erano in perfetta armonia, anche se durante il giorno si dedicavano ad attività diametralmente opposte.
 Bastava non nominare mai Ludovico il Moro, o Beatrice Este, o la corte di Milano. Infatti, se Gian Galeazzo quasi era felice di potersi estraniare dagli affari di Stato, Isabella bruciava ogni giorno di più nel vedere la cugina prendersi le lodi e gli onori che sarebbero spettati a lei.
 Il piccolo Francesco era ancora a Milano. Stava bene, ogni tanto lo andavano a trovare, ma era palese che Ludovico non aveva alcuna intenzione di lasciarlo tornare a casa.
 Isabella aveva abbandonato quasi del tutto i tentativi di intenerire Beatrice che, negli ultimi tempi, la teneva a distanza, distratta, dicevano i cortigiani milanesi, dall'amore travolgente per il marito al quale, Dio piacendo, avrebbe presto dato un figlio.
 Per quanto credesse sbagliato mettere al mondo un bambino per scopi diversi dall'amore, anche Isabella sperava di restare presto di nuovo incinta. Suo marito era d'accordo con lei, anche se non apprezzava il tono bellicoso che lei usava, quando ne parlava.
 “Con due eredi – diceva Isabella, appena sfioravano l'argomento – sfido io a dire che la tua linea di successione non è sicura! Guai al Moro, se ci ostacolerà, quando avremo un altro figlio. Se lo farà, scriverò a mio padre e Napoli marcerà su Milano, radendola al suolo, piuttosto che lasciarla a Beatrice Este!”
 “Mia signora...” sussurrò una delle cameriere, entrando nella stanza di Isabella e Gian Galeazzo: “Vi aiuto a vestirvi?”
 Isabella si mise a sedere sul letto. Avrebbe voluto dormire ancora un po', ma il sole era già alto e voleva sfruttare la mattina al meglio, così permise alla cameriera di portarle gli abiti per quella giornata.
 “Mio marito è ancora a caccia?” domandò, mentre la serva cominciava a infilarle le sottovesti.
 La donna annuì: “Sì, mia signora. Ha detto che tornerà per l'ora di pranzo.”
 Isabella ringraziò e non disse altro, mentre la cameriera si occupava di lei. Prima di dedicarsi alle sue occupazioni quotidiane, pensò la Duchessa, sarebbe andata dalla suocera, Bona di Savoia.
 Da quando il Moro aveva ammorbidito la reclusione della cognata, Isabella spesso le faceva visita, in cerca di consigli. Le mancava una figura materna, nel freddo castello di Pavia, e quella donna dai capelli bianchi e dagli occhi buoni, benché non fosse sempre in grado di darle buoni consigli, era sempre disponibile a rassicurarla e consolarla e per la giovane Duchessa era già molto.

 Giacomo Trotti, l'ambasciatore di Ferrara a Milano, venne quasi travolto dalla Duchessa di Bari, Beatrice Este, mentre questa usciva dalle sue stanza, seguita a ruota da tutte le sue dame di compagnia, gridando: “Questo non lo permetto! Dov'è mio marito?!”
 Le ragazze che seguivano la loro signora tenevano le sottane appena sollevate, per poterle star alle calcagna senza inciampare. Beatrice, infatti, malgrado la bassa statura e le gambette corte, stava correndo veloce come una tempesta ed era diretta allo studiolo di Ludovico.
 Trotti seguì lo strano corteo a una certa distanza, curioso di sapere che mai fosse accaduto. Era pur sempre l'ambasciatore di Ferrara: se era successo qualcosa di grave, doveva essere in grado di riferire celermente agli Este ogni minimo dettaglio!
 Beatrice giunse alla porta dello studio e aprì senza annunciarsi in nessun modo, sorprendendo il marito, intento a parlamentare con un ambasciatore straniero e un paio di nobili milanesi.
 Il Moro si scusò con i presenti e riuscì a portare fuori dallo studiolo la moglie. Diede una rapida scorsa alle damigelle e poi fissò Beatrice, chiedendola tacitamente che mai le fosse saltato in mente.
 “Lo stesso vestito...!” boccheggiò la ragazza, provata dalla lunga corsa: “A me e a lei...!”
 Ludovico comprese immediatamente quale fosse il nocciolo della questione. Aveva di recente acquistato presso un sarto milanese tra i più rinomati una camora di broccato riccio per la sua adorata Beatrice e poi, ah, poi era stato debole e aveva deciso di prenderne uno quasi uguale per Cecilia.
 “Io...” cominciò a dire il Moro, in imbarazzo, sentendosi addosso gli occhi inquisitori delle dame di compagnia e del Trotti: “Lei... Era un regalo per la nascita di Cesare...”
 Beatrice scosse il capo e, senza ammettere repliche, disse: “Quella donna ti ha dato un figlio mesi fa, è tardi per farle altri regali.”
 Ludovico gonfiò il petto, tentato di far valere la propria supremazia, ma l'ordine perentorio della moglie lo fiaccò: “Ho atteso anche troppo: ora voglio che la cacci da qui.”
 Il Moro si rabbuiò, ma non si oppose. In fondo, anche lui non aveva più interesse ad avere a corte Cecilia.
 “E le proibisco di indossare la camora che le hai comprato.” concluse Beatrice, che cominciava a sbollire dalla sua arrabbiatura: “Fai in modo che lo sappia. Se gliela vedrò indosso, gliela strapperò con queste mani!”

   
 
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