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Autore: Adeia Di Elferas    11/07/2016    3 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Ascanio Sforza, che indossava gli abiti da notte, vista la tarda ora, aprì la porta, riconoscendo la voce del Cardinale Borja. Un po' se l'aspettava, quella visita.
 “Cosa vi porta qui?” chiese il milanese, accedendo un paio di candele in più, per poter guardare meglio lo spagnolo.
 Questi, che non sembrava per nulla provato dalla notte che stava trascorrendo in bianco vagando da una stanzetta all'altra, non diede risposta e chiese tacitamente il permesso di sedersi sullo sgabello.
 Mentre Rodrigo si sistemava l'ampio gonnellone porpora sulle gambe, Ascanio si sistemò sulla sedia. Certo non gli sfuggì come lo spagnolo avesse scelto per sé la sistemazione più umile e scomoda, tanto per ingraziarselo.
 “Allora, Borja, di che stiamo parlando?” domandò lo Sforza, cominciando ad agitarsi.
 “Parliamo di Napoli e Milano e dello scontro che le porterà a distruggersi – inizio Rodrigo, con una calma quasi irritante, vista la serietà dell'argomento – e dell'uomo che potrebbe permettere a una delle due parti di prevalere sull'altra ancor prima di sparare un colpo di bombarda.”
 Ascanio si mise e mani in grembo e provò a dire: “Immagino che quell'uomo sareste voi.”
 Rodrigo si esibì in uno dei suoi sorrisetti scaltri e accattivanti, colmi di quella falsa modestia che tanto faceva innervosire il suo interlocutore: “Diciamo che con un papa amico, Milano avrebbe solo da guadagnare e, parliamoci chiaro, mio caro Sforza... Il vostro Carafa non sarebbe per nulla in grado di difendervi. Sarà anche un napoletano rinnegato, ma alla fine i partenopei seguono sempre il richiamo della loro terra.”
 Il Cardinale Sforza restò in silenzio, impaziente, ormai, di sentire quello che lo spagnolo aveva da dire. Di una cosa era sicuro: il suo voto e quello dei suoi piccoli elettori gli dovevano servire, altrimenti non si sarebbe preso il disturbo di passare anche da lui.
 “Prima di tutto, quando sarò papa – iniziò Rodrigo, fermandosi un momento e guardando in modo penetrante lo Sforza – perché lo sarò, non temiate. Se sono venuto qui, l'ho fatto solo perché ci tengo all'amicizia dei milanesi.” precisò, come se avesse letto nel pensiero di Ascanio: “Dicevo, quando sarò papa, avrò bisogno di un vicecancelliere fidato, che sappia il fatto suo. Qualcuno come voi.”
 Ascanio restò un po' sorpreso da quell'offerta. Si era convinto che con qualche gioco di palazzo Rodrigo Borja sarebbe riuscito a dare subito quella carica a suo figlio Cesare, quello che aveva velleità religiose. O almeno, quello che lo spagnolo aveva fatto entrare negli ingranaggi della Chiesa.
 A pensarci, il destino che aveva avuto quel ragazzo era a tratti comico, a tratti tragico. Quando era in vita il suo fratello maggiore, quello che il Borja aveva avuto da un'altra donna, da una spagnola, forse, a quello era andato il feudo principale della famiglia, al secondo sarebbe spettata la vita militare e al terzo l'ecclesiastica. Morendo Pedro Luìs, Cesare avrebbe dovuto prendere il suo posto, e invece il papa stava investendo tutte le sue speranze nel bellissimo Juan, quello che forse – a detta dello stesso Rodrigo – non era nemmeno figlio suo.
 “La carica di vicecancelliere è interessante – disse Ascanio, ostentando sicurezza – ma anche Carafa me la offre, dunque...” finse di volersi alzare per chiudere la questione, ma Rodrigo andò avanti per la sua strada esattamente come se il milanese non avesse aperto bocca.
