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Autore: rossella0806    05/07/2016    4 recensioni
Regno di Sardegna, gennaio 1849.
Costanza Granieri si è svegliata per l'ennesima volta spaesata e affranta: da quando si è trasferita in città, lontano dalle sue abitudini e dai suoi affetti, la notte non riesce a dormire.
L'unica cosa che desidera è ritornare alla vita di prima, nel paese di montagna che l'ha vista crescere: la sua sola consolazione risiede nella corrispondenza epistolare che intesse con la nonna materna, influente donna della comunità che ha dovuto abbandonare.
Sullo sfondo delle vicende della famiglia Granieri e dei Caccia Dominioni, in mezzo a personalità nobili e giovani rivoluzionari, va in scena la battaglia della Bicocca, combattuta nelle campagne novaresi il 23 marzo 1849, tra lo schieramento dei piemontesi e quello degli austriaci, nemici giurati di un intero popolo.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Capitoli:
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Non stare in ansia per l'avvenire, perchè ci arriverai, se dovrai, portando in te la stessa ragione di cui ti avvali ora del presente.

(Marco Aurelio, imperatore, filosofo e autore romano, 121-180 d.C)


Erano quasi due ore che stavano marciando in groppa ai cavalli, stanchi ed affamati.

Davanti a loro si aprivano solamente distese a perdita d’occhio di campi coltivati a granoturco alternate a zone brulle, in cui gli alberi si apprestavano timidamente a far maturare i propri frutti.
La colonna di soldati della Quarta Divisione guidata dal duca di Genova, Ferdinando V di Savoia, procedeva compatta lungo il confine piatto tra Piemonte e Lombardia: come monotono sottofondo, il cadenzato ed elegante scalpiccio degli zoccoli ferrati e il nitrire degli stalloni, che risuonavano vaghi ed attutiti in quel paesaggio spettrale, mentre la solita pressante foschia delle ore precedenti impediva di mantenere un buon passo al trotto.
Appariva tutto così calmo da sembrare irreale: i casolari che si snodavano lungo il tragitto esibivano le finestre e la porta di legno sbarrate, a sottolineare che non c'era nulla da rubare, a pregare le truppe di passaggio di non saccheggiare e fare razzia di quelle umili abitazioni, innocenti in quella terra di mezzo.
Qualche centinaio di metri più avanti, in piena contraddizione con il panorama di desolazione di cui erano stati spettatori, uno sparuto gruppo di contadini -tre donne e due uomini di mezza età- era intento a vangare e rassodare parte del terreno che si apriva sotto i loro piedi.
Erano talmente concentrati che quasi non si accorsero del passaggio delle truppe piemontesi, sebbene il loro disinteresse sembrasse studiato per non attirare l'attenzione degli sconosciuti.
La Brigata Piemonte oltrepassò i lavoratori, degnandoli di una fugace occhiata, accingendosi ad attraversare l'ennesimo ponte che sovrastava la sponda lombarda del Ticino, ormai in territorio nemico.
Erano finalmente in prossimità della Lomellina, la vasta zona che contornava Pavia, lambita proprio dal fiume che contornava i due Stati, dove avrebbe dovuto trovarsi il distaccamento del generale Ramorino.
Nicolò rallentò impercettibilmente, approfittando dell'avanzata delle avanguardie, pronte ad esporsi per controllare l'altro lato del collegamento, e recuperò la borraccia penzolante sul fianco sinistro, avido di sete: si pulì la bocca con una mano, quindi porse il prezioso contenitore a Stefano, qualche passo dietro di lui.

“Ti ringrazio, ma tienila per te: la mia è ancora piena …” gli rispose il biondino, la voce fiaccata dalla fatica.
Il giovane Granieri non se lo fece ripetere due volte, riprendendo a galoppare insieme al resto della colonna, che si era nuovamente messa in marcia.
Avevano abbondantemente superato Magenta, poiché i nuovi ordini comandavano di convergere immediatamente verso nord, in direzione di Vigevano.

