Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Collyn    03/07/2016    2 recensioni
Cara non sa molte cose: quale sia il vero viso di sua madre, ad esempio, o se quella in cui vive ora sia davvero casa sua o soltanto l'ennesima sosta di pochi mesi prima che suo padre la costringa a fare le valigie e partire di nuovo, verso mete sempre più lontane. Ma ci sono due cose che sa con assoluta certezza: la prima è che ha amato Haley, l'ha amata davvero; la seconda è che, con ogni probabilità, è stata proprio lei ad ucciderla.
Will, al contrario, sembra avere tutta la sua vita sotto controllo. Nella sua ordinarietà, sa bene qual è la quantità giusta di cibo da mangiare per non essere considerato troppo anormale, il numero esatto di passi che da casa sua deve compiere fino al bar in cui lavora prima che la voglia di andarsene prenda il sopravvento e il limite di sigarette da fumare a settimana per evitare di prendersi il vizio.
Ma ci sono sicurezze che bisogna essere disposti a perdere, soprattutto quando anche la certezza di vivere inizia a vacillare. Perché Cole, al contrario, è sicuro di una cosa soltanto: è disposto a tutto pur di vendicare la morte della sorella.
Genere: Drammatico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

"No one can unring this bell
Unsound this alarm 
Unbreak my heart new"

Mercury - Sleeping At Last
► Play


 

Con la mano mi sposto velocemente i pochi ciuffi di capelli ricaduti davanti al viso, non trattenendo uno sbuffo infastidito. E' come avere tanti piccoli ragni che mi corrono sul collo, poi sulle guance, sulla fronte, sul naso, solleticandomi la pelle. Butto la testa all'indietro, liberandomi da quella sensazione fastidiosa, le braccia inizialmente tese e premute sul copriletto azzurro che si piegano su se stesse, lasciandomi cadere supina sul morbido materasso, forse fin troppo grande per una sola persona.

Il cielo fuori dalla finestra ha assunto un colore a metà fra l'azzurro e il blu notte, una sfumatura quasi tranquillizzante che mi fa intuire che il sole deve essere ormai già tramontato. Mi stiracchio, rendendomi conto, senza troppe preoccupazioni, di aver dormito più di quanto volessi e ricordando a malapena la discussione avuta con mio padre qualche ora fa, così come il doloroso martellio alla testa che ne è conseguito. Dopo quell'ennesima lite, mi sono semplicemente ritirata in camera, mentre sentivo chiaramente la mia testa spaccarsi. Ho immaginato che questa si aprisse e che dal cervello sanguinolento nascessero dei fiori. Forse l'ho sognato. Così come immagino di aver sognato anche Alfred, un gatto verde vomito con i baffi fucsia e gli occhi enormi a spirale, che mi ha svolazzato per un po' intorno recitando una reinterpretazione dell'Amleto.

Al leggero brontolio del mio stomaco non posso fare a meno di ridacchiare, consapevole di essermela cercata, ma respingendo qualsiasi senso di colpa. Mangerò qualcosa fra poco, se proprio mi va. Sperando che mio padre sia già uscito, ovviamente; infatti, mentre lui probabilmente avrà già accantonato la nostra litigata di poco fa tra le cose di poco conto, il mio nervosismo mi porterebbe soltanto ad iniziarne un'altra e, sinceramente, non credo di avere la forza psicologica e fisica necessaria per saltare un altro pasto.

Sbuffo rumorosamente, osservando il soffitto sopra di me. Sono sveglia da appena qualche minuto, ma già mi annoio. Non ho nulla da fare per passare il tempo e, me ne rendo conto, ultimamente questa cosa capita sempre più spesso. Non perché non abbia interessi, sia chiaro, ma semplicemente perché non mi va di farli fruttare. Credo di essere ancora abbastanza giovane da poter non avere troppe aspettative senza dovermene preoccupare, eppure è come se sentissi questo insetto nella testa che mi punzecchia in continuazione il cervello, rendendo i miei sporadici momenti di ozio quasi dolorosi. Come se a diciotto anni dovessi sentirmi in colpa per questo.