 “Per onorare il vostro valore, vi spetterebbe anche il castello di Nepi e il vescovado di Agria e stiamo parlando di diecimila ducati l'anno.” il sorriso era sparito dal viso dello spagnolo, lasciando il posto a una ruga molto profonda a lato della bocca, segno inequivocabile del dispiacere che lo spagnolo provava nel promettere tante ricchezze allo Sforza.
 “Inoltre – riprese subito Rodrigo – i miei figli aspettano fuori dal Vaticano con quattro muli carichi d'argento e oro e basterà un mio cenno per far sì che il carico arrivi dritto dritto nei vostri appartamenti.”
 La fame di ricchezze di Ascanio era ormai nota ai più. Benché non fosse sregolato come Giuliano Della Rovere o frivolo come Raffaele Sansoni Riario, anche lo Sforza non scherzava in quanto a spese superflue e suo fratello Ludovico il Moro sembrava avergli tagliato quei pochi fondi che invece fino a qualche anno prima gli permettevano di arrotondare le già ingenti entrate di cui si vantava in quanto Cardinale.
 “Questi però sono tutti favori personali.” notò Ascanio, resistendo all'impulso di accettare sui due piedi.
 Le spalle di Rodrigo ebbero un impercettibile tremito e si abbassarono di mezzo centimetro: “Che vorreste in più?”
 “Non appena sarete papa, sarebbe troppo facile, per voi, voltare le spalle a Milano e favorire Napoli. Non posso sapere che accordi abbiate con Ferrante e coi suoi Cardinali e Vescovi.” Ascanio si era fatto forte della reazione un po' sorpresa dello spagnolo che non si era aspettato una simile resistenza: “Sono nato Sforza e resto uno Sforza. Non posso dimenticare le mie origini e non voglio farlo, dunque devo pensare anche ai miei parenti. Voglio qualcosa che leghi la mia famiglia alla vostra, qualcosa che vi obblighi a favorire Milano per il bene del vostro stesso sangue.”
 A Rodrigo mancò per un istante la terra sotto ai piedi. Certo, portare il nome Sforza in famiglia sarebbe stato un bel colpo, ma fino a che punto? Quanto sarebbe durata, la parabola dei milanesi, ora che il quadro italiano andava ricostruendosi con nuovi equilibri e nuovi poteri?
 E poi, Juan aveva già segnato un futuro in Spagna, al posto del suo defunto fratello Pedro Luìs, mentre Cesare sarebbe stato un principe della Chiesa. Jofré, poi, era troppo piccolo per un compromesso di matrimonio...
 “Vostra figlia Lucrecia ha già tredici anni, no?” fece Ascanio, insinuante.
 “Dodici.” lo corresse subito Rodrigo mentre la luce delle candele cominciava a sembrargli troppo forte e troppo calda, tanto da farlo sudare copiosamente.
 “Ecco. Le troveremo uno Sforza adatto a lei e in capo a un anno li faremo sposare.” propose Ascanio, che aveva già in mente un parente perfetto per quel compito ingrato.
 Infatti, per quanto la giovanissima Lucrecia fosse già di una bellezza disumana, con occhi incantevoli e indagatori e capelli di una tonalità di biondo difficile da trovare tra le nobili italiane, imparentarsi in modo tanto diretto con la tribù dei Borja non era un compito facile. Se Rodrigo fosse diventato papa e, come diceva lui stesso, lo sarebbe diventato di sicuro, Roma sarebbe stata invasa dai Borja e sarebbero stati l'uno più pericoloso dell'altro.
 “Potrei anche accettare.” soppesò Rodrigo, mentre il suo pensiero correva alla sua figlia prediletta: “Però voglio la garanzia che anche i piccoli elettori fedeli a Milano sosterranno la mia candidatura.”
 Ascanio annuì e chiese: “Che garanzie mi date per la vostra buonafede?” Rodrigo si affrettò a prendere dal tavolo del milanese un pezzo di pergamena e scrisse rapidamente una promessa d'impegno.
 “Non mi chiedete garanzie?” domandò lo Sforza, prendendo il pezzo di pergamena con somma soddisfazione.