Il giorno stava ormai calando, il buio ed il freddo della notte avrebbero presto preso il suo posto, demoralizzando ancora di più la truppa.
Dopo aver piantato l’accampamento in una zona abbastanza protetta dalla scarsità di boscaglia e casolari, l’Armata sarda si fermò per riposare qualche ora.
I soldati più agili e di bassa statura vennero inviati in ricognizione, in mezzo alle chiome degli alberi, per avvisare dall’alto l’eventuale avvicinamento del nemico, richiamando così, con l’apposito fischietto, l’attenzione del resto delle divisioni.
Un altro gruppo di giovani leve venne incaricato di accendere i fuochi per permettere alle vivandiere* di cucinare un minimo di cibo, regalando alla truppa la parvenza di una cena normale.
“Che guardi?” volle sapere Stefano, notando l’insistenza con cui Nicolò stava
fissando un gruppo di tende sul lato opposto rispetto al loro.

“Nulla, stavo riflettendo su quanto sia impossibile avvicinarsi a Sua Maestà: è praticamente sempre accerchiato dai Carabinieri reali, lo seguono come un'ombra in ogni suo spostamento, nemmeno fosse un bambino!” s’infervorò il giovane, addentando un pezzo di pane azzimo e ormai indurito dalle pessime condizioni atmosferiche che l’addiaccio imponeva.
Entrambi i giovani erano seduti su due massi, grandi ed irregolari, e si erano appena proposti al capitano Canavera di rimanere a guardia di quel tratto di accampamento.
“Rilassati, amico! Lo hai detto tu che si tratta di Carlo Alberto in persona! Non vorrai che lascino da solo ed indifeso l’uomo per cui tutto questo ha avuto inizio, il grande Re per il quale ci troviamo qui, in mezzo a questo buco di mondo, con lo stomaco che grida fame, i piedi gonfi e la gola infiammata dalla polvere sollevata dagli zoccoli!?”
Il biondino addentò innervosito il pezzo di pane che gli era rimasto, scrollando il capo con fare incredulo e canzonatorio.
Per quanto quella sorta di intellettuale gli piacesse, davvero non riusciva a comprendere come facesse ad immedesimarsi così tanto nella parte dell'eroe senza macchia e senza paura, pronto ad immolare la sua stessa vita per un ideale che gli era stato inculcato da appena pochi mesi. 
“Sei tu che devi darti una calmata!” lo minacciò l’altro, alzandosi improvvisamente in piedi e sollevandolo per il bavero della divisa inzaccherata.
La brace davanti a loro scoppiettava imperterrita e malandrina, mentre le lingue di fuoco illuminavano i due giovani.
Il volto di Nicolò appariva simile a quello di un demone notturno, furioso e beffardo, e quasi il ventenne si spaventò di fronte a quella reazione irrazionale.

“Se vuoi andare d'accordo con me, devi portare rispetto a Sua Maestà, Stefano, altrimenti non ci impiegherò due volte ad andare dal mio capitano per riferirgli che in mezzo a noi si nasconde un falso patriota, un bugiardo senza scrupoli che va in giro a dire menzogne sul nostro amato e giusto sovrano!”
Il primogenito dei Granieri rimase ancora per qualche secondo a fissarlo negli occhi, quindi lo lasciò perdere, sciogliendo la presa per il bavero: il biondino cadde all’indietro, soffocando un'imprecazione e lamentandosi per essersi scorticato i palmi delle mani sul masso su cui, fino a pochi istanti prima, era seduto.
Ti ti sei tut mat, boia cane! Sfoga la tua rabbia contro gli Austriaci, non su di me! Ma guarda te!”
"E' quello che ho intenzione di fare appena si presenterà l'occasione, puoi starne certo"
Nicolò scosse la testa e riprese ad addentare il pezzo di pane avanzato, concentrandosi sui giochi di luce creati dalle fiammelle del focherello, mentre il compagno si allontanava di qualche passo, bofonchiando quanto fosse pazzo.

 