Spesso mi capita di saltare le ore di sonno notturne, preferendo concentrarmi su tutte le attività che non trovo mai il tempo - o semplicemente non ho voglia - di fare: ad esempio, giusto settimana scorsa ho appeso finalmente al muro quei poster che avevo comprato in occasione del trasferimento, ormai risalente ad un anno fa, quando ero ancora emozionata dall'idea di poter arredare la camera a mio piacimento. Quell'entusiasmo, tuttavia, si smorzò abbastanza velocemente e tutto ciò che riuscii a concludere fu tinteggiare le pareti. E nemmeno tutte, se devo essere sincera, nonostante di fronte agli altri ci tenga a specificare che è stata una scelta artistica quella di dipingere soltanto un muro su quattro, di un orribile lilla di cui ora mi pento, oltretutto.

Quando ci trasferimmo qui, a mio padre piaceva pensare, forse illudendo sia me che se stesso, che saremmo tornati ad essere una famiglia normale. O forse che, cambiando aria, sarei stata troppo impegnata a ricostruirmi una vita per avercela con lui, e credo che all'inizio sia stato davvero così. Lui era così preso da questo nuovo progetto che sembrava aver dimenticato totalmente tutto il resto: i suoi impegni, il suo lavoro, i suoi viaggi continui, perfino la sua macchina fotografica. Fra di noi aleggiava un'atmosfera di antico affetto che avevo dimenticato con il tempo, ma l'effetto che tutto questo ebbe su di lui lo rese, più che felice, malinconico. Come se qualcosa mancasse.

Infilo la mano nella federa del cuscino, finché le mie dita non arrivano ad accarezzare con sicurezza la superficie lucida di una fotografia, che tiro fuori velocemente, avvicinandola al mio viso. Mio padre me la diede quando avevo sette anni, ovvero quando iniziai ad essere abbastanza grande da notare di essere una dei pochi bambini a non avere una madre che la andasse a prendere a scuola, sebbene fossi ancora troppo piccola per capirlo pienamente. Spesso gli chiedevo di raccontarmi di lei e fu proprio quel giorno, lo stesso in cui mi diede la foto, che mi parlò della sua fuga, risalente a quando io avevo soltanto pochi mesi, sperando che quella confessione soffocasse le mie pretese di risposte. E vorrei tanto che l'avesse fatto, mi dico, perdendomi per la milionesima volta a fissare l'oggetto che ora stringo gelosamente fra le dita.

La donna nella foto è bionda, sorridente, con gli occhi socchiusi che mi impediscono di capirne il colore. Del viso risaltano in particolare la pelle abbronzata e le labbra rosee, mentre una spruzzata di lentiggini quasi invisibili le sporca il naso e le guance. La fotografia inquadra solamente il suo viso, ma, appena dietro la sua testa, uno sfondo verde e sfocato mi fa intuire che dev'essere stata scattata all'aperto, magari in un parco o in un giardino. A volte mi piace pensare che, come me, fosse una persona amante dell'aria aperta e, avendo mio padre distrutto o buttato ogni ricordo di lei, questa è l'unica fantasia a cui posso aggrapparmi. Ma forse sarebbe meglio dire che questa sarebbe l'unica fantasia a cui potrei aggrapparmi, se non fosse per il fatto che la donna nell'immagine, così diversa da me, non è affatto mia madre; il falso ricordo che stringo fra le dita, infatti, non è altro che una di quelle fotografie che si trovano nelle cornici appena comprate.

Mi resi conto che mio padre non mi avrebbe mai fatto avere una sua vera fotografia a quattordici anni, durante una litigata. Quella fu la primissima volta che la nominò volontariamente, anche se per sottolinearne gli aspetti negativi: mi disse che ero tale e quale a lei, testarda e menefreghista, e che sarei finita a fare la sua stessa vita. Cosa intendesse realmente com quell'ultima frase, in realtà, non l'ho mai capito, ma il motivo per cui lui aveva sempre cercato di tenermi lontano anche soltanto dal suo più piccolo ricordo mi fu subito chiaro, come se me l'avesse appena confessato: temeva che me ne andassi come aveva fatto lei, che lo lasciassi.

Con gli anni, le cose che mi accumunavano a lei cominciarono ad aumentare sempre di più e io iniziai lentamente a conoscerla tramite le discussioni con mio padre e le cose che, a suo dire, avevamo in comune. Stronza come lei. Bugiarda come lei. Egoista come lei. Iniziai a pensare che le sue continue e prolungate assenze fossero soltanto un modo per allontanarsi da ciò che più gli ricordava la moglie scomparsa, quell'unico ricordo che non poteva buttare o distruggere insieme alle fotografie.