 “Mi basta la vostra vita, come garanzia.” ribatté Rodrigo, senza più la minima traccia dell'accomodante accento usato fino a poco prima.
 Ascanio si passò inconsciamente due dita sul collo, deglutendo a fatica per via della bocca secca, ma riuscì comunque a simulare una certa calma, quando si congedò dal Cardinale Borja: “A domani, Vostra Santità.”

 Caterina aveva passato la notte pressoché insonne. Giacomo dormiva beato nel loro letto, immerso tra i cuscini, l'ampia schiena che si muoveva a ritmo del suo respiro e qualche ciocca scura di capelli che gli copriva in parte il viso.
 La Contessa, invece, stava passando al vaglio le lettere che le sue spie erano riuscite a mandarle da Roma. Per quel che ne sapeva, non c'era ancora stata una fumata del colore giusto e le posizioni, in quei primi giorni di conclave, sembravano ferme, ma poco utili ai fini di una vera elezione.
 Suo zio Ascanio parteggiava per Carafa, il cugino del suo defunto marito, Giuliano, propendeva per il vecchissimo portoghese Costa. Era facile per lei capire le motivazioni di quelle scelte. Il primo voleva un napoletano rinnegato solo per far capire che Milano avrebbe piegato chiunque, anche se probabilmente alla votazione decisiva avrebbe optato per qualcuno di più forte e deciso, rispetto al tremulo Carafa. Giuliano, invece, voleva guadagnare qualche mese, magari un paio d'anni, per poi arrivare a un nuovo conclave e proporsi come unica alternativa al soglio pontificio.
 Giacomo sbuffò nel sonno, forse preda di qualche sogno particolarmente agitato e si rivoltò tra le coperte, rischiando quasi di cadere dal letto.
 Caterina, che stava alla luce di una piccola candela, non riusciva a capire come facesse lui a dormire a quel modo in quella notte così importante. Forse era lei che si agitava troppo per qualcosa che stava accadendo a Roma, una città così lontana dalla sua Forlì...
 O forse, più facilmente capiva l'importanza di quello che stava succedendo e il ricordo dell'ultimo conclave ancora la scuoteva dalle fondamenta. Alla morte di Sisto IV lei aveva avuto in mano Roma, aveva i cannoni puntati sul Vaticano, avrebbe potuto chiudere la partita facendo eleggere un papa a lei gradito. Invece Girolamo Riario, la palla di ferro che il fato le aveva legato al piede, aveva rovinato tutto quanto.
 Ripensare al suo primo marito le mise nel petto una sensazione orribile, come una lama di ghiaccio, che le toglieva il respiro. Erano ancora parecchi e inattesi, i momenti in cui lo spettro di Girolamo la tormentava. Accadeva all'improvviso, mentre pensava ad altro o mentre era sola e tutte le volte doveva sforzarsi di ricordare che ora al suo fianco c'era Giacomo e che Girolamo non poteva più farle del male.
 Come a voler rafforzare questa convinzione, Caterina spense con un soffio la candela, decidendosi a lasciar stare le lettere delle sue spie, e raggiunse suo marito nel letto.
 Si accoccolò al suo fianco e, mentre lui si risvegliava e la stringeva a sé, chiedendole: “Stavi ancora leggendo quelle lettere...?” fece del suo meglio per scacciare dalla sua mente tutte le ombre.
 Anche se la prima intenzione della Contessa era stata quella di mettersi a letto per provare a dormire, la vicinanza del marito aveva avuto come unico effetto quello di risvegliarla ancora di più.
 Le braccia di Giacomo la tenevano con forza, come per non farla scappare, ma Caterina non lasciò il marito libero di riaddormentarsi.
 Era troppo in ansia per prendere sonno, dunque permise che la fame bruciante che provava ancora per quel giovane, non ostante fossero già passati circa quattro anni dall'inizio della loro storia, la guidasse anche in quella notte d'attesa.
 E Giacomo, come di consueto, non si fece pregare e la seguì senza problema alcuno.
