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Autore: Collyn    13/07/2016    0 recensioni
Cara non sa molte cose: quale sia il vero viso di sua madre, ad esempio, o se quella in cui vive ora sia davvero casa sua o soltanto l'ennesima sosta di pochi mesi prima che suo padre la costringa a fare le valigie e partire di nuovo, verso mete sempre più lontane. Ma ci sono due cose che sa con assoluta certezza: la prima è che ha amato Haley, l'ha amata davvero; la seconda è che, con ogni probabilità, è stata proprio lei ad ucciderla.
Will, al contrario, sembra avere tutta la sua vita sotto controllo. Nella sua ordinarietà, sa bene qual è la quantità giusta di cibo da mangiare per non essere considerato troppo anormale, il numero esatto di passi che da casa sua deve compiere fino al bar in cui lavora prima che la voglia di andarsene prenda il sopravvento e il limite di sigarette da fumare a settimana per evitare di prendersi il vizio.
Ma ci sono sicurezze che bisogna essere disposti a perdere, soprattutto quando anche la certezza di vivere inizia a vacillare. Perché Cole, al contrario, è sicuro di una cosa soltanto: è disposto a tutto pur di vendicare la morte della sorella.
Genere: Drammatico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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"I'm scared of what's inside my head
What's inside my soul
I feel like I'm running
But getting nowhere
Fear is suffocating me
I can't breathe
I feel like I'm drowning
I'm sinking deeper

White light fades to red
As I enter the City of the Dead

Rex tremendae majestatis
Qui salvandos salvas Gratis
Salve me, Fons Pietatis
Salve me, Fons Pietatis"

City of The Dead - Eurielle
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Devo respirare.

Ho bisogno di respirare, adesso.

Non riesco a pensare ad altro; è come se ogni singola parte del mio corpo, ogni cellula, ogni organo, mi stessero urlando la stessa cosa all'unisono. Provo ancora a ribellarmi, cercando di tirare su la testa e liberarmi dalla grossa mano del ragazzo che mi stringe il retro del collo con violenza, cercando di tenermi ferma con la testa nell'acqua, ma questo non serve a molto se non a triplicare il suo divertimento o, magari, le sue imprecazioni.

Mi blocco, i polmoni ancora contratti nel tentativo di trattenere il più possibile l'aria precedentemente inspirata. Non riuscirò mai a liberarmi; è troppo forte, troppo grosso. E, in ogni caso, anche se ci riuscissi, lui non perderebbe certo tempo prima di ributtarmi la testa in quella che inizio a credere sarà la mia tomba, con ancora più forza e violenza di adesso. Che senso ha prolungare questa tortura?

E, mentre queste parole mi rimbombano nella mente, davanti ai miei occhi si fermano poche immagini, pochi ricordi sfocati. Vedo zia Viola, la sorella di mio padre, sorridermi mentre la me bambina le intreccia i capelli, con le piccole rughe che man mano le si formano ai lati degli occhi e i denti un po' ingialliti per colpa delle troppe tazze di caffè. Vedo i pomeriggi infantili passati con Mathilde a giocare sulla sua casa sull'albero, fingendo di essere delle principesse in un castello sulle nuvole. Vedo mio padre che mi sorride e mi asciuga le lacrime dopo essere caduta dalla bicicletta, la prima volta che provai ad andarci senza le rotelle. Vedo Haley che mi abbraccia, con la testa premuta sui miei seni e gli occhi chiusi. Vedo così tanti colori estranei a questa oscurità che finisco per domandarmi se mi trovo davvero qui e non in un sogno, un bellissimo e spaventoso sogno.

Continuo tenere lo sguardo puntato sul fondo del piccolo lago, fin troppo vicino al mio viso, mentre, ogni tanto, lascio uscire un po' della mia ultima aria dal naso tramite piccole bolle, che non perdono tempo a tornare in superficie quasi con scherno, con derisione. Intorno a me non vedo assolutamente nulla, a causa dell'acqua scura ed inquinata, tranne che qualche ciocca dei miei capelli, che mi accarezza il viso quasi impercettibilmente. Se mi concentro a sufficienza riesco anche a sentire la voce di Cole, attutita e quasi rimbombante, pur non riuscendo a comprendere il suo folle discorso con chiarezza, eccetto alcune parole confuse. Ma, a parte questo, nulla di più.

Poi, all'improvviso, succede. I miei polmoni, quasi presi da uno spasmo involontario, mi portano ad aprire la bocca in cerca d'aria, non trovando, però, quello che cercano. Al suo posto, una quantità d'acqua indefinita inizia ad invadermi il petto senza pietà, in una sensazione tanto orribile che non posso fare a meno di ricominciare ad agitarmi e ribellarmi, con ancora più forza di prima.

