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Autore: Adeia Di Elferas    08/07/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Isabella d'Aragona era speranzosa e aspettava la conferma del medico di suo marito, che si era gentilmente prestato a visitarla.
 Da qualche giorno il suo dubbio andava facendosi vera e propria certezza e non vedeva l'ora di poter annunciare a Gian Galeazzo che stavano di nuovo aspettando un figlio. Far nascere un bambino per pura ambizione verso un Ducato era un gesto che la stessa Isabella riteneva deplorevole, ma quel caso era tutto speciale. Lei amava suo marito, dunque rafforzare la sua linea di successione era solo un effetto secondario, per quanto positivo.
 Il dottore fece un sorriso bonaccione e agitando le grandi mani morbide, annunciò: “Da quel che mi dite e per quello che per ora si può sapere, posso ardire a ipotizzare che effettivamente siate in attesa del vostro secondo figlio. Da poco più di due mesi, per quanto posso ricostruire.”
 Isabella attese che la serva l'aiutasse a rivestirsi e poi gettò le braccia attorno al collo del medico, esclamando: “State ridando speranza a Milano, signor mio!”

 Beatrice aveva aspettato a parlare con Ludovico, perché non era certa di quello che stava accadendo dentro di lei.
 Una delle sue dame di compagnia, che aveva oltre dieci anni più di lei, aveva detto alla Duchessa di Bari che alla sua giovane età era difficile essere sicuri di certe cose.
 “Soprattutto nel vostro caso – le aveva spiegato – giacché siete sbocciata con un certo ritardo, rispetto alle altre giovani di mia conoscenza...”
 Tuttavia, prima di chiedere a un medico o a una donna più esperta di quella che l'aveva messa in guardia sui facili entusiasmi, Beatrice voleva parlare con suo marito Ludovico.
 Lo attese per quasi tutto il giorno, evitando di interromperlo mentre era impegnato negli affari di Stato. Di lì a un mesetto, circa, Cecilia Gallerani, già allontanata dalla corte da un pezzo, sarebbe andata finalmente in sposa a Carminati e proprio in quei giorni il Moro si stava occupando degli ultimi dettagli.
 Era già quasi sera e su Milano si stava spandendo una cappa di afa molto particolare, per essere solo giugno. Dalle campagne si alzava una foschia umida e rovente che invadeva poi la città, arrivando a ghermire anche il palazzo di Porta Giovia, costringendo i suoi abitanti a boccheggiare come pesci spiaggiati.
 Ludovico, finalmente, raggiunse Beatrice, che aveva mandato un servo a cercarlo.
 L'uomo era visibilmente stremato dalla lunga giornata, ma la moglie non aveva la pazienza di lasciarlo riprendere e così, nel momento stesso in cui il Moro mise piede nel salottino, ella mosse un passo in avanti e disse: “Credo di essere incinta.”

 Un consiglio ristretto e improvvisato si era riunito alla rocca di Ravaldino, per prendere alcune decisioni di ordine straordinario che riguardavano la politica dello Stato.
 La morte del Magnifico, occorsa ormai tre mesi addietro, cominciava a portare i primi cambiamenti nel panorama geopolitico della penisola e Caterina aveva compreso quanto Imola e Forlì sarebbero state importanti e al contempo in pericolo negli anni futuri. Il vecchio mondo, ciò che era stato sotto la guida lungimirante del signore di Firenze, non esisteva più. La terra tremava e per restare in piedi, era necessario trovare gli appoggi giusti.
 “Napoli ha alzato subito la cresta e pare che aspetti un pretesto qualunque, pur di dar guerra a Milano.” disse Luffo Numai, riassumendo quello che le sue spie napoletane gli avevano scritto di recente: “Se re Ferrante dovesse morire, ogni freno verrebbe perso e suo figlio Alfonso marcerebbe senza dubbio verso nord.”
 Il governatore di Imola, accorso per quella riunione, confermò immediatamente: “Le nostre spie a Ferrara sostengono che Eleonora d'Aragona sia molto combattuta: non sa se parteggiare per Napoli o per Milano, ora che sua figlia Beatrice e sua nipote Isabella sono sposate rispettivamente con il reggente e con il Duca di Milano.”
 Caterina, che per stemperare la tensione che quel concilio le aveva portato, stava giocherellando con una punta di freccia, guardò l'Oliva, seduto alla sua sinistra: “Milano che intende fare?”
 L'ex-ambasciatore milanese, ora fidato consigliere della Contessa, recuperò dalla sua busta di pelle un paio di lettere e parafrasò: “Pare che Ludovico il Moro sia pronto a chiamare l'aiuto dei francesi, nel caso in cui Napoli si muovesse contro di lui.”
