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Autore: Audrey98    09/07/2016    0 recensioni
Amèlie e Roxane si sono trovate per caso, e per caso si sono salvate.
Dal capitolo I: "Ci mettemmo a ridere. Risatine sconnesse, ancora frastornate da quello che era accaduto una manciata di minuti prima. Sembrava tutto così surreale. Come se quegli istanti fossero racchiusi in una bolla di sapone. Non mi sembrava di averli realmente vissuti... Eppure."
Nella Parigi di oggi, due ragazze qualunque ma con un passato alle spalle si incontrano in circostanze inaspettate, e il Fato fa sì che i loro destini si intreccino, fino a diventare una cosa sola.
Condividendo gioie, dolori e passioni, le due impareranno che spesso nella vita un aiuto può arrivare nei momenti più inaspettati, e che accettarlo, fidandosi di qualcuno, può essere l'unico modo per salvarsi.
Piacere, sono Audrey e questa è la mia prima storia originale.
Non è niente di speciale, ma sono particolarmente affezionata ai personaggi. c:
Ho cercato di rendere l'ambientazione la più realistica possibile, facendo riferimento a luoghi realmente esistenti in quella bella città che è Parigi, e che io sento come seconda casa.
Spero che questa storia senza troppe pretese possa intrattenervi e, chissà, magari appassionarvi. ^_^
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
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“I lived a lot of different lives.

I’ve been different people, many times.”

Dal vivo.

 

Ogni mattina andavo a scuola in bicicletta. Non andare a scuola a piedi mi permetteva di alzarmi venti minuti dopo, cosa che, considerata la mia quantità media di ore di sonno, non era affatto disprezzabile. Al fondo di Rue Monge, però, c’era un piccolo e adorabile Starbucks, in cui amavo fare colazione e così, a volte, rinunciavo ai miei venti minuti per un muffin ai mirtilli e un caffè latte caldo al caramello. Avevo provato tante combinazioni, ma ero finita con l’eleggere quella come colazione migliore per iniziare una giornata di scuola, soprattutto considerato il pungente freddo parigino. 

Ad ogni modo, quella mattina mi svegliai con una forte emicrania. Non sapevo il motivo, ma immaginai a causa  della notte passata, durante la quale mi ero svegliata più volte e avevo avuto sogni agitati e convulsi, tanto quanto gli eventi della serata precedente. Mi tirai su a fatica, spegnendo la sveglia che continuava a pigolare come un pulcino isterico.

Percorsi Rue Monge con gli occhi semichiusi, a causa del vento che mi soffiava il suo freddo in pieno volto.

 Lasciata la bici fuori dallo Starbucks, entrai intirizzita e subito mi sentii meglio per il calore che emanava quel posto. Togliendomi i guanti e una cuffia dall’orecchio, mi avvicinai al bancone. C’erano due o tre persone davanti a me, così mi misi in coda, aspettando il mio turno. Controllando il cellulare, non mi accorsi neanche che, dietro al bancone, stava una ragazza esile, coi capelli corvini raccolti in una coda di cavallo e la carnagione pallida. Serviva i clienti con savoir-faire, come se facesse quel lavoro da tempo e avesse molta dimestichezza.

“Ciao, Amélie”. Sentì una voce chiamarmi da dietro al bancone. Alzai gli occhi e capì che quella ragazza che mi salutava, con una voce frammista tra la sorpresa e la felicità, era Roxane. 

“C- Ciao”, le risposi. Percepivo una sfumatura d'inquietudine nella sua voce, come se si stesse sforzando di non pensare, senza però troppo successo, alla sera precedente. Leggevo nei lineamenti del suo volto un accenno di curiosità, di voglia di parlarne. Ma, forse per mancanza di tempo, forse perchè non voleva sembrare troppo invadente, evitò l'argomento quella mattina. 

 Non l’avevo mai vista prima lì, specialmente nelle vesti di commessa, e la cosa mi lasciò alquanto interdetta. Le domande nacquero nella mia mente come funghi dopo una notte di pioggia.  Da quanto tempo lavorava lì? Se lavorava lì da molto tempo, come mai non l’avevo riconosciuta la sera prima? E se non io, come mai lei stessa non mi aveva fatto notare che mi vedeva tutte le mattine al cafè?

Probabilmente lei afferrò il mio spaesamento, perché, dopo che avevo sillabato l’ordine e pagato alla cassa, venne a sedersi al mio tavolo, dove sorseggiavo, forse un po’ troppo velocemente, il mio caffè latte.

“Non mi aspettavo di trovarti qui.” Le dissi, dopo alcuni secondi di silenzio che erano dovuti più alla mia lingua bruciata che all'imbarazzo. 

“Potrei dirti la stessa cosa.” rispose lei, puntuale nella sua ironia tanto affilata quanto piacevole.