Intorno alle 3 del mattino di giovedì 21 marzo, il generale Chrzanowski decise di inviare la Quarta divisione a Vigevano, in aiuto della Seconda divisione guidata dal pari in grado Michele Bes.
Il capitano Canavera ordinò così ai sottograduati di radunare tutti gli uomini, per comunicare l’immediata partenza: il giovane Granieri e il suo nuovo amico si erano guadagnati qualche ora di riposo, e in quel momento stavano dormendo in una delle tende lì vicino, dopo il turno della tarda serata appena trascorsa.
“Ma che succede?” s’informò Stefano, non appena una delle sentinelle notturne entrò nel loro accampamento, spronandoli ad alzarsi e a ritirare il più velocemente possibile i loro pochi averi.
“Il capitano ha detto di muoverci! Dobbiamo raggiungere Vigevano il prima possibile, ordini del generale maggiore! Alcuni dei nostri in ricognizione hanno avvistato gli Imperiali proprio in quei paraggi!” precisò l’imberbe soldatino, allampanato e dai capelli castani, il viso cosparso di efelidi.
“Ma è notte!” tentò di replicare il biondino “non possiamo aspettare che spunti l’alba?!”
“Quale alba e alba! Il nemico non aspetta i tuoi comodi” gli ribatté Nicolò, alzandosi di scatto in piedi e lanciandogli contro gli stivali.
Si riabbottonò velocemente la tunica monopetto della divisa blu scuro, lisciando la fascia azzurra a tracolla che simbologgiava la sua carica di aiutante in campo.
Nel frattempo, dedicò un'occhiata colma di curiosità verso il varco d'ingresso, cercando di capire invano cosa stesse accadendo al di fuori della loro tenda, la folla di soldati in fermento.
Poi, l'adrenalina alle stelle, recuperò il cinturone da sotto il giaciglio di paglia, e vi infilò la pistola, sistemando nell’apposito fodero la spada che aveva nascosto tra le coperte.
Infine, a passi sicuri, andò a recuperare il fucile che aveva adagiato sul pavimento di terra battuta, a pochi passi dal letto di fortuna.

“Sei tu Granieri, giusto?” riprese la sentinella, facendo qualche passo nella sua direzione.
L’altro annuì, curioso di sapere cosa volesse e come sapesse il suo nome: lo fissò dall'alto verso il basso, aspettando che proseguisse.
Da una fessura della tenda rimasta aperta per l'improvvisa brezza notturna filtrava il fievole chiaror lunare, che permise
al giovane di riconoscere quasi distintamente il soldato che gli aveva dato il cambio di guardia, circa tre ore prima.
“Il capitano Canavera dice che questa notte ti vuole al suo fianco, perché tu veda come si compili un registro di unità. Prima, però, devi assicurarti che la sella del suo cavallo sia stata ben posizionata, che le briglie ne reggano il peso e che le staffe non cedano. Hai capito tutto?” enumerò solenne il giovinetto, senza attendere la replica dell'interlocutore.
“Mi ha
anche chiesto di domandarti quante scorte di acqua e di viveri ti sono rimasti”
Nicolò si recò nell’angolo dove aveva nascosto il cibo e la borraccia, reprimendo un moto di stizza nell'udire quegli ordini declamati da un insulso ragazzetto: tuttavia, non si abbassò a dire nulla, recuperando ciò che gli era stato comandato e lo mostrò al commilitone.
“Ho ancora mezza pagnotta di pane di segale ed una fiaschetta piena per metà di acqua …” commentò il figlio del notaio, cercando di non lasciar trapelare la frustrazione per aver permesso che la fame e la sete travolgessero la sua forza di volontà, dimezzando le scorte che gli erano state affidate appena la mattina precedente.
L’altro disse che andava bene e, con il fucile portato su una spalla, uscì dalla tenda, seguito a ruota dai due ragazzi e dal resto dei soldati presenti in quella parte di accampamento.
 

Nicolò si sentiva deluso da se stesso: se solo fosse toccato a lui il turno di notte, avrebbe avuto l’occasione per dimostrarsi capace agli occhi del suo capitano,
esibendo le proprie doti di accurato organizzatore.
Invece, la sorte aveva permesso che fosse quell’insulso ragazzo, il volto cosparso di efelidi e investito del medesimo ruolo di aiutante in campo, a trasmettere gli ordini del comandante e a farli rispettare.
Lo aveva umiliato, forse non volutamente, ma lo aveva fatto.
Quando gli aveva detto di controllare quell’elenco di compiti che si addicevano maggiormente ad un semplice stalliere piuttosto che a un giovane della sua levatura sociale, si era sentito improvvisamente inutile e sottomesso:
per un fulmineo istante, si era domandato che senso avesse rischiare la propria vita per eseguire delle mansioni così basilari e prive di qualsiasi valore militare, ma ormai capiva che non valeva la pena recriminare su ciò che era accaduto.
Avrebbe fatto di tutto perché Canavera si accorgesse di lui e del suo coraggio, facendogli cambiare idea e affidandogli compiti di importanza strategica.
Certo, doveva ammettere che di eserciti e di guerra non poteva affatto definirsi un esperto, tanto pi
ù che si era arruolato da meno di quarantotto ore, un tempo che non lo autorizzava a poter contare su una solida esperienza, tuttavia era pur sempre il figlio di una contessa e di un notaio, non di un umile commerciante o di un contadino.
Inoltre, comprendeva perfettamente che il tenente Chiusari gli aveva fatto un immenso favore, nominandolo aiutante di campo del capitano: un altro ufficiale, al suo posto, non avrebbe esitato a farlo fucilare o imprigionare seduta stante, a causa di quella stupida bugia che aveva raccontato all'albergo svizzero circa la propria falsa identità.
Per questo, e per dimostrare a se stesso quanto poteva e doveva farcela, non si sarebbe fatto sfuggire un’altra occasione così propizia.  