Immediatamente cerco di richiudere la bocca, impedendo all'acqua di entrare, ma i miei polmoni, traditori, non sono d'accordo, quasi non si rendessero conto che non c'è alcuna aria che si possa respirare qui sotto. Continuano testardi a contrarsi in cerca di ossigeno, portandomi a pochi passi da quella che, ne sono certa, sarà la mia morte. I miei occhi, prima aperti per il terrore, iniziano allora pian piano a chiudersi e il mio cervello a spegnersi, forse per sempre. Non avrei mai pensato che sarei morta in questo modo.

Quando gli occhi si chiudono, capisco, senza alcuna emozione in particolare oltre alla pura e semplice rassegnazione, che è finita, mentre la mano che prima mi stringeva il collo con forza ora sembra essere svanita, come una carezza. Mi ha lasciata. Devo essere già morta.

Ma poi le sento, altre due mani che mi afferrano per la vita, tirandomi su a fatica. Le sento, ma non le percepisco appieno, come un'eco ormai lontana, come da dietro una campana di vetro. Non riesco a pensare a nulla, mentre provo con le ultimissime forze ad estraniarmi da quei gesti così lontani, da quel tocco estraneo, consapevole che, se mi ha tirato fuori dall'acqua, l'ha fatto solo per il colpo finale, per un ultimo sadico divertimento.

E non respiro.

È strano non sentire i polmoni contrarsi ritmicamente al passaggio dell'aria, ormai totalmente pieni dell'acqua putrida del laghetto. È come se tutto ciò che sto provando ora fosse una voce fuori campo, mentre il corpo ha totalmente perso ogni sensibilità, lasciandosi andare nell'ultimo abbraccio fatale, il più vero, il meno dolce.

Poi, però, ecco altri rumori, una voce lontana, lontanissima, accompagnata da una ritmica pressione sul petto, e subito inizio a tossire convulsamente, senza riuscire a fermarmi, lasciando uscire tutta l'acqua e abbandonandomi in profondi respiri, mentre una mano va a stringere forte la gola per il bruciore.

Sono viva.

Immediatamente la stessa mano inizia a tastare il petto, come per assicurarsi che si stia davvero muovendo. È incredibile, una cosa che prima consideravo abituale, quasi banale, adesso mi sembra miracolosa.

Con il respiro ancora affannato, apro velocemente gli occhi, concentrandomi sul terreno di sabbia sporca e ciuffi d'erba bruciata proprio sotto di me, ora bagnato dal liquido che ho appena buttato fuori. Proprio ai lati della mia visuale, le mie braccia sono tese e le mani aperte sul suolo, mentre le dita iniziano a piegarsi, tastandolo e dando occasione al tatto di riacquistare nuovamente sensibilità. Non mi ero nemmeno accorta di essermi accovacciata.

Ruotando il viso verso destra, non posso fare a meno di notare gli alberi che, nonostante le tonalità aranciate delle foglie, non riescono ancora a perdere il loro aspetto quasi sinistro, aiutati dal buio della notte, arrampicandosi gli uni sugli altri con agilità. Di fianco a quest'immagine, una figura cattura la mia attenzione. D'istinto indietreggio verso l'acqua, con il cuore che pompa fin troppo velocemente, socchiudendo gli occhi per cercare di distinguere i tratti del suo viso e rendendomi conto di non aver mai visto quella persona.

È un ragazzo. Deve avere all'incirca una ventina d'anni, gli occhi grandi, anche se non saprei dire di che colore, e i capelli spettinati e scuri. Mi guarda con una luce che non riesco a decifrare negli occhi e le mani tese verso di me, che non osano, tuttavia, avvicinarsi.

"Cara, stai bene?"

A quelle parole, sussulto. La sua voce è dolce e roca, come se lui avesse passato gli anni ad uccidere il suo respiro con delle sigarette al lampone, e accarezza il mio nome con rassicurazione, quasi come se fosse sempre stato lì, sulle sue labbra. Tuttavia, quando prova ad avvicinarsi, i miei occhi si spalancano nuovamente, mentre velocissimamente indietreggio strisciando, stringendomi le braccia al petto e ignorando il dolore, come se questo gesto potesse proteggermi, con la consapevolezza che, se solo fossi una persona di buon senso, sarei già scappata.

"Non ti avvicinare!" urla allora quella che riconosco come la mia voce, ma molto più stridula e gracchiante del normale.

Lentamente e con gli occhi fissi nei miei, anche lui fa lo stesso, ponendo comunque le mani davanti a sé, come per discolparsi. "Bel ringraziamento per averti salvata da morte certa."

Alla sua affermazione, aggrotto la fronte, socchiudendo la bocca. Lo vedo subito mostrare un leggero sorriso compiaciuto, mentre apre le braccia, invitandomi a guardarlo. Come spinta da chi sa quale forza sovrannaturale, lascio vagare il mio sguardo sulla sua figura, senza lasciarmi indietro alcun dettaglio, dal respiro ansimante ai vestiti bagnati a chiazze, mentre lo stesso piccolo ghigno aleggia ancora sulla sua bocca.