 “E Roma?” chiese ancora Caterina, rivolgendosi allo zio di Giacomo, castellano di Ravaldino, che si era occupato in quei mesi di filtrare le notizie in arrivo dal Vaticano.
 L'uomo non ebbe bisogno di consultare i suoi appunti per riferire: “Fino a che Innocenzo VIII sarà in vita, Roma non si schiererà di certo. Il papa è una pedina dei Medici e sta ancora cercando di capire se i Medici sono finiti o meno. Il suo successore farà da nuovo ago della bilancia.”
 Caterina si appoggiò con uno sbuffo contro lo schienale di cuoio della sua sedia e disse, senza interpellare Giacomo, l'unico che fino a quel momento non aveva aperto bocca: “A questo punto sarebbe interessante capire chi tra i porporati di Roma sarà in grado di pilotare il conclave in suo favore, alla morte di Innocenzo VIII.”
 “Il papa potrebbe morire anche tra molti anni.” fece notare il Governatore di Imola.
 “Non credo.” fece Caterina, senza dare altre spiegazioni.
 Le ultima notizie davano Innocenzo VIII prossimo alla tomba. Se per anni aveva dato falsi allarmi, pareva che nelle ultime settimane il caldo improvviso e tutti i suoi acciacchi l'avessero fiaccato tanto da costringerlo a letto per quasi tutto il giorno. Magari ci sarebbero voluti alcuni mesi, ma di certo il papa non sarebbe scampato più di un anno.
 “Comunque vadano le cose – riprese Luffo Numai – tanto Milano quanto Napoli potrebbero cercare di comprarsi un passaggio dalle nostre terre.”
 Giacomo Feo ascoltava tutto e assorbiva le informazioni come una spugna. Tuttavia non vedeva un concreta minaccia in quello scenario, anzi, pensava che sarebbe stata una fonte di guadagno.
 Vendere il passaggio per Imola e Forlì a uno dei due eserciti – o, perché no, anche a entrambi – sarebbe stato sinonimo di grossi guadagni, senza alcuno sforzo.
 “Le altre città che farebbero?” chiese Caterina, a Numai.
 Il segretario assunse un'espressione grave e ammise: “Non possiamo saperlo. L'unica città di cui possiamo prevedere la tendenza è Faenza. Astorre Manfredi è ancora sotto il controllo dei Medici. Firenze difficilmente si schiererà in favore di Napoli. Inoltre, pare che sia stato trovato un nuovo marito per Francesca Bentivoglio.”
 Caterina spalancò gli occhi, sorpresa oltre ogni dire per una simile novità: “Di chi si tratta?”
 “Guido Torelli. Rinuncerà alla carica apostolica e probabilmente la sposerà in novembre.” rispose Numai, con una prontezza da vecchia comare.
 La Contessa augurò silenziosamente a Torelli più fortuna del suo predecessore, e passò oltre: “Quindi Faenza potrebbe decidere di lasciar passare i francesi... Dobbiamo cercare di capire la posizione delle altre città che stanno sulla via Emilia.” concluse: “In ogni caso, la mia tendenza attuale sarebbe quella di restare nella completa neutralità.”
 “Non intendete favorire vostro zio?” chiese piano Oliva.
 Anche se tra la Contessa e il Moro c'erano stati screzi, il milanese era convinto che alla fine il richiamo della famiglia sarebbe stato più forte di ogni altra cosa.
 “Non ci ricaverei nulla.” disse Caterina, senza fare una piega: “Direbbe che il passaggio è solo un modo per ripagarlo dell'aiuto che mi portò durante i giorni della congiura degli Orsi.”
 Numai stava annuendo e così il Governatore di Imola. Dopo una prima titubanza, anche Oliva sospirò e diede ragione alla sua signora, mentre il castellano di Ravaldino batteva le mani in segno di pieno assenso.
 Solo Giacomo non dava cenno di essere in accordo. In realtà non pareva neppure in disaccordo. Forse, stava pensando, sua moglie alla fine avrebbe appoggiato Napoli. In ogni caso, bastava guadagnarci.
 “Ci riaggiorneremo presto.” disse alla fine la Contessa, alzandosi dal suo scranno: “Per ora vi chiedo di tenere le orecchie aperte, di ampliare il giro delle spie e di cercare di capire chi sarà il prossimo papa.”
 Quando il conciliabolo si disgregò, Luffo Numai, affiancando la sua signora, ebbe lo spirito di chiedere: “E quando penserete a una politica matrimoniale in cui coinvolgere Ottaviano? Ormai ha l'età adatta per essere promesso a qualcuno...”
