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Autore: LaCantastorie    12/07/2016    1 recensioni
[Rosmunda (Sem Benelli)]
Italia, all'incirca 1500 anni fa. Un dramma si consuma nel breve spazio di un lustro: è una storia tra le storie, quella di Rosmunda, e come tale divenne e diviene materia d'arte - e di letteratura. Da Ruccellai ad Alfieri, essa ha avuto molteplici interpreti, voci certo più autorevoli della mia: ma se non si leva alta, a turbare l'armonia, una timida nota in più non fa del male.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dunque, era così che si sentiva un regicida: impotente, nonostante avesse appena ucciso uno degli individui più potenti di tutta la penisola...
«Allora?»
Peredeo si accorse di essersi fermato poco oltre l’ingresso del palazzo, sotto la volta stellata: forse qualcosa, in quel cielo distante ma testimone di ogni empietà che si commetteva in terra, l’aveva bloccato a metà di un passo, senza un perchè.
Il grido spazientito della sua ricattatrice, incurante della quiete e dell’ovattato silenzio che li circondava, fendette nuovamente l’aria della notte, che ormai digradava verso l'alba. 
Dovrebbe esserci più veleno, in questa voce, pensò l'uomo, sollevando il pugnale all’indirizzo di Rosmunda una volta arrivato a pochi metri di distanza dal convoglio. La regina tese una mano verso l’arma, afferrandola prima ancora che Peredeo gliela porgesse: fece scorrere l’indice nella scanalatura della lama, raccogliendo il sangue del defunto re.
«È l’unica bevanda che desideravo da tempo», sussurrò, prima di portarsi il dito alle labbra: «Eri il guardiano della sua stanza da letto: hai svolto eccelsamente il tuo compito, non trovi?»
La regina si concesse un sorriso sardonico, completamente privo di gioia: l’aver ucciso Alboino le aveva tolto un marito violento e tracotante, ma non le aveva restituito né il padre, né il proprio popolo, né tantomeno la libertà.
«Non ho, come non avevo, nessuna ambizione: mia regina, voi mi avete costretto a spargere il sangue del mio re, minacciando di porre fine alla mia vita se non vi avessi accontentata; voler rimanere a questo mondo è stata la mia unica colpa», ribattè, parlando a bassa voce: «A voi toccherà fare i conti con le vostre».
Quella donna aveva finito per somigliare al suo sanguinario consorte: ne aveva biasimato e al tempo stesso imitato il comportamento, era stata, da vittima, migliore del suo carnefice; da carnefice, si rivelava peggiore della propria vittima. 
L’espressione irridente di Rosmunda sfiorì d'un tratto: gettò da parte il pugnale, distogliendo l’attenzione dalla guardia di Alboino e salendo in fretta sul cocchio: «Partiamo», ordinò.
Ravenna li stava aspettando.
-
 
Era stato più facile del previsto, farsi accogliere dal Prefetto: era bastato inviargli l’anello del re, per ottenere udienza.
«E così, voi siete la donna alla quale dobbiamo la possibilità di ottenere la pace con i Longobardi...»
Longino camminò in cerchio intorno a lei, fermandosi esattamente alle sue spalle: se si fosse voltata, Rosmunda avrebbe dimostrato di non fidarsi di quell’uomo, di avere qualcosa da nascondere. Continuò perciò a guardare davanti a sé, rispondendo alle domande del governatore romano sullo spatharius di Alboino, sulle consuetudini del suo popolo in merito alla successione, soddisfacendo la sua sfrenata curiosità; con sicurezza, riferì il mito fondativo della civiltà longobarda, portando prove su prove a favore della totale legittimità di Elmichi, sovrano in quanto suo sposo...
«Aspettate.»
Le mani di Longino si posarono sulle sue spalle: questa volta la donna reclinò il capo ad osservarne una, senza sollevare il viso verso l’alto. Aveva già intuito che cosa le avrebbe chiesto quell’uomo, sin da quando aveva visto con quanta bramosia aveva sollevato il forziere ricolmo di ricchezze: ufficialmente "sotto la sua protezione", erano in realtà un suo possesso.
Aveva lasciato l’ira per incontrare l’avidità.
«Essere congiunti con voi significa ereditare il regno: mi state dicendo questo, Rosmunda?»
Il prefetto le prese la mano, sorridendole: «Siete una donna savia, mia cara ospite: avrete già intuito che non posso avere garanzia certa della buona riuscita di quest’accordo, non conoscendo il vostro consorte... Se, ecco, io fossi l’uomo in questione, invece, tutto sarebbe infinitamente più semplice, non trovate?»
Annuire non le riuscì mai tanto semplice.


Aveva detto ad Elmichi di volersi purificare dalla violenta dipartita di Alboino, prima di concedersi a lui: in realtà, qualcosa la portava a rifuggire il letto nuziale, ad allontanarsi dall’unico uomo che mai l’avesse... rispettata.
Come Alboino, anche Longino l’avrebbe semplicemente usata: non si aspettava null'altro, da chi era interessato al potere. Elmichi era diverso: aveva accettato di diventare re del suo popolo perché credeva di poterlo governare con giustizia, di poterlo guidare verso la coesistenza pacifica con i bizantini, perché sognava la tranquillità di cui al seguito di Alboino nessuno aveva potuto godere. Non era un vero uomo: era ancora un infante, un bambino che pensava fosse sufficiente una parola per cambiare la natura di un intero popolo.
Fieri e indomabili, i Longobardi non erano stati messi in riga nemmeno da Narsete: che cosa pensava di poter fare, uno scudiero?
Uccidendo Elmichi e sposando Longino, avrebbe dato un re romano alla sua gente: avrebbe rafforzato le pretese dell’Oriente verso i domini longobardi, di fatto incapaci di raccogliersi sotto un unico, nuovo re, nelle condizioni in cui erano stati lasciati. Divisi, allo sbaraglio, sarebbero diventati un vicino meno pericoloso per Ravenna e gli altri domini di Costantinopoli: tutto grazie a lei, Rosmunda.
«Sai, pensavo... Che sarei stato più felice».
La regina sussultò, voltandosi di scatto verso Elmichi: non l’aveva sentito entrare, ma ormai tutto era stato predisposto. Lei avrebbe bevuto la coppa ricolma d’acqua, seguendo il principio dell’astinenza cui aveva finto di aderire per riscattarsi dal regicidio; Elmichi, invece, avrebbe sorseggiato l’altra coppa, ricolma di vino... e di veleno.
«Finalmente libero, svincolato dall’autorità di un re così...» gli mancarono le parole, e tacque.
Sovrappensiero, prese tra le mani la coppa sbagliata, fissando il proprio riflesso nell’acqua, la fronte corrugata.
«Mi sento altrettanto prigioniero: di Ravenna, ma anche della mia stessa gente, che ora mi considera nemico e traditore al pari di Peredeo... e te.»
Alcune lacrime scivolarono nella coppa, che gli tremò tra le mani: prima che cadesse, Rosmunda la tolse delicatamente dal suo grembo e iniziò a sorseggiarla, non sapendo che cosa dire o fare.
Pensò a come sarebbe stato essere sposa di Longino: le donne, lì, non erano altrettanto libere, né s’illudeva che dopo pochi anni di convivenza la sua vita avrebbe avuto ancora un qualche valore per il prefetto della città madre dell’Esarcato. Forse la sua proposta di matrimonio era nata anche a causa della sua bellezza, ma quella semplice attrazione fisica non era sufficiente a tutelarla per il futuro: sarebbe stata un personaggio scomodo, in grado di rinegoziare nuove alleanze e di ribaltare ancora una volta la situazione, questa volta a favore del partito nemico. Un personaggio da eliminare, e nulla più.
«Berrò dell’acqua con te, per oggi: i sogni a cui porta il vino hanno il sapore del sangue...»
Rosmunda gli porse la coppa avvelenata, scuotendo il capo: «Sarò io a bere il vino insieme a te, allora»
Non aveva avvelenato l’intera brocca: tuttavia, un sospetto iniziò a farsi strada tra i suoi pensieri, malevolo.
Negli ultimi giorni, Longino l’aveva colmata di doni, mossa poco accorta per le circostanze che li legavano; aveva inoltre deciso di disfarsi dell’esecutore materiale del regicidio, inviandolo presso la corte d’Oriente con una missiva redatta in greco, una lingua che né Gepidi né Longobardi conoscevano. 
«Peredeo... Ha ucciso un leone, dicono, lo sai?»
Mestamente, Elmichi osservò la coppa, senza mostrare di volerla prendere. Quell’espressione...
«“Inviato alla corte di Giustino II per riferire i fatti della massima importanza succedutisi qui in Italia”... Ma io sono un barbaro, dopotutto: forse tra i romani è normale, fare di un ambasciatore un gladiatore da anfiteatro. Prima di partire...»
Rosmunda capì: capì non soltanto le parole che le aveva rivolto Peredeo poco prima della partenza per Ravenna, ma anche ciò che la guardia del re aveva avuto il tempo di confessare ad Elmichi prima di andarsene per sempre; comprese, ed il momentaneo shock la lasciò vuota d'emozioni, trasformandola nella vuota crisalide della farfalla che non era mai diventata.
Elmichi s
orrise, senza aggiungere altro. Che diritto aveva, un traditore, di lamentare il tradimento?
«Allora, Rosmunda: non bevi, mia cara?», disse infine, invitandola a consumare il vino che aveva tra le mani, a bere il suo stesso veleno, per il quale non esisteva antidoto.
La abbracciò con gentilezza, facendo mostra di non accorgersi del suo sguardo perso nel vuoto: erano fuggiti da Verona, ma non sa se stessi. Mentre la donna portava alle labbra la coppa, in un gesto ormai inevitabile, la osservò deglutire il fluido amaro, il fiele delle loro vite distillato in una coppa: gliela rubò dalle dita già fredde prima che la vuotasse troppo.
Non aveva intenzione di sopravviverle.
«Ti ho sempre amata, mia signora: saresti sempre stata, per me, la sola e unica regina... Rosmunda...»
Rosa munda.
Rosa pura.
Sarebbe bastata, quella morte nel fiore degli anni, a renderla degna del nome che portava?
 
Le guardie di Longino li avrebbero trovati stesi l'uno accanto all'altra, come dormienti, poco dopo aver ricevuto la notizia dell’elezione per acclamazione di re Clefi, successore di Alboino al trono longobardo.
   
 
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