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Autore: Cioppys    09/07/2016    1 recensioni
[HanaRu]
Sbuffo. Ultimamente ho strani pensieri per la testa.
Dovrei essere felice per come mi stanno andando le cose – sono insieme alla persona che amo, riprenderò a giocare a basket – eppure è come se mancasse qualcosa, o che ci sia qualcosa di sbagliato. Ci sono momenti in cui mi sento tremendamente insoddisfatto, di tutto e di tutti, e fatico a capirne il motivo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Alla Luce del Sole
di Cioppys

 

Capitolo 5

Sono passati due giorni dalla chiacchierata con Mitsui, quando ricevo una sua telefonata.
«Il Gorilla è stato un osso duro da superare, ma alla fine sono riuscita a parlarle e ho organizzato un incontro per oggi pomeriggio» mi racconta attraverso il cordless, mentre sono sdraiato sul divano con le gambe a penzoloni oltre il bracciolo. «Sappi però che non le ho detto che ci sarai anche tu».
Con un colpo di reni mi tiro su a sedere, stringendo con foga la cornetta. «Non so se esultare o spaccarti nuovamente la dentiera!» rispondo, immaginando già la scena apocalittica di quando mi vedrà.
«Continua pure ad essere così ingrato» lo sento sbuffare. «Me le sto segnando tutte, scimmia, poi ti ripago con gli interessi!».
«Va bene, va bene!» lo fermo. «Dimmi dove e quando».
E così eccomi qui, al campetto vicino alla spiaggia dove ogni tanto io e Kaede ci alleniamo.
Ma, io dico, con tutti i luoghi che ci sono al mondo, proprio qui ci dovevamo incontrare? Non ho parole.
Sospiro pensando che a quest’ora avrei dovuto vedere proprio la Volpe per passare il pomeriggio insieme, come sempre. Quando l’ho chiamato per annullare l’uscita, non ho avuto il coraggio di dirgli che dovevo incontrare Haruko. Non volevo nasconderglielo, ma evitare che si preoccupasse: ancora adesso, se chiudo gli occhi, vedo lo sguardo gelido che mi puntò addosso quel giorno quando parlammo di lei. Non che raccontagli una bugia sia stato geniale, ma che potevo fare?
Guardo l’orologio spazientivo. E’ venti minuti che aspetto e ancora non si vedono. Dove cazzo sono finiti?
Ad un tratto sento un rumore famigliare. E’ lo strido di un freno di una bicicletta.
No, non può essere…
«Hana, ma che ci fai qui? Non dovevi andare da Yoei?».
Lo osservo smontare dal suo mezzo, vestito con la tuta nera dell’Adidas – la sua preferita – sotto il cappotto grigio. In spalla ha la sacca degli allenamenti: è impossibile non notare il rigonfiamento della palla da basket al suo interno. Proprio ora doveva venire a fare due tiri?
«Kaede?!» sussurro, nel panico più totale.
La scena apocalittica che immaginavo quella mattina muta con l’aggiunta della nuova variabile. Ed è terrificante.
Sto ancora cercando di elaborare un pensiero, che sia uno, quando il primo tassello del domino viene spinto.
«Ehi Sakuragi!» sento Mitsui chiamarmi. «Scusa se ti abbiamo fatto aspettare, ma sai, il Gorilla…» non termina la frase, notando la presenza di una quarta persona che no, non doveva proprio esserci.
Haruko, che non sembrava affatto sorpresa di vedermi, alla vista di Kaede impallidisce, e i suoi occhi si riempiono di lacrime. Di sicuro penserà che sono un’insensibile presentandomi con il ragazzo per cui la sto scaricando.
Ora ci manca solo che la Volpe pensi voglia rimettermi con lei e siamo a cavallo!
«Hana, che significa?» lo sento sibilare, con un tono che definire glaciale è troppo poco.
Basket? Da domani mi do’ all’ippica, forse è meglio.
Kaede mi fissa con una espressione così seria che sento le ginocchia cedere. Ma è il suo sguardo, ghiaccio puro, che mi inchioda sul posto impedendomi di accasciarmi a terra, oltre che di dire qualsiasi cosa di senso compiuto.