 
Alle ore 11 di giovedì 21 marzo, reparti in ricognizione del generale Bes si scontrarono con parte delle truppe nemiche, dando inizio alla stoica resistenza piemontese nei pressi di Borgo San Siro, che culminò tra le 18 e le 19 dello stesso giorno, con i combattimenti vittoriosi a Gambolò e alla Sforzesca*
Quei tre scontri nella campagna lombarda si rivelarono tatticamente fondamentali, poiché la strada per Vigevano era ora protetta da diverse divisioni piemontesi.
Tuttavia, ciò non impedì che Mortara, fino ad allora nelle mani dell’Armata sarda, cadesse sotto il fuoco dell’artiglieria nemica.
Due brigate della Prima divisione, la Cuneo e la Regina, al comando dei generali Trotti e Durando, vennero praticamente decimate dagli Imperiali.
La notizia della disfatta arrivò al generale Chrzanowski solamente nella notte tra il 21 e il 22 marzo, quando nulla era possibile per impedire o arginare i danni subiti.
All'arrivo di quelle sgradevoli quante inaspettate notizie della disfatta, venne immediatamente rintracciato il Re, intento a dormire ignaro in una delle tende dell’accampamento, in mezzo ai soldati della Brigata Savoia.
Quindi, dopo averlo consultato, si decise di istituire un Consiglio di Guerra alla Sforzesca, a cui parteciparono anche i comandanti della Seconda e Quarta divisione, il generale Bes e il duca di Genova.
A seguito di varie ed infinite discussioni, i quattro si accordarono per effettuare l’imminente e necessaria ritirata verso Novara, invece che verso la ormai decisa Vercelli, strategicamente più vicina a Torino, la capitale del Regno.
La scelta non fu accolta con entusiasmo, perché ci si rendeva conto che, preferendo Novara invece di Vercelli, le truppe stanziate ad Alessandria non avrebbero potuto intervenire tempestivamente, in caso di un massiccio attacco, dovendo percorrere ventisette chilometri in più in un tempo assai ristretto.
Tuttavia, se Chrzanowski avesse giocato d’astuzia, i Piemontesi avrebbero collezionato la vittoria suprema.
Il feldmaresciallo Radetzky, infatti, venuto a conoscenza del piano nemico, si convinse che si trattasse dell'ennesima trappola per indurre gli Austriaci a traslocare l’intero esercito a Novara, lasciando scoperta la strategica Vercelli.
Per questo, egli non allontanò le truppe imperiali da Vercelli, dando all’Armata sarda la possibilità di attaccarli alle spalle.
Ma il general maggiore polacco non ordinò l’affondo, preferendo seguire il piano stabilito insieme al Consiglio di Guerra.
E, di nuovo, come la disobbedienza senza fondamento di Ramorino che aveva messo a dura prova il giorno prima la tenuta dell'Esercito sabaudo, quello fu l'ennesimo inizio verso il tragico epilogo.



* Le vivandiere erano mogli di sottoufficiali che svolgevano compiti di sussistenza, come preparare e portare da mangiare e da bere ai soldati, aiutare a lavare e tenere in ordine le divise, oltre che ad essere le prime "crocerossine" che si prendevano cura dei feriti dopo le battaglie.


*Dal nome della tenuta agricola alla periferia di Vigevano, costruita per volontà degli Sforza.
   
 
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