 Caterina si adombrò all'istante, esattamente come faceva come quando qualcuno provava ingenuamente a chiederle quando mai Bianca sarebbe stata promessa a qualcuno in sposa: “Mio figlio per il momento deve pensare a studiare – disse, impassibile – solo quando sarà pronto a essere Conte, sarà pronto a essere marito. E poi, con chi mai dovrei farlo sposare?”
 Al che anche Luffo Numai si trovò a pensare che il momento non era affatto propizio a trovare moglie al signore di Forlì e Imola, dunque fece un sorrisetto un po' tirato, sentendosi di colpo in posizione scomoda, e abbandonò subito la questione.
 Giacomo, che ascoltava di straforo, ricacciò indietro un paio di imprecazioni, nello scoprire come la moglie avesse ancora intenzione di attendere per un compromesso di matrimonio per il figlio maggiore. Con la prospettiva di avere una moglie, forse, Ottaviano si sarebbe distratto e avrebbe smesso di pensare ossessivamente solo a sua madre...
 Ma Giacomo, ovviamente, non aveva e non avrebbe mai avuto voce in capitolo, in merito al futuro del Conte Sforza Riario.
 
 Innocenzo VIII sentiva ormai il richiamo del Signore e voleva congedarsi dalla vita terrena senza avere colpe sulla coscienza.
 Si era fatto confessare, quel 21 luglio, e poi aveva chiesto di essere lasciato in pace. Non voleva vedere nessuno, sentire nessuno, litigare con nessuno.
 Invece quell'intrigante di Rodrigo Borja, con i suoi modi falsamente accomodanti e i suoi toni melliflui, aveva convinto le guardie a lasciarlo passare e si era messo a dire parole di conforto al papa morente.
 Lo aveva rassicurato con frasi al miele sul futuro dei figli e dei nipoti, giurando che lui stesso avrebbe vegliato su di loro. Innocenzo VIII lo guardava con occhi acquosi e già un po' spenti, chiedendosi quanto ci fosse di vero in quello che lo spagnolo stava promettendo.
 Il papa già immaginava Borja, che aveva un anno più di lui, ma sembrava averne venti in meno, e Ascanio Sforza e Giuliano Della Rovere e Oliviero Carafa e chissà quanti altri, azzannarsi l'un l'altro alla gola per prendere il suo posto. Nessuno di loro capiva quale condanna portava con sé il trono dorato del Vaticano...
 “Quindi, Santità – stava dicendo Rodrigo, con voce bassa e vellutata – credo sia opportuno che voi cediate subito Castel Sant'Angelo al Collegio Cardinalizio.”
 Borja fece una piccola pausa, come se quelle parole gli costassero, e Innocenzo VIII ne approfittò per sussurrare: “Avete paura che arrivi un'altra Caterina Sforza a puntare i cannoni?”
 Lo spagnolo, sorpreso tanto dall'ardire di quelle parole, tanto dal fiato che il papa dimostrava di avere ancora, sollevò gli occhi verso il morente, cercando di interpretare quella domanda nel modo giusto.
 Scorgendo l'ombra di un sorriso sul volto del papa, Borja si permise una breve risatina: “Che momenti, vero?”
 Innocenzo VIII ritornò con il pensiero ai giorni difficili che erano seguiti alla morte del suo predecessore. Ripensò a come la giovane Sforza avesse sfidato tutti loro, persino i suoi parenti, pur di difendere il nome suo e del marito. Per quanto il nome del marito fosse già da tempo indifendibile.
 “Abbiamo avuto le nostre tribolazioni.” concordò Innocenzo VIII, in parte rincuorato da quella chiacchierata, così informale, così calda, quasi familiare.
 “Ebbene...” riprese Borja, un po' più accorato, approfittando bassamente del clima disteso che si stava creando: “Se darete subito al Collegio Castel Sant'Angelo, mi premurerò personalmente a farlo presidiare. Mio figlio Juan, anche se giovane, sarebbe pronto per...”
 “Non fate assolutamente nulla, Santità!” la voce tonante di Giuliano Della Rovere irruppe nella stanza prima ancora che Borja e Innocenzo VIII si avvedessero dall'ingresso del Cardinale: “Costui vuole prendere Castel Sant'Angelo per puntare i cannoni sul conclave e comprarsi il papato!”
 “Ma che ne volete sapere voi!” sbottò Rodrigo, alzandosi di scatto e fronteggiando apertamente Giuliano, più largo di lui di almeno due spanne.
 “Siete la massima carica del Collegio, non mi vorrete dire che la vostra richiesta è disinteressata!” gridò Giuliano, gonfiando il petto sotto la tunica rossa: “Voi non avete paura di una nuova Caterina Sforza, voi volete emularla!”