«Pensavo fossi sincero» continua, interpretando erroneamente il mio silenzio come una conferma ai suoi dubbi. «Ma sei libero di tornare da lei, se tanto ci tieni. Non parlarmi, non farti mai più vedere… hai capito do’aho?» conclude, quell’ultima parola che è quasi un ringhio.
Con un balzo, risale sulla bicicletta e si allontana, a tutta velocità. Ed è quando vedo la sua schiena sempre più piccola che qualcosa in me si spezza, svegliandomi da quello stato di catalessi. No, non può finire così.
«Kaede, aspetta!» lo chiamo, ma lui non mi sente o, peggio, non si ferma.
Sto per corrergli dietro quanto sento qualcuno aggrapparsi al mio braccio.
Mi volto e vedo Haruko che mi fissa con gli occhi gonfi di pianto e una espressione che non riesco a decifrare.
«Hanamichi, che cosa c’è tra voi due?» mi chiede, con le labbra che tremano ad ogni parola.
Con delicatezza la invito a lasciare la presa e le stringo le mani.
«Haruko, io…» mi sento un verme, ma è una cosa che devo fare, adesso. «Era proprio di questo che volevo parlarti: ho capito quali sono i miei veri sentimenti. Mi dispiace, ma non è te che amo».
Non attendo nemmeno una risposta: le lascio le dita e mi volto, lanciandomi all’inseguimento di Kaede.

Mi fermo davanti a casa sua con le mani sulle ginocchia, a riprendere fiato. Ho corso come un matto, tanto che il cuore sembra dover scoppiare da un momento all’altro. Faccio un ultimo profondo respiro ed entro nel vialetto, il cui cancello di ingresso è spalancato. La sua bicicletta è abbandonata a terra, a lato della porta, davanti a cui mi fermo titubante per un secondo prima di premere il pulsante del campanello. Lo sento oltre l’uscio e attendo, ma non ricevo risposta.
Rukawa mi aveva accennato che suo padre era via per lavoro e non sarebbe rientrato prima del week-end.
Riprovo una, due, tre volte, ma non cambia nulla.
Una terribile ansia inizia a salirmi dalla bocca dello stomaco. Inspiro profondamente e chiudo gli occhi, cercando di calmarmi. Se mi agito non risolverò il problema, anzi, conoscendo quanto sia impulsivo peggiorerò solo le cose.
Istintivamente poso la mano sulla maniglia e giro: è aperta. Entro chiedendo permesso, ma mi risponde solo il silenzio. Chiudo la porta alle mie spalle e mi avvio sulle scale. Qualche passo e sono davanti alla sua camera. “Magari sono fortunato” mi dico impugnando la maniglia, ma stavolta la porta è chiusa a chiave.
«Kaede, per favore, aprimi» sento la mia voce tremare. «Non è quello che pensi».
Attendo per dei minuti che sembrano giorni, ma lui non risponde e l’uscio rimane chiuso.
Gli occhi mi pizzicano mentre, sconsolato, mi appoggio con la schiena alla porta per poi lasciarmi scivolare a terra.
«Non ho nessuna intenzione di tornare con lei» dico, fissando il muro del corridoio davanti a me. «Mitchi mi ha aiutato a vederla proprio per dirle che non la amo, cosa che ho fatto prima di venire da te».
Sento un movimento, forse dei passi, o forse è solo frutto della mia immaginazione che vuole farmi credere che tutto si risolverà per il meglio, perché quella dannata porta continua a rimanere chiusa e lui non proferisce parola.
«Sono un idiota!» esclamo, appoggiando le braccia sulle ginocchia piegate e prendendomi il viso tra le mani. «Ti ho mentito, e per cosa poi? Perché non volevo che ti preoccupassi? Bell’idea, eh? Bella idea del cazzo!».
Quando le lacrime mi scorrono sulle guance, fatico a trattenere i singhiozzi. Mi sento così stupido, e tremendamente in colpa per non aver avuto fiducia nel ragazzo che amo. Perché si, è quello che provo. E l’idea di poterlo perdere per una cazzata simile mi sta dilaniando.
Sono così preso dal commiserare me stesso da non accorgermi di quello che accade intorno. Solo quando due braccia mi cingono il collo e un bacio si posa sotto il mio orecchio destro, noto che la porta si è aperta e Kaede è qui con me.
«Do’aho» sento sussurrare tra una carezza l’altra.
Io mi volto e cerco le sue labbra. Quando le trovo, approfondisco subito il contatto e sfioro la sua lingua con la mia. Lo stringo a me, con possesso, accarezzandogli la schiena. Nella foga di sentire di più il suo corpo contro il mio, lo spingo sul pavimento e io gli finisco sopra. Allontano quanto basta il mio viso dal suo per guardarlo e assicurarmi di non avergli fatto male, e rimango senza fiato: due occhi profondi mi scrutano con voglia ardente, quelle gote un po’ rosse dall’eccitazione e la bocca schiusa dall’affanno per la frenesia del momento.
Kami, quanto lo desidero!
Un calore immenso si sprigiona nel mio basso ventre e le mie mani agiscono da sole: con smania gli sfilo sia la felpa della tuta che la maglietta sotto, arrivando così a toccare quella pelle candida e morbida. La mia bocca scende dal collo fino al torace, dove mordicchia un capezzolo, facendo gemere Kaede sempre più forte. Le sue dita mi arpionano la base del collo, come a chiedermi di non fermarmi, e io lo accontento.
Quando torno ad assaporare la sua bocca, armeggio con il bordo dei pantaloni e inizio ad abbassarli. E’ a questo punto che una mano mi afferra il polso, bloccandomi. Lo guardo e nei suoi occhi scorgo il dubbio.
«Sei davvero convinto?» mi domanda, con affanno. «Posso aspettare se hai ancora bisogno di tempo».
Sorrido, felice che me lo abbia chiesto. «Non sono mai stato così convinto di qualcosa come adesso».

E’ mattino. Un raggio di sole filtra tra le tapparelle e mi illumina il viso, riscaldandolo. Apro gli occhi. Lentamente si abituano alla luce e inizio a distinguere le forme che mi circondano: la porta della stanza spalancata, un armadio a tre ante sul muro opposto con davanti abbandonata la sacca della palestra, poster di giocatori di basket appesi alle pareti, la scrivania sotto la finestra, a fianco del letto occidentale in cui sono supino. Non è la mia camera, e non sono solo.
Sul mio petto sta dormendo un angelo, il mio angelo.
Gli accarezzo quei capelli corvini morbidi come seta, arruffati dalla notte, mentre ripenso alla giornata appena trascorsa e alla sua conclusione. Un turbinio di emozioni mi assale: il cuore batte più forte, come impazzito, mentre sento le spalle irrigidirsi e mancarmi il fiato, tanto che mi sembra di soffocare. Sono agitato, come se la realtà di quello che è successo mi si presenti di colpo. Una consapevolezza così pesante che fatico a reggerne il peso.
Due braccia mi stringono forte.
Abbasso lo sguardo e incontro quelle splendide pupille blu che mi fissano intensamente.
Lo vedo incupirsi e sento i suoi muscoli tendersi. «Cos’hai?» mi chiede, circospetto.
«Nulla» rispondo, alla ricerca di quella pace interiore che però non trovo.
«Bugiardo» mi accusa, capendo meglio di me il problema. «Avevi detto di essere convinto».
«Lo ero!» esclamo. «E lo sono!» aggiungo, cercando di abbracciarlo.
Lui si scosta da me e si allontana, bloccandosi con una smorfia evidente di dolore che tenta di nascondermi. Nel movimento dei nostri corpi, le coperte si spostano rivelando il lenzuolo sottostante macchiato di sangue.
Sgrano gli occhi. Il solo pensiero di avergli fatto del male mi spezza il cuore.
Gli afferro il viso e chiudo la mia bocca sulla sua, in un bacio appassionato.
«Ti amo Kaede» gli sussurro a fior di labbra, quando ci separiamo. «Non dubitarne, mai».
Lui è esterrefatto, ma molto confuso. «E allora qual è il problema?» domanda, quasi supplicandomi una risposta.
Io trattengo il respiro. «Ho paura» mormoro, intimorito dalle mie stesse parole.