Scoprii che lavorava lì stagionalmente, ma solo di pomeriggio, perché al mattino andava a scuola. Scoprii anche che le avevano chiesto di coprire un turno di mattina, e lei, non avendo lezione, aveva accettato. Ecco che aveva risposto a tutte le mie domande. Risposi alle sue dicendole che andavo sempre lì a fare colazione, ma non passavo mai di pomeriggio, perché studiavo a casa, o in biblioteca, e che la sera per la maggior parte delle volte ordinavo sushi al giapponese che stava sotto casa mia.

Scoprii anche qual’era la sua bevanda preferita, che odiava doversi legare i capelli e indossare quel ridicolo cappellino che faceva parte della divisa dei dipendenti, che però i colleghi erano tutti giovani e simpatici. Lei scoprii che amavo i muffin al mirtillo, che andavo a scuola al Lavoiser, e rise vedendo la mia espressione quando al nominarlo mi accorsi che ero in ritardo. Afferrai lo zaino.

“Ci rivedremo?” La guardai con occhi che esprimevano paura e desiderio. Non saprei dire desiderio di cosa esattamente, ma di  certo di qualcosa che comprendesse lei.

 “Sì”. Ne era certa. Il come, non saprei dirlo.

 

Uscii dal café e, rimontata in sella alla bici, raggiunsi il Lycèè Lavoiser, la mia scuola.

Rischiavo ad ogni curva di sfracellarmi al suolo, ma l’insegnante della prima ora non era tipa da tollerare i ritardatari, e dovevo ingraziarmela , o se non altro, non mettermela contro, essendo la professoressa di latino.

Non ero particolarmente portata per lo studio. Diciamo che rientravo nella media. Studiavamo materie classiche come il Latino, avevamo un ora in più di Francese, in quanto materia d’indirizzo, e Filosofia. Non sapevo cosa avrei fatto nella vita. Odiavo quando qualcuno  diceva: “Oh, sì, io sono sicuro che andrò a fare…” questo, questo e quell’altro: mi davano fastidio. Non si può certo dire che l’idea della totale incertezza di ciò che sarebbe accaduto mi confortasse, ma a volte mi piaceva lasciarmi trasportare dagli eventi, senza pensare. La capacità di pensare può essere frustrante a volte. Il pensiero continua a girare e rigirare su cose impossibili, su “e se fosse stato” o su “come sarebbe se”.

 Fatto sta, non avevo ancora deciso cosa fare dopo il liceo. Non pretendevo niente di che dalla vita, un piccolo appartamento pieno di libri, un lavoro che mi sarebbe potuto piacere, uno stipendio che mi avesse permesso di fare dei viaggi qualche volta.

Corsi per il corridoio. Era deserto, ad eccezione dei pochi strafottenti  che si attardavano a fumare nei corridoi.

 

La professoressa non mi fece entrare. Dovetti aspettare la campanella successiva.

Avevo ancora il fiatone quando, mollando lo zaino per terra, mi accasciai contro il muro. Ero struccata, assetata, e avevo già sonno. Fissai la finestra scorrevole davanti a me. Non c’era nessun altro nel corridoio, quindi mi avvicinai per rinfrescarmi. Aprii la finestra e fui accarezzata da un refolo di vento autunnale. Preferivo la primavera, però i primi giorni d’autunno erano ancora caldi e avvolgenti, e a scuola si faceva poco e niente. Passavo le giornate a guardare la TV o a leggere libri di poesie. Mi piacevano molto di più della prosa, non so spiegare perché. In seguito avrei cambiato opinione.

Sentii qualcosa che premeva contro la mia spalla destra. Mi girai, e vidi un ragazzo magro, alto, e con un accenno di barba.

“Hey. Sbattuta fuori anche tu?” chiese, con quel fare da sbruffone che mi dava sui nervi.

“No, sono solo arrivata in ritardo.” borbottai di rimando. Non mi piaceva essere presa per una di quei deficienti.

“Capito. Favorisci?” mi allungò il suo pacco di Camel.

“Grazie.” Dissi, accettando e facendogliela accendere. Nonostante non appoggiassi il loro atteggiamento a scuola, non rifiutavo mai una sigaretta, specialmente dopo una serata come quella precedente.

Mi sporsi anch’io dalla finestra. Il vento era di un freddo pungente, ma mi piaceva e, oltre a noi due, non c’era nessun’altro nel corridoio. Guardai gli alberi nel cortile ondeggiare e le foglie morte cadere per un po’. Sentivo una sorta di stordimento, come se fossi in cerca di qualcosa che continuava a sfuggirmi, e la mia esistenza fosse divenuta un continuo vagare.

“Come ti chiami?” chiese distraendomi dai miei pensieri.

“Amèlie… tu?”

“Bel nome. Andrè.” Era un bel nome anche il suo. Non ne conoscevo molti, ma erano sempre persone interessanti. Feci per dirglielo, quando la campanella suonò.

“Ci vediamo in giro.” disse facendo un cenno col capo. E si defilò.

Aspettai che la prof uscisse e collassai sul banco, già sfinita per le poche cose che erano successe quella mattina.

 

  
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