"Dov'è?" chiedo allora con rabbia e paura, due sentimenti che mi destabilizzano al punto di spingermi ad allontanarmi ancora un po'. "Lui... Dove... Non capisco."

"Scappato" risponde semplicemente e questo mi basta. Mi basterebbe da qui fino alla fine dei miei giorni.

Abbasso lo sguardo sulle mie scarpe fradice, forse per l'imbarazzo, forse per la gratitudine, quando finalmente mi accorgo di essere completamente bagnata, esposta al freddo clima autunnale. Il mio labbro inferiore trema leggermente, mentre il respiro si concretizza in piccoli sbuffi che attraversano i miei denti e colorano l'aria di bianco. I capelli, caduti davanti al viso e ancora gocciolanti, mi si attaccano alla pelle come freddi artigli di ghiaccio, mentre i vestiti mi appesantiscono e causano brividi continui sulla pelle.

"Come sai il mio nome?" chiedo con la voce ancora strascicata, senza il coraggio di guardarlo negli occhi, benché percepisca chiaramente che il suo sguardo non ha alcuna intenzione di spostarsi dal mio viso, che, rivolto a terra, è ormai quasi completamente coperto dai capelli scuri.

Non so perché la mia mente mi abbia spinto a chiedere un dettaglio del genere, così insignificante e inutile al momento che non me ne sarei nemmeno dovuta accorgere. Lui, però, senza tanti giri di parole, fa un cenno verso la mia borsa a tracolla abbandonata per terra, dove poco prima Cole mi aveva pestata, sulla quale una piccola targhetta di stoffa ricamata mostra le quattro lettere del mio nome in un blu scuro un po' sfilacciato. E allora annuisco, stringendo le mani in due pugni e cercando di fermare i tremori continui.

"Tieni" dice allora, avvicinandosi piano e allungandomi una giacca di jeans leggera, anche fin troppo per l'inverno ormai imminente, ma perfettamente asciutta, che non avevo nemmeno notato. "Non è molto, ma almeno non morirai assiderata."

"Devo chiamare mio padre. Voglio tornare a casa" sussurro con sguardo vacuo e basso, ignorando la sua proposta. Non voglio la sua giacca, non voglio il suo aiuto. Voglio mio padre, voglio casa mia. Voglio cancellare il suono dei miei lamenti, la sensazione del freddo dell'aria in contrasto con il sangue bollente, il terrore che mi ha attanagliato lo stomaco e che ancora non mi abbandona. Voglio solo sdraiarmi sul mio letto e dormire, dormire per sempre.

Quando avverto la sua presenza, in ginocchio proprio davanti a me, e le sue mani, che, quasi a tradimento, sistemano la stoffa sulle mie spalle ingobbite, mi irrigidisco, tanto che neanche i tremori continui riescono a sbloccarmi. La vicinanza mi permette di notare dei dettagli sul suo viso che prima non potevo vedere, come il colore chiaro delle sue pupille, il naso piccolo e un po' all'insù e gli zigomi resi sporgenti dalle guance leggermente scavate di chi non mangia abbastanza. Anche in questa posizione riesce a superarmi di parecchi centimetri.

"Non sono io il nemico" dice a quel punto, catturando i miei occhi. Sento ancora il peso delle sue mani sulle spalle, come se mi stessero spingendo verso il centro della terra.

"Ma neanche un amico."

E questa è l'ultima frase che pronuncio. I restanti minuti sono una lotta disperata contro i capogiri e il dolore, che sembra essersi irradiato ben oltre ai punti colpiti, e, quando arrivano la polizia e l'ambulanza, io ho ormai quasi perso la sensibilità agli arti; nonostante quel ragazzo mi abbia offerto la sua giacca, infatti, non posso dire che questa abbia migliorato la situazione più di tanto. Mentre vengo messa sulla barella, faccio appena in tempo a vedere i poliziotti dirigersi verso di lui, probabilmente per fargli qualche domanda, come il perché si trovasse lì e un'altra sfilza di cose che forse avrei dovuto chiedergli anche io prima, se solo avessi avuto la sanità mentale per farlo.

Le porte dell'ambulanza sono aperte. Ogni tanto noto uno dei paramedici o dei poliziotti lanciarmi qualche sguardo, troppo fugace affinché io riesca a notare cosa vi si nasconda dentro, ma abbastanza frequentemente da sbattermi in faccia il ruolo che sto interpretando in questa specie di Cluedo malato, un vestito fin troppo appariscente che in questo momento vorrei soltanto strapparmi via di dosso.

Quando l'ambulanza si lancia a massima velocità verso l'ospedale, è il rumore delle sirene che mi riporta alla realtà, anche se solo per un secondo; appena mi rendo pienamente conto di dove mi trovo, di dove sto andando, infatti, semplicemente scollego tutto e mi chiudo in me stessa, contando a mente il numero di volte che, anche solo per pochi secondi, ci fermiamo.

È alla seconda che mi addormento.

  
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