Ancora persa in questi pensieri martellanti, mi alzo meccanicamente, con la stanchezza nelle membra che sembra pronta a chiedermi ancora qualche attimo di tregua e, allo stesso tempo, il bisogno di impiegare costruttivamente il tempo. Dopo un intero pomeriggio passato a dormire, non ho intenzione di perdere totalmente la giornata, anche se mi rendo conto di non avere molte attività utili in cui spendere le poche ore di buio che mi rimangono. Per questo motivo, con il passo svelto e strascicato, mi dirigo verso la cucina, rabbrividendo appena per il contatto fra le piante dei piedi nudi e il freddo pavimento e sperando di trovare qualcosa da mettere finalmente sotto i denti.

Varcata la soglia della stanza, un pensiero si materializza improvvisamente nella mia mente, anzi,direi una gradita constatazione, più che un pensiero: papà è uscito. Lo so perché non sento il vociferare insopportabile e continuo proveniente dalla televisione, perennemente accesa su uno di quei canali di televendite che lui si ostina a guardare senza una ragione ben precisa e, soprattutto, senza mai comprare alcunché. Il sollievo, tuttavia, dura ben poco; nell'aprire lo sportello del frigorifero,infatti, una smorfia si dipinge automaticamente sul mio viso nel constatare che le uniche cose che stanziano sui ripiani sono un barattolo sigillato di maionese e una bottiglia di succo d'arancia, mezza vuota oltretutto. Fantastico.

Mi affretto ad andare verso l'ingresso, dove, con veloci gesti stizziti, infilo il giubbotto, le scarpe e prendo la mia piccola borsa a tracolla semivuota appesa all'attaccapanni, sperando di avere ancora dei soldi nel portafoglio e già pregustando la pizza surgelata che ho intenzione di comprare per cena. D'altronde non mi sono mai distinta per le mie doti culinarie: le uniche volte in cui sono riuscita a cucinare qualcosa senza bruciarlo, per qualche misterioso motivo c'era sempre fin troppo sale.

Solo una volta che mi ritrovo fuori casa, con il vento gelido che mi sferza contro il collo nonostante la presenza dei capelli, mi accorgo, sfilando la chiave dalla serratura e mettendola in tasca, di aver lasciato le luci del soggiorno accese, oltre che essermi dimenticata di cambiarmi. Muovo comunque i primi passi sulla strada asfaltata, sapendo perfettamente che la mia non è altro che un'uscita di pochi minuti, eppure rivolgo di tanto in tanto qualche sguardo scettico ai pantaloni grigi del mio pigiama, che da stamattina non mi sono ancora tolta. Ciò che mi preoccupa di più, oltre alle tante piccole Minnie disegnate sulla stoffa, è il pensiero che, con questo freddo, le gambe andranno in ipotermia prima ancora di poter essere di nuovo a casa.

La strada fino al supermercato, anche se molto breve, è abbastanza inquietante di sera, soprattutto per quelle povere persone che, come me, non hanno un'auto per spostarsi. Nonostante questo, però, non mi preoccupo affatto: non devo camminare molto e, inoltre, segretamente mi affido ancora a quanto imparato al corso di difesa personale. Anche se, pensandoci bene, quest'esperienza risale a più di cinque anni fa e ricordo che, alla fine, avevo rinunciato per passare ad un più versatile e meno impegnativo spray al peperoncino.

Nonostante siano le sette di sera, il parcheggio è sorprendentemente pieno, sia di persone che hanno limitato la propria spesa a della zuppa preriscaldata e qualcosa da bere per la cena, sia di famiglie con il carrello pieno. Il cielo è ormai scuro e le uniche luci presenti sono quelle dei lampioni, che a malapena mi impediscono di inciampare nelle varie buche che punteggiano disordinatamente l'asfalto; o almeno questo è ciò di cui mi convinco per evitare di ricordarmi del mio disastroso equilibrio, decisamente lontano da quello di una ballerina di danza classica. Forse è per questo che mi sono ritirata da quel corso, da piccola. Di certo non mi distinguevo dalle altre per grazia o compostezza.