 
 I movimenti notturni di Rodrigo Borja non passarono inosservati nemmeno presso quelli che non erano stati contattati di persona.
 Domenico Della Rovere, colto da un improvviso sprazzo di affetto familiare, si strinse nel camicione da notte e andò a bussare febbrilmente alla porta di Giuliano Della Rovere. L'uomo, che era sveglio per la tensione del momento, aprì immediatamente e accolse le chiacchiere del parente con un laccio che si stringeva alla bocca dello stomaco.
 A occhio e croce, se quello che Domenico diceva era tutto vero, lo spagnolo aveva già dalla sua almeno sedici, probabilmente diciassette voti, oltre il minimo necessario per essere eletto.
 Giuliano ringraziò Domenico e gli consigliò di riposare, per quel poco che restava della notte, aggiungendo che ormai i giochi erano fatti, tanto valeva smettere di darsi pena.
 Tuttavia, non appena fu di nuovo solo, Giuliano non perse tempo: si vestì di tutto punto e andò dritto e filato da Rodrigo Borja, sperando di trovarlo in tempo.
 Lo spagnolo drizzò le orecchie, nel sentire la voce di Giuliano Della Rovere fuori dalla sua porta.
 Senza farsi pregare troppo, Rodrigo andò ad aprire e, ben prima che potesse chiedere che mai avesse condotto il Cardinale Della Rovere lì, Giuliano minacciò: “Voglio anche io il mio compenso, o vi accuserò di simonia ben prima che la votazione sia conclusa.”
 “E con che prove?” chiese Rodrigo, che non aveva calcolato quel pericolo macroscopico, essendosi concentrato troppo sui dettagli.
 “Credete davvero che i Cardinali esclusi dai vostri giochi non noteranno le improvvise ricchezze dei loro fratelli in Cristo?” chiese Giuliano, alzando con scetticismo le sopracciglia: “Io non credo. Ma sono influente e potrei convincerli che quelle investiture e quei palazzi nulla c'entrano con la vostra elezione...”
 “Qual è il vostro prezzo?” chiese Rodrigo, assumendo il tono pratico che avevano avuto i suoi antenati nel trattare gli affari che li avevano resi una famiglia potente e ricchissima.
 “Molto alto.” rispose Giuliano, con un sorrisetto, sapendo di poter chiedere qualunque cosa.

 La mattina dell'11 agosto, in un clima immobile e assonnato, Rodrigo Borja era consapevole di essere a un passo dal fare la Storia.
 Non gli importava se alla fine aveva dovuto cedere al Della Rovere un'abbazia, la delegazione di Avignone e varie rendite di cui non ricordava nemmeno più l'importo. L'unica concessione che gli bruciava davvero era la rocca di Ronciglione che, assieme alla carica del Della Rovere, ovvero il cardinalato di San Pietro in Vincoli, rendeva Giuliano un possibile problema futuro. Avrebbe potuto tenere strettamente d'occhio Rodrigo e con la sua spregiudicatezza non si sarebbe di certo fatto scrupoli a sfruttare il suo ruolo privilegiato.
 La quarta votazione stava per cominciare e Rodrigo passava in mezzo agli altri porporati con aria fintamente dimessa, salutando tutti in modo cordiale, ma umile, quasi da penitente.
 Ascanio Sforza gli lanciò uno sguardo d'intesa, a indicare che tutto era sistemato e, in modo più discreto, anche Giuliano Della rovere fece intendere allo spagnolo che i suoi piccoli elettori erano pronti a votare per la persona giusta.
 Quando fu il momento di dare il proprio voto, Rodrigo si sentì in vena di fare lo splendido. Non voleva essere tacciato di aver votato per se stesso, perciò sulla pergamena scrisse: Oliviero Carafa.
 Il vociare sommesso e continuo che aveva caratterizzato i primi tre ballottaggi era venuto del tutto meno quel mattino. Forse per l'ora quasi antelucana, forse perché tutti quanti nel profondo conoscevano già quale sarebbe stato l'esito dello spoglio, i porporati parlavano pochissimo e a voce tanto bassa da essere appena udibili.