Mi guarda ma non capisce. Sospiro, facendo combaciare le nostre fronti.
«Non ho mai provato un sentimento simile, così profondo, intenso» gli spiego. «E vorrei tanto poterlo condividere con il mondo intero, con serenità, senza dovermi…» la vergogna non mi permette di finire la frase.
Per fortuna lui comprende il senso del discorso. «Preoccupare del giudizio degli altri?» conclude per me.
Io annuisco.
«Do’aho».
Spalanco la bocca. «Stupida Volpe!» esclamo, irritato. «Perché continui a darmi dell’idiota?!».
«Perché lo sei» risponde Kaede, avvicinando le labbra alle mie. «Sei il mio do’aho e ti amo, anche per questo».
Mi lascio travolgere dalla passione con cui mi bacia, ma non passa molto che il desiderio di ricambiarlo e avere di più prende il sopravvento. Lo stringo con forza, forse troppa, perché il suo corpo si irrigidisce. Gli lancio un’occhiata e capisco che qualcosa non va. E’ allora che mi ricordo del lenzuolo.
«Come stai?» gli chiedo, prendendogli il volto tra le mani e accarezzandolo. «Fisicamente intendo».
«Sto bene» risponde, evitando il mio sguardo, e io so che sta mentendo.
Faccio per protestare, ma lui mi posa un dito sulle labbra.
«Davvero, Hana, non ti preoccupare».
Non è un’espressione seria o gelida a convincermi, ma il sorriso più bello che abbia mai visto.
Ci sdraiamo e Kaede si chiude nel mio abbraccio, appoggiando la schiena al mio petto. Io copro entrambi con la coperta, poi affondo la testa nei suoi capelli e inspiro: mi solleticano il naso, ma hanno un profumo così buono. Lentamente i nostri respiri si regolarizzano e, convinto che lui sia già nel mondo dei sogni, socchiudo gli occhi e mi rilasso, pronto per raggiungerlo.
E’ allora che, con mia sorpresa, mi pone una domanda.
«Che giorno è oggi?» sussurra, già mezzo addormentato.
Io soffoco uno sbadiglio. «Dovrebbe essere il 10, perché?».
Uno strano prurito si diffonde tra le mie scapole, come se dovessi ricordarmi di qualcosa.
«Cazzo!» esclamo, coprendo la voce di Kaede che, nello stesso momento, dice: «La scuola!».
Eh si, purtroppo oggi riprendono le lezioni.
Ci alziamo dal letto, vestendoci in fretta e furia. Neanche dieci minuti dopo siamo già fuori dalla porta di casa.
E’ qui che mi rendo conto di non avere con me nulla: né la cartella, né la borsa degli allenamenti per il pomeriggio. Kaede, inoltre, mi fa notare che non indosso nemmeno la divisa. Siamo così costretti ad allungare il giro e passare da casa mia. Nonostante la bicicletta, arriviamo che la campanella è già suonata da un pezzo. Da una parte però è meglio così: se qualcuno ci avesse visto frecciare su quel mezzo insieme, penserebbe di avere un’allucinazione.
Entriamo nell’atrio e cambiamo le scarpe, per poi salire i gradini che ci portano al secondo piano.
«Ci vediamo a pranzo in terrazza» mi saluta, sfiorandomi la mano con la sua.
Vorrei tanto afferrarla, tirarmelo addosso e baciarlo, ma la paura di essere visti frena l’impulso. Rimango immobile ad osservarlo: raggiunge la sua classe, in fondo al corridoio, e vi entra. Con un sospiro, varco la porta della mia.
Il professore mi squadra dalla testa ai piedi, rimproverandomi di essere arrivato in ritardo anche il primo giorno di scuola dopo le vacanze e mi inviata ad accomodarmi al mio posto, l’ultimo banco della fila vicino alla finestra.
Faccio un cenno di saluto quando passo a fianco di Yohei, ma l’occhiata gelida che ottengo in risposta mi blocca.
Un cancellino vola per l’aula e finisce la sua corsa sulla mia testa.
«Sakuragi! Vogliamo sbrigarci?» mi intima il professore, alquanto scocciato.
Arrivo al mio banco e mi siedo, ma non riesco a togliermi dalla testa quello sguardo. Sono spiazzato da questo suo atteggiamento. E’ vero che, da capodanno, non sono più uscito con lui e il resto della banca essendo sempre in compagnia della Volpe. L’ultima volta che l’ho sentito è stato per telefono qualche giorno fa, e gli promisi che gli avrei parlato appena ci saremmo visti. Non mi sembrava corretto aggiornarlo su novità così importanti, se non di persona.
Le lezioni trascorrono noiose come sempre. Fatico a trattenere gli sbadigli che, sempre più spesso, allargano la mia bocca. Dovrei fare come qualcuno di mia conoscenza: appoggiare la testa sul banco e dormire.
«Sakuragi!» urla il professore dell’ultima ora. «Si può sapere cosa c’è di così divertente nella mia lezione?».
Il riflesso della finestra mi restituisce il mio volto con un sorriso ebete sulle labbra.
Fortuna vuole che arrivi la campanella in mio soccorso.
Tutti si alzano e io mi avvicino a Yohei, il quale esce dalla classe senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.
Ok. Che cazzo sta succedendo?
Lo seguo. «Ehi, Yohei! Ti devo parlare!» urlo, attirando la sua attenzione.
«Io e te non abbiamo niente da dirci» risponde, a testa china, prima di voltarsi e andarsene.
Io rimango come un deficiente, fermo in mezzo al corridoio, a fissare il mio migliore amico allontanarsi.
Ho sempre pensato che se c’era una persona su cui potevo contare, con cui confidarmi, quella fosse Yohei. Lo conosco da una vita, siamo praticamente cresciuti insieme. Non credevo che qualcosa potesse intaccare la nostra amicizia, eppure è successo, solo non capisco cosa.
Con passo malinconico, imbocco le scale verso la terrazza dove Kaede mi aspetta. Certo, non è proprio stagione per stare all’aperto, e di sicuro non ci sarà nessuno oltre a noi due, il che non mi dispiace affatto: potremmo trascorre del tempo insieme, senza dover fingere di odiarci. E poi, un po’ di aria fresca mi aiuterà a schiarirmi le idee.
Arrivo alla porta e la spalanco, ritrovandomi davanti una scena che mi ghiaccia il sangue nelle vene.
Yohei, il mio migliore amico, tiene con rabbia il colletto della divisa di un contuso Kaede, il mio ragazzo.
Il primo si volta e, quando mi vede, spalanca gli occhi, allontanandosi subito dal secondo di qualche passo. Questi, libero dalla presa e senza alcun sostegno, si accascia al suolo: con un colpo di tosse, sputa alcune gocce di sangue sul pavimento. Preoccupato, mi precipito in ginocchio davanti a lui e gli poso entrambe le mani sulle spalle per sorreggerlo. Ma è la rabbia che, dalla bocca dello stomaco, mi sale implacabile.
«Yohei! Spiegami cosa cazzo stavi facendo?!» urlo, voltandomi.
Lui però non c’è. Se n’è andato.
Riporto la mia attenzione su Kaede: la sua bocca è piegata da una smorfia, gli occhi sono contratti dal dolore e tiene stretto il braccio destro al petto, sorreggendolo con l’altra mano. Gli chiedo dove gli fa male ma non mi risponde. Una strana angoscia mista a panico mi travolge, serrandomi la bocca. In silenzio, lo aiuto ad alzarsi e lo accompagno in infermeria, dove veniamo subissati di domande sull’accaduto. Mentre la Volpe rimane chiusa nel suo mutismo, io racconto di averlo trovato conciato così da solo sul terrazzo, evitando di fare il nome di Yohei.
Non voglio metterlo nei guai, non prima di averci parlato e chiarito questo casino.
Alla fine l’infermiera demorde e si concentra sulle ferite di Kaede, invitandomi a uscire e aspettare in corridoio.
Prima di chiudere la porta, lancio un ultimo sguardo al bel ragazzo dai capelli corvini seduto sul lettino, a cui, ora dopo ora, mi sento sempre più strettamente legato.

Continua

 

  
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