"Cara.

Mi paralizzo sul posto, sentendo una voce fin troppo familiare rimbombare alle mie spalle. È una sensazione strana quella che provo, a metà fra la speranza di essere in un sogno e la consapevolezza che nessun gatto verde vomito con i baffi fucsia mi volerà davanti agli occhi recitando qualche opera di Shakespeare. Eppure, in questo momento, sto sperando con tutta me stessa che la bambina che ora mi sta passando davanti inizi a starnutire bolle di sapone, a perdere olive dalle orecchie o qualsiasi altro indizio che mi faccia capire che tutto questo non ha nulla a che vedere con il mondo reale. Le mie preghiere, però, non vengono ascoltate, come testimoniano anche le occhiate della mocciosa, la quale, stranita e spaventata proprio come se avesse percepito i miei pensieri, si aggrappa più forte alla manica della giacca della madre, continuando a sbavarsi sulle dita grassocce.

Disgustoso.

Non appena mi giro, Cole Jensen mi sorride freddamente, un sorriso che non si addice per nulla a quello che illuminava il suo viso da bambino nelle vecchie fotografie con la sorella. Sopra di lui, la luce fioca e tremolante di un lampione gli illumina appena il viso, rendendo i suoi tratti più spigolosi e quasi estranei alla mia memoria, tanto che non posso fare a meno di tacere per un paio di secondi, limitandomi a guardarlo. Di fronte al mio momentaneo silenzio, alimentato dalla sorpresa e dall'incertezza, il suo sorriso tremola appena, tradito da un breve guizzo della guancia destra, ma non cede.

"Cole..." rispondo titubante, rivolgendogli un cenno del capo.

Dopo l'incidente di Haley, ho avuto modo di vederlo soltanto al funerale, ma allora le circostanze erano troppo tragiche per riuscire a parlargli, mentre adesso... Mentre adesso sono passati sette mesi e ancora mi sembra di rivedere un fantasma. Vorrei dire qualcosa, così ci provo, dischiudendo le labbra e pregando in mille lingue che una qualsiasi frase di senso compiuto lasci la mia bocca, ma invano. Il mio cervello, scioccato e ancora proiettato verso la lunga dormita di poco fa, non è ancora abbastanza lucido per fare una cosa del genere.

Lui tace per qualche secondo, a malapena respirando, ma quando torna a parlare il suo tono sembra quasi lo stesso di una volta. "Per un momento ho pensato di averti confusa con qualcun altro" ridacchia, socchiudendo appena gli occhi. "È così strano incontrarci qui, non trovi? Dopo così tanto tempo, intendo."

"Sì, sì, decisamente. È quasi... come dire..."

"Irreale?"

Annuisco appena. "Sì. Irreale, esattamente" affermo, la voce involontariamente fredda e ostinatamente distaccata.

Nonostante il suo atteggiamento bendisposto, non posso fare a meno che sentirmi con le spalle al muro. È più forte di me. È come se ci fosse una nota stonata che risuona nell'aria ad ogni sua parola, facendo attorcigliare il mio stomaco a tal punto che l'idea della pizza che avrei voluto comprare inizia a non sembrarmi più così allettante. Il silenzio, però, non migliora affatto le cose; non appena la conversazione torna ad estinguersi, infatti, questo non fa altro che restituirmi il suono snervante delle auto che passano e delle mie unghie che grattano l'interno delle tasche della giacca per l'agitazione.

"Hai cambiato colore di capelli. Stai bene."

"Grazie" mi limito a rispondere, afferrandomi istintivamente una piccola ciocca bionda. "Li ho anche accorciati; prima erano troppo lunghi."

"Lo vedo. Sembri quasi un'altra persona."

Sorrido appena, come se ci fosse un motivo per sorridere. Non so che ore siano e, di conseguenza, non so quanto tempo ancora io abbia per comprarmi la cena prima che il supermercato chiuda, ma non è questo il problema. Il vero problema è che preferirei correre a casa e finirmi a cucchiaiate tutto il barattolo di maionese diluito con il succo d'arancia piuttosto che rimanere ancora qui per un solo secondo. Questa situazione, il tono della sua voce, il tono della mia, ogni cosa sembra fuori posto in modo irreparabile, eppure noi siamo ancora qui a cercare di mandare avanti una conversazione che non può far altro che ferire entrambi ancora di più. E allora perché continuare? Perché continuare a pugnalarci a vicenda in questo modo?