 Lo scrutinio non sorprese nessuno. Rodrigo Borja vinse con un plebiscito praticamente perfetto. Tutti i voti erano per lui, tranne il suo, che era andato a Carafa.
 Essendo proprio Rodrigo il Decano di quel conclave, le domande di rito spettarono al Vicedecano, che era proprio Oliviero Carafa.
 “Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Ponteficem?” chiese Carafa, la voce appena tremula, ancora incredulo di aver egli stesso votato per quella serpe nascosta dalle buone maniere e dal facile sorriso.
 Rodrigo accettò immediatamente.
 “Quo nomine vis vocari?” domandò allora Carafa.
 Tutto il conclave era curioso di sapere che nome Borja avrebbe scelto. Quello del suo predecessore? Quello del suo antenato, che era stato papa Callisto III? Oppure avrebbe scelto qualcosa di completamente diverso?
 “Alexander.” rispose Rodrigo, gonfiando il petto e guardando Carafa con aria di sfida.
 Il Vicedecano non comprese il motivo di quell'atteggiamento, ma accettò il nome come legittimo e diede ordine di andare a bruciare le schede, in modo tale che anche i romani sapessero che il mondo aveva un nuovo sovrano: Alessandro VI.
 Mentre Rodrigo Borja veniva portato alla Stanza delle Lacrime, per essere vestito coi paramenti sacri, Giuliano Della Rovere riuscì a intercettare lo spagnolo e sussurrargli: “Scelta molto curiosa.”
 Il nuovo papa guardò il Cardinale, ben comprendendo come il pensiero dell'uomo fosse corso ad Alessandro V, un papa vissuto in tempi burrascosi, forse nemmeno un papa legittimo, e così si sentì in dovere di spiegare il motivo della sua scelta, tanto per non essere frainteso: “Quale nome migliore, per me, se non quello del più grande imperatore del mondo: Alessandro Magno?”
 Giuliano restò basito da una simile affermazione, bloccandosi sui due piedi, mentre Alessandro VI riprendeva il suo cammino verso la Stanza delle Lacrime, raccogliendo le congratulazioni più o meno sincere di tutti i suoi grandi e piccoli elettori.
 Con le sue nuove vesti da re, Alessandro VI si prestò docilmente a tutte le consuetudini, dal salire in cattedra, al leggere il Vangelo, fino a farsi baciare l'anello da tutti i presenti, mentre veniva intonato il Te Deum.
 Il nuovo papa provò un piacere indicibile nel vedere uomini come Giuliano Della Rovere e Ascanio Sforza inchinarsi davanti a lui per rendergli omaggio. Il vecchio Costa si inginocchiò a fatica, come anche Gherardi e Conti. Giovanni Battista Savelli fu il più frettoloso, mentre il sedicenne Giovanni Medici quasi tremava dalla soggezione.
 Alessandro VI era raggiante, tanto luminoso quanto il sole stesso. Il suo profilo importante e il suo sguardo scuro gli davano anche quel che di autoritario che era completamente mancato al suo predecessore e tanto bastava a incutere un certo timore nei porporati meno potenti.
 Non vedeva l'ora di far entrare trionfalmente i suoi figli in Vaticano. Ora non erano più solo i figli del Cardinal Borja, ma i figli del papa Alessandro VI.

 Era ancora molto presto quando il risultato di quella votazione lampo venne reso noto anche ai cittadini di Roma.
 I pochi presenti in piazza osservarono i mattoni della finestra murata cadere uno dopo l'altro ed esultarono, ancora ignari, quando il protodiacono annunciò con tutto il suo fiato che il nuovo papa era stato eletto e che: “Sibi nomen imposuit: Alexandrum!”
 Alessandro VI, gli occhi che brillavano nel primo sole dell'11 agosto 1492, si lasciò precedere dalla croce e poi si affacciò, porgendo la benedizione urbi et orbi con il trionfo di chi, dopo una vita passata a tramare nell'ombra, ha finalmente creato il suo impero.

   
 
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