 “Ma come vi permettete di parlarmi a questo modo?!” la voce di Rodrigo, capace di sovrastare anche il vociare impazzito delle folle, non ci mise nulla a coprire quella dell'altro Cardinale.
 Innocenzo VIII guardava i due uomini prendersi a male parole, insultarsi, imprecare, perdere la propria dignità e capì che probabilmente una di quelle due bestie feroci sarebbe stato davvero il suo successore.
 “Che Dio abbia pietà di questo mondo...” bisbigliò, a voce tanto bassa da non essere udito da nessuno dei due litiganti, che proseguivano con il loro elenco di insulti e minacce.
 A un certo punto, stremato da quella scena insopportabile, Innocenzo VIII alzò un po' le braccia, e sia Rodrigo, sia Giuliano se ne avvidero, smettendo subito di urlare. Dopo tutto, a entrambi interessava il favore di quell'inutile moribondo, almeno finché era ancora l'uomo più potente del mondo.
 “Castel Sant'Angelo – disse il papa, in un soffio appena udibile – resterà al suo legittimo castellano, finché il prossimo papa non deciderà altrimenti.”

 Battista Sfrondati si appoggiava mollemente alla parete della palazzina, le braccia incrociate sul petto e una piega annoiata a incrinargli le labbra, mentre attendeva il suo turno per farsi sbarbare.
 Non gli piaceva poi molto, andare da quel barbiere, anche se gli avevano più volte assicurato che Andrea Bernardi era il non plus ultra della città. Se sceglieva spesso quella bottega, era solo perché lì non era infrequente ascoltare chiacchiere particolari e, con un po' di fortuna, se ne potevano mettere in giro alcune e vedere in che modo si spandevano per la popolazione.
 Avrebbe potuto avvalersi anche delle cronache redatte da un certo Leone Cobelli, un artigiano che ultimamente godeva di fama dubbia, ma aveva avuto modo di leggere qualche suo pezzo e trovava le sue sfuriate contro la Contessa non solo molto infantili, ma anche troppo fantasiose e quindi, per i suoi fini, del tutto inutili.
 “Prego...” fece piano il Novacula, andando a chiamare l'ambasciatore milanese, che aveva atteso fuori per prendere un po' d'aria.
 Sfrondati si sedette e lasciò che il barbiere lo preparasse per la rasatura, mentre un paio di tiratardi già sbarbati indugiavano nella barberia per scambiarsi due parole. Ovviamente l'argomento del discorso era sempre lo stesso.
 “No, no, credete a me – stava dicendo il primo – quella ha già tutto nella testa, matrimoni e non matrimoni, ma è furba e allora aspetta di vedere come mette la storia...”
 Il secondo si grattò la guancia liscia e ribatté, con una certa sicurezza: “Per me non sa nemmeno lei che pesci prendere e finirà che ci andremo di mezzo tutti quanti. Come sempre.”
 La mano di Andrea Bernardi ebbe un brevissimo fremito e tanto bastò a Sfrondati per cogliere la palla al balzo e chiedergli, a voce bassa e apparentemente accorata: “Anche voi siete preoccupato per il governo di madonna Sforza?”
 Il Novacula dissimulò bene la preoccupazione che in effetti aveva e rispose: “Assolutamente no.”
 Sfrondati attese che l'uomo gli passasse il rasoio sul mento, poi buttò lì, in modo apparentemente casuale: “Vi invidio. Io che so... Eh, mio caro, io che so, mi rendo conto.”
 Bernardi, che n po' aveva imparato a conoscere quell'uomo, non avrebbe voluto cadere nella sua trappola, ma la tentazione era troppo forte: “Cosa, mio signore?” domandò, sperando di non sembrare troppo interessato.
 Sfrondati sospirò con gravità e disse: “Ecco, il mio signore, Ludovico Sforza, sta cercando di condurre la nipote verso una vita più morigerata. E so che voi intendete.” soggiunse, per prevenire qualsiasi rimostranza del barbiere: “E se lei non seguirà i consigli di suo zio, accettando la compagnia di qualcuno che il mio signore approverà apertamente, non so come andrà a finire...”
 La voce dell'ambasciatore era tanto bassa che gli altri due forlivesi presenti – che per un caso fortuito stavano parlando in quel momento del 'mantenuto della Sforza' – non sentirono nulla di quello che stava dicendo al barbiere.
 Bernardi non disse nulla, finendo il suo lavoro in fretta, mentre la sua mente volava verso scenari orrendi. Forse, si disse, Milano non sapeva che la Contessa aveva sposato il suo amante e che quindi per sbarazzarsene davvero, per evitare qualunque futura ingerenza e, soprattutto, per farla risposare, l'unica strada percorribile sarebbe stata quella di eliminare Giacomo Feo.
 “Grazie mille, sempre un ottimo lavoro.” fece Sfrondati, controllandosi il viso e dando qualche moneta al barbiere: “Mi raccomando. So che voi potete mettere una buona parola con madonna Sforza.”
 
 Alfonsina Orsini, grossa di sette mesi, guardava il marito con una certa contrarietà. Non era suo costume impicciarsi degli affari di Piero, ma questa volta non era per nulla d'accordo con quello che aveva fatto.
 Per motivo futili e discutibili, suo marito aveva cacciato Buonarroti, un ragazzo di talento, secondo Alfonsina, dalle grandi capacità, che aveva disperato bisogno di qualcuno che lo aiutasse a diventare un grande artista.
 Lo aveva mandato via da un giorno con l'altro, incurante del fatto che quel giovane, che di nome faceva Michelangelo, non aveva altro alloggio, a Firenze. Come poteva quel artista di appena diciassette anni, ma già tanto talentuoso, farcela da solo in un mondo così difficile?
 Rischiava di perdersi, di sbagliare tutto, di abbattersi e di essere costretto a fare un lavoro normale, facendo perdere al mondo l'opportunità di conoscere la sua arte.
 “Vostro padre non l'avrebbe permesso.” disse furente Alfonsina, avvicinandosi al marito Piero, che stava seduto sullo sgabello coperto di velluto rosso, la testa tra le mani, sfinito per via del litigio appena avuto con il giovane artista.
 Piero emise un suono gutturale e poi puntò gli occhi cerchiati sulla moglie: “Che ne volete sapere voi, di quello che avrebbe fatto mio padre?” e così dicendo, si alzò e lasciò la stanza.
 Alfonsina si accarezzò il ventre, chiedendosi che ne sarebbe stato di quel figlio che ancora doveva nascere. Non ne capiva nulla, di politica, forse, ma sapeva riconoscere la paura. E suo marito ne aveva. Ne aveva tanta.
 Asciugandosi una lacrima furtiva, Alfonsina Orsini cominciò a camminare per i corridoi decorsati del palazzo dei Medici, assaporandone ogni angola, domandandosi per quanto ancora avrebbe potuto godere di quella meraviglia.

 “Sfrondati parla così per cercare di intimidirmi.” minimizzò Caterina, che però era rimasta abbastanza disturbata da quel resoconto fattole dal suo uomo di fiducia.
 Bernardi inclinò la testa di lato, ravvivando il piccolo fuoco: “Sarà, mia signora. Però io non lo sottovaluterei, al vostro posto.”
 C'era ormai buio e il fuocherello che il Novacula aveva voluto accendere era quasi piacevole, benché fosse già giugno. Spandeva nella stanza un tepore accogliente e una luce molto rassicurante.
 “Comunque sia – soggiunse la Contessa, che stava comoda sulla sedia che si solito spettava ai clienti della barberia – non posso certo liberarmi di mio marito come vorrebbe mio zio. Sempre che mio zio lo voglia davvero.”
 In effetti in Caterina era forte il dubbio che quella posizione così contraria a Giacomo non fosse più propria di Ludovico, quanto personale di Sfrondati, che aveva avuto già più di uno scontro verbale con il Governatore Generale.
 Se in un primo tempo il Moro si era scagliato contro l'amante della nipote, poi era stato lui in persona a crearlo cavaliere, dunque doveva aver cambiato idea su di lui almeno in parte.
 “Terrò sotto controllo la situazione, ma non penso che mio zio voglia davvero muoversi per eliminare Giacomo, ma se lo farà, saremo pronti.” concluse Caterina, proprio mentre suo marito entrava dalla porticina della casa del Novacula.
 Il giovane aveva sentito solo quell'ultima frase, ma non voleva dar a vedere quanto l'avesse scosso.
 Si limitò, quindi, a entrare, come nulla fosse e a dire alla moglie: “Ho recuperato dal fabbro i finimenti che aspettavi.” e alzò un borsone di cuoio in cui tintinnavano i nuovi acquisti: “Se vuoi possiamo andare.”
 Caterina, che aveva il sospetto di essere stata sentita dal marito mentre insinuava che forse il Moro lo voleva morto, si adeguò alla recita di Giacomo e, impassibile, gli sorrise, si alzò e si congedò dal barbiere-storico: “Grazie mille per tutto. Siete un vero amico, non smetterò mai di ripeterlo.”

   
 
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