"Io... dovrei andare, Cole" riesco a pronunciare con difficoltà, sentendomi appena un po' più leggera. Lui non parla, non si muove, perennemente pietrificato nella stessa posizione da infiniti minuti. Per un momento, il pensiero che tutto questo sia solo frutto della mia immaginazione torna a infestarmi il cervello, ma, alla vista della sua espressione, stranamente bloccata a metà tra il fastidio e la determinazione, sparisce in fretta

"In realtà, sai, dovevo proprio parlarti di una cosa" afferma lui, cogliendomi di sorpresa.

"Oh, ehm... Certo, dimmi pure."

"Non qui" risponde duramente, il tono autoritario e fermo, velato da qualcosa che non riesco a riconoscere, ma che mi mette i brividi.

Uno sguardo incerto si dipinge pian piano sul mio viso. "Sto proprio andando a comprare qualcosa, se vuoi possiamo..."

Prima che riesca a finire la frase, Cole mi interrompe. "No, c'è troppa gente. Preferirei farlo in un posto un po' più tranquillo, ti dispiace?" mi chiede, inclinando la testa di lato.

I suoi capelli, una volta tagliati a spazzola, sono decisamente cresciuti, andando a creare una frangia che gli copre la fronte e un po' gli occhi, cosa che, insieme al buio, mi impedisce di leggere l'espressione che si nasconde dietro a quelle sue parole falsamente amichevoli. Ha le mani nelle tasche della giacca pesante con sicurezza, ma le spalle, una volta sempre alte e dritte quasi con arroganza, sono ingobbite in un gesto di quella che credo essere rassegnazione, come se stesse reggendo da solo tutto il peso del mondo e non ce la facesse più.

Quest'immagine mi colpisce con la violenza di uno schiaffo. Non so perché, né so che direzione stiano prendendo i miei pensieri tutto ad un tratto, ma guardarlo ora, vedere come il lutto lo abbia cambiato, mi fa capire quanto, in realtà, le nostre realtà siano vicine. E' proprio per questo che, seppur titubante, annuisco, seguendolo senza esitare quando lui si gira per dirigersi verso il parco proprio di fianco al supermercato, nascosto dai rami fitti di un piccolo gruppo di alberi.

Quella che prima era solo bassa illuminazione man mano che ci allontaniamo dal parcheggio si trasforma in buio quasi totale, tanto che fatico a distinguere i contorni della figura di Cole, anche se è proprio davanti a me. Ha la camminata strascicata e svelta, cosa che, essendo le sue gambe più lunghe delle mie, mi porta quasi a corrergli dietro, mentre le mie labbra pronunciano ogni tanto qualche Aspetta, ma invano. Superiamo l'ingresso e, con la stessa velocità, anche i giochi arrugginiti e il quadrato di sabbia su cui di solito giocano i bambini, finché non arriviamo ad un piccolo e basso laghetto artificiale, dove ci fermiamo. L'acqua è scura e un paio di mozziconi che vedo galleggiarci dentro mi fanno intuire che questo non dev'essere soltanto colpa del buio.

"Cole" pronuncio con un accenno di affanno nella voce. "Perché mi hai portata qui?"

Lui si guarda intorno, come se non capisse il motivo della mia inquietudine, e poi scrolla le spalle. "Qui non ci disturberà nessuno" dice dopo qualche secondo, avvicinandosi di qualche passo.

Cole è sempre stato il tipico bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il sogno di diventare avvocato. Nel periodo di tempo in cui frequentai Haley, si era sempre dimostrato un buon fratello, nonostante i battibecchi continui e le frecciatine sarcastiche fra i due. Lui la adorava, la amava in un modo che proprio non riuscivo a comprendere, essendo io figlia unica, in un modo che a volte mi intimidiva. Avrebbe fatto di tutto per lei. Non l'ho più visto molto da quando lei è morta, ma credo di non averlo nemmeno voluto: il solo pensiero di guardarlo e trovare in lui lo stesso colore degli occhi di Haley, la stessa forma delle labbra, lo stesso modo strano di pronunciare la r... Sarebbe stato troppo, sarebbe stato come credere di rivederla e rendersi conto che non esiste più la possibilità di farlo.

"Beh, come stai?" mi chiede, piegando il collo in avanti. "La famiglia, gli amici...?"

"Io sto bene" rispondo con un po' di esitazione, ripetendo meccanicamente le stesse parole che la cortesia impone di dire ogni volta che qualcuno ti porge una domanda del genere. Non capisco proprio dove voglia andare a parare.

Apro la bocca più volte, indecisa se chiederglielo a mia volta, per poi lasciare andare quelle parole che mi erano rimaste bloccate in gola, anche se molto più lentamente di quanto sperassi. "E tu come stai?"

"Oh io sto benone, sei gentile a chiedermelo" risponde tranquillamente lui, come se fosse davvero così, accarezzandosi le guance ispide per colpa della barba sfatta. "Certo, devo prendere degli antidepressivi e i miei mi vogliono sbattere in uno schifo di istituto psichiatrico perché il mio psichiatra mi crede troppo instabile."

Ancora faccio fatica a vedergli il volto vividamente, ma dal suo tono sembra proprio che stia sorridendo, cosa che mi lascia basita. È la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che, effettivamente, qualcosa non va, come in un puzzle con alcuni pezzi mancanti: potrei osservarlo da lontano e pensare che sia tutto normale, ma avvicinandomi, passo dopo passo, gli spazi vuoti inizierebbero a saltarmi agli occhi sempre più nitidamente, facendomi notare che quando sorride non lo fa mai abbastanza da lasciare intravedere le fossette o che spesso si gratta il braccio sempre nello stesso punto.

"Ah" pronuncia poi come se gli fosse appena venuto in mente un dettaglio importante. "E mia sorella è morta."

È la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che forse sarebbe meglio per me se non fossi qui con lui. E non pronuncio parola.

"Ed eccoci giungere al punto in cui volevo che arrivassimo" continua, mentre, con il passare dei secondi, la mia inquietudine cresce sempre di più. "Sai, pensavo che ci avremmo messo di più, qualche altro minuto di chiacchiere futili, ma vedo che tu sei una persona che va dritta al punto e questo lo apprezzo, Cara."

Sembra quasi che stia scherzando e, in questo momento, c'è davvero un angolino del mio cervello che lo crede, che si aggrappa a questa convinzione, forse perché non ho la più pallida idea di cosa stia parlando, forse perché le note stonate che, insieme alla sua voce, risuonano in questo dialogo unilaterale mi rendono fin troppo inquieta. Ed è la prima volta dall'inizio della conversazione che mi rendo conto che il solo pretendere che questa sarebbe stata una cosa normale era semplicemente una pazzia, una bugia che ho raccontato a me stessa con ingenuità.

"Raccontami un po', non sono ancora riuscito a chiedertelo: com'è morta?"

A quella frase, spalanco gli occhi, guardandolo come se fosse impazzito. Lui però è serio, terribilmente e schifosamente serio, tanto che inizio a pensare che deve essere davvero masochista. Masochista e sadico. Come può chiedermi una cosa simile?

"No" rispondo prontamente. "Sai com'è andata, non puoi chiedermelo sul serio."

"Vorrei solo" si interrompe ridacchiando, lasciandomi sempre più stupita. Avvicina un dito alla testa, picchiettandolo sulla tempia delicatamente per poi guardarmi con aria divertita. "Vorrei solo un piccolo promemoria."

"Perché me lo stai chiedendo?" non posso fare a meno di domandargli, sentendo il senso di colpa iniziare a ribollire dentro di me e a liquefare tutti i miei organi interni. Lui non sa, continuo a ripetermi, cercando di calmare i battiti sempre più veloci del mio cuore. Ti prego, fai che non sappia nulla.

Con gli occhi illuminati da una scintilla di curiosità, lui piega appena il capo di lato, osservandomi in silenzio per qualche secondo. Poi, come se gli avessi appena raccontato una barzelletta, scoppia a ridere, tenendosi la pancia con le mani e lasciandomi basita e terrorizzata a guardarlo. Dopo una decina di secondi, mi ritrovo addirittura a pregare, dentro di me, affinché la smetta, affinché interrompa quella risata folle a cui riesco a rispondere soltanto rimanendo impalata dove sono, in silenzio, troppo pietrificata dalla paura per fare qualsiasi cosa.

"Sei brava, sai? Mi avevi quasi convinto. Forse è meglio se riproviamo: com'è morta mia sorella, Cara?" mi chiede duramente, abbandonando definitivamente il finto divertimento di poco prima.

"Smettila. Ormai è morta" mi lascio sfuggire con voce tremante, per poi crollare a terra quando un forte colpo mi prende la mascella, gemendo per il dolore e la sorpresa. Ancora stordita, mi tocco il punto colpito con la mano gelata e il dolore mi immobilizza e mi fa tremare come una scossa elettrica, mentre un altro lamento mi esce dalle labbra. Mi ha appena tirato un pugno. Cole, il tipico bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il sogno di diventare avvocato, mi ha appena tirato un pugno.

Appena prima che possa rendermi conto sul serio delle sue intenzioni, con una stretta salda lui mi afferra i capelli, strattonandomi la testa fino a che i miei occhi non incontrano i suoi, minacciosi e adirati. Sono terrorizzata a morte.

"E perché è morta?" mi sussurra a pochi centimetri dal viso. La cosa che più mi sorprende, che più mi disgusta, è che il suo tono è quello amichevole di qualche secondo fa.

Mi fischiano le orecchie e a questa distanza posso finalmente notare le profonde occhiaie scure che gli circondano gli occhi come trucco sbavato, mentre le pupille, dilatate e spaventose, corrono da una parte all'altra del mio viso, come se volesse gustarsi la mia condizione pietosa fino alla fine. Poi mi colpisce di nuovo, sul naso, stavolta. Me ne rendo conto soprattutto grazie al sangue che sento iniziare ad uscire, bagnandomi le labbra, poiché è come se il dolore si fosse esteso a tutto il viso. Questa volta il colpo è stato più forte, forse a causa della vicinanza o al fatto che nel mentre non ha smesso un solo secondo di tirare forte i miei capelli, tanto che sento la cute perdere sensibilità.

Con una mano cerco di fare forza sulla sua spalla, nella speranza, forse stupida, di spostarlo, mentre l'altra conficca le unghie nella carne delle stesse dita che ora mi bloccano la testa, cercando di fargli mollare la presa. Nel frattempo, lui continua a colpire sempre più forte, finché, all'improvviso, non mi molla velocemente i capelli, lasciandomi cadere pesantemente a terra. Prima che io riesca a rendermi conto di poter provare a scappare, mi sferra un forte calcio nello stomaco, che mi fa piegare. E così fa ogni singola volta che provo ad alzarmi, e così fa ogni singola volta che nota che il dolore inizia, anche se di poco, ad affievolirsi.

"Basta" sussurro, sperando all'ultimo che lui non mi senta, ma, vedendo la sua mascella irrigidirsi, immediatamente mi rendo conto di quanto chiara la mia preghiera gli sia arrivata all'orecchio.

Continua ad infierire sul mio corpo immobile senza il minimo di esitazione, sul torace, sul ventre, sulla schiena. E io sono rannicchiata a terra. Il dolore è dappertutto, perché non c'è parte del mio corpo che lui abbia risparmiato."Perché, Cara? Perché?" continua a chiedermi, ripetendo le stesse parole come se fosse una filastrocca, mentre io inizio a cadere in una specie di stato di trance.

"Mi dispiace" rispondo allora in un sussurro appena udibile a quell'ennesima domanda, con la voce rotta e tremante. "Mi dispiace tanto..."

Lui si ferma, finalmente. Non so dire se mi stia guardando o se se ne sia andato. So soltanto che non ho la forza di muovere la testa per controllare se la sua ombra troneggi ancora su di me. Tutto ciò su cui riesco a concentrarmi è il mio respiro affaticato, ormai più simile ad un rantolo, mentre cerco di ignorare le forti fitte che sento alle costole ogni volta che il mio petto si alza per inspirare.

"Sai una cosa? Non me ne faccio proprio un cazzo delle tue scuse" pronuncia lui, sputando ogni parola sul mio viso con disgusto.

Ed è il dolore che mi prende le braccia a farmi capire che ora mi sta trascinando.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Collyn