Sindrome dell’Eroe
Ero bambino.
Scorsi in televisione delle immagini raccapriccianti, uomini feriti e pieni di
sangue, il fumo opaco che si levava sopra una sorta di incendio (solo in
seguito mi fu spiegato che era una bomba). Una voce atona illustrava lo
scempio, con lo stesso sentimento che avrei messo io nel chiedere un poco di
sale.
I miei genitori guardavano con disinteresse lo schermo animato, addentando
meccanicamente un boccone dopo l'altro e sorseggiando di tanto in tanto un
bicchiere di birra. Ma loro non la vedevano quella gente che soffriva? Non lo
sentivano anche loro quello strano bruciore alla gola, quel senso di nausea
allo stomaco?
Pensai che forse non se n'erano accorti, troppo impegnati dalla loro bistecca.
"Mamma?" le tirai timidamente una delle sue maniche svolazzanti.
"Mario, cosa c'è?"
"La TV." indicai con un ditino tremante, cercando in lei il mio
sconvolgimento.
"Stanno parlando di sport, la Roma ha vinto il derby." osservò mia
madre indifferente, accarezzandomi i capelli chiari.
"Ne sei felice? Credevo tifassi Lazio!"
L'intervento di mio padre mi lasciò spaesato, me l'ero forse immaginato quello
spettacolo terrificante?
"Prima."
"Oh tesoro, non preoccuparti! Ci sono state solo ventuno morti."
esclamò allegramente mia madre, come se si trattasse di una bella notizia.
"La mia classe è composta da ventuno bambini." sussurrai io,
fissandola interrogativo, "Vuoi dire che, se domani io li trovassi tutti
morti, non dovrei dispiacermi?"
"Tua madre non intendeva quello. Solo che, in confronto agli ultimi
giorni, ci sono stati meno morti. Si sono salvati quasi tutti!" venne in
aiuto mio padre, dandomi un buffetto sulla guancia.
"Quella gente non la conoscevi, non si piangono estranei." proseguì
mia madre, ricominciando a mangiare.
"Quindi adesso stanno piangendo tutte le persone che li conoscevano?
Devono essere molte." constatai, notando incredibilmente di non poter
contare i morti sulla punta delle dita, persino con il supplemento di quelle
dei piedi!
"E io?" chiesi d'un tratto, scioccato.
"E io cosa? Tesoro, tu continua a mangiare." eruppe spazientito mio
padre, con l'urgenza evidente di terminare la conversazione.
"Non posso fare null'altro?"
I miei occhioni disperati si posarono speranzosi su mia madre, lei di certo
aveva la soluzione. Ce l'aveva sempre.
La vidi scambiarsi uno sguardo fugace con il marito, come se conoscessero un
segreto a me proibito.
"Comprenderai presto." dichiarò vago mio padre alla fine. Poi,
davanti alla mia espressione confusa, riabbassarono entrambi gli occhi sulla
fetta di carne. Non ebbi il coraggio di ripetere la domanda, forse perché
temevo la risposta vera.
Da quel momento, iniziai ad avere gli incubi che tutt'ora mi assillano. Il mio
sonno non era popolato di demoni, di stregoni o di salti nel buio come tutti
gli altri bambini. Io sognavo scene normali, crudelmente normali. Incendi che
bruciavano alti palazzi, tornadi talmente potenti da sradicare intere foreste, facce
anonime che morivano in violenti incidenti stradali.
Ma non erano quelle scene a torturarmi, bensì la consapevolezza di assistere a
quelle scene, senza poter agire in alcun modo. Ero impotente e non lo
sopportavo.
Mi svegliavo scosso da tremori incontrollabili, la fronte imperlata di sudori
freddi.
Iniziai a nutrire uno spasmodico desiderio di giustizia, che mi creò non pochi
problemi, nella dimensione gerarchica della scuola. Stephen Morgan, ad otto
anni superava in stazza anche i bambini dell'ultimo anno. Nessuno sano di mente
avrebbe tentato di sfidarlo, ma io lo affrontai dopo averlo visto maltrattare
per settimane un ragazzino mingherlino, che conoscevo soltanto di vista.
Tutt'ora non ho idea di quale fosse il suo nome. Ricordo che uscii dalla rissa
con un occhio tumefatto, un braccio rotto e una caviglia slogata. A seguito
della prima esperienza, direte voi, sarebbe stato ragionevole evitare di
ripeterla. Invece io lo rifeci, soffrii ancora e ciò non mi permise di smettere
la mia missione di martire. Tuttavia ero almeno apprezzato dai bambini della
scuola, in quanto "paladino della giustizia".
Fu il lato migliore della malattia, il più luminoso. Ma la luce è generata da
oscurità, e come ogni fuoco è destinata a spegnersi e a lasciare che il buio
prevalga.
Il senso della giustizia si trasformò in ossessione, l'affetto in possessività.
Impedivo ai miei amici di correre pericoli, dal pungersi con la punta affilata
del compasso all'uscire in compagnia di gente che non conoscevo. Perché se non
stavano con me, erano in pericolo. E se erano in pericolo, io impazzivo.
Immaginavo ogni possibile rischio in cui potessero incappare, ogni possibile
modo in cui li avrei potuti salvare, ogni singolo istante in cui non lo avrei
potuto fare perché distante da loro.
Ad undici anni fui trascinato di peso dai miei genitori nello studio di una
famosa psicologa. La Dottoressa Von Heiden, una signora allampanata di origini
tedesche.
Con il suo accento fastidioso, al termine della seconda seduta, sentenziò la
diagnosi:"Sindrome dell'Eroe, raro caso. È incapace di sopportare la vista
del dolore immotivato, se ne attribuisce i meriti e danneggia il suo equilibrio
psicologico."
"È grave? Si può curare?" s'informò subito ansiosa mia madre,
ricevendo un sorriso comprensivo (per quanto possibile) dalla fredda
tedesca:"Non è grave. Quando deciderà di guarire, guarirà."
"Ma che caspita di risposta è?" sbottò innervosito a quel punto mio
padre, conficcandomi le unghie nelle spalle. Io soffocai una risata, non era
così sconvolto dal giorno in cui la prozia aveva lasciato l'eredità al
fratello.
"Potrei fargli tutte le terapie del mondo, ma sarebbero solo menzogne.
Quando si rassegnerà per istinto di sopravvivenza alla realtà dei fatti, come
tutti, guarirà." Agitò una mano smaltata in aria, infastidita.
"A cosa mi dovrei rassegnare?" intervenni io di scatto, sentendomi
chiamato nella discussione.
Ricordo ancora come la dottoressa si chinò sul mio volto, ricordo ancora il suo
alito fresco di gomma alla menta mentre sussurrava:"Mio giovane ragazzo,
comprenderai presto."
Senza volerlo, ripeté le stesse identiche parole che mi aveva propinato papà
quella sera.
L'adolescenza portò con sé il classico egoismo che contraddistingue la maggior
parte degli adulti e questo, con prepotenza, riuscì ad assopire la Sindrome
dell'Eroe.
A sedici anni ebbi il mio primo appuntamento con una ragazza nuova della
scuola, Arianna Monferrati. Allora la Sindrome dell'Eroe andava già
scomparendo, come un vulcano quiescente assopito ma abbastanza sveglio da
sputare pennacchi di fumo.
Al cinema, durante una scena d'azione d'impatto, nascose vezzosamente il capo
nella mia spalla.
"Il film è un'invenzione dello sceneggiatore, non corri alcun rischio,
tranquilla. Se te lo dico io..." le dissi con una sfumatura ironica.
La mia era un'osservazione impersonale, ma ella la considerò un cavalleresco
tentativo di consolarla e s'innamorò di me. Pian piano, però, diventai
eccessivamente protettivo anche con lei. Prima che vi racconti quale fu il
triste epilogo del nostro amore, devo informarvi che Arianna aveva un fratello
maggiore occupato nello studio in un'università fuori città.
Era un'abitudine che io la accompagnassi sempre a casa dopo scuola, un gesto
molto dolce penserete voi, ma in realtà davvero egoistico da parte mia. Un giorno,
ricordo fosse lunedì ma la memoria potrebbe fare cilecca, il fratello suonò il
clackson di fronte a scuola e non appena Ari si avvicinò, esclamò:"Il tuo
fratellone è tornato! Uno strappo fino a casa?"
Io potevo, in tal momento, parlargli delle mie fisime? Forzai un sorriso, alzai
le spalle con finta indifferenza e salutai Arianna.
La scenetta si susseguì per una settimana, in cui misi duramente alla prova i
miei nervi. Presto sarebbe tornato all'università, presto sarebbe tornato tutto
come prima; mi ripetevo come un mantra.
Finalmente arrivò l'ultimo agognato giorno della sua permanenza, ero fuori di
me dalla gioia! La campanella trillò e io tenni saldamente la mano di Arianna,
sino all'ormai familiare auto nera. Le lasciai un bacio delicato sulle labbra
calde, quasi brucianti a contatto con le mie prima di staccarmi a malincuore,
udendo l'infernale starnazzare del clackson.
Restai immobile a fissare l'auto divenire un punto scuro, una mosca fastidiosa
che mi ronzava nelle orecchie, per una manciata di minuti.
Avevo appena deciso di incominciare a camminare verso casa, quando squillò il
cellulare.
"Oh Mario! Oh Mario!" sentii mia madre esclamare dall'altro capo del
telefono, "La madre di Arianna mi ha chiamato un minuto fa, e io mi sono
subito affrettata a telefonarti. Vedi tesoro, Arianna ha avuto un
inciden--"
Non ascoltai più, lasciai cadere sul marciapiede l'apparecchio e percepii il
fragore del vetro che si crepava.
Allora compresi dopo molto tempo ciò che intendeva mia madre, quella sera di
dieci anni prima. Compresi che forse era vero che in alcuni casi si poteva
davvero solo continuare a mangiare.
Rimasi sempre all'oscuro di ciò che mi aveva rivelato mia madre durante
l'ultima parte della chiamata. Non glielo chiesi mai, perché non mi ero ancora
rassegnato all'evidenza. La conoscevo, ma questo non mi obbligava a piegarmi in
un inchino umiliante dinnanzi ad essa.
Scelsi di ridurre al minimo ogni rapporto con il prossimo, sradicando l'affetto
dal mio cuore malato sino a quando non fossi stato pronto. Pronto ad accettare
i rischi, perché in fondo l'affetto non è che la scommessa più grande della tua
vita.
Trent'anni
dopo
Cinsi la
vita della mia Marta, tuffando la mano ruvida nei suoi ricci castani. Era la
seconda donna più importante del mio piccolo mondo.
"Buongiorno." le sussurrai all'orecchio, sentendola emettere un
risolino. Ci eravamo sposati quindici anni prima e ancora non avevamo perso
l'abitudine di unirci in un bacio silenzioso, prima che il baccano di Arianna
riempisse la nostra casetta.
"Buongiorno. Ary si starà svegliando e sai com'è fatta con gli orari, se
scopre che tu non hai ancora bevuto il caffé." Arricciò il naso nel modo
in cui solo lei e Ary erano in grado di fare, strappandomi un lungo sospiro.
"È un piccolo orologio svizzero, la nostra Arianna." commentai
staccandomi e portando diligentemente la mia tazzina di caffé amaro alla bocca.
"Grande. Un grande orologio svizzero, Mario. Ha quattordici anni."
"Per me sarà sempre una bambina." ribattei.
"Sai cosa vuole, vero?"
Il solito discorso, tirava fuori sempre la stessa storia.
"Vuole andare a scuola da sola, lo so! Ma io continuerò ad accompagnarla
per molto tempo, volente o nolente."
Sbattei un palmo sul tavolo, che tremò leggermente.
"Mario!" mi riprese esasperata mia moglie, sbuffando mentre preparava
la colazione.
"Ma tesoro..."
"Sono abbastanza grande." mormorò una voce acuta alle nostre spalle,
facendomi sobbalzare e troncando di netto la discussione.
Ary, nonché la donna più importante della mia vita, corse furiosa nella sua
camera sbattendo con un sonoro colpo la porta.
"Suoni soavi di prima mattina..." disse ironicamente Marta.
"Suvvia, vacci a parlare un poco cosicché si calmi."
Le lanciai un'occhiata disperata e lei alzò le mani con un sorriso
sornione:"Sai che questo argomento è affar tuo."
Mi diressi cautamente nella stanza di mia figlia e bussai delicatamente, sapevo
quanto odiasse essere disturbata mentre rifletteva in solitudine.
"Avanti!"
Avanzai titubante, socchiudendo appena la porta. Immersa nella penombra, Ary
stava leggendo un libro al lume di una lampada sul suo comò. Mi accostai a lei
sul letto, accarezzando i ciuffi disordinati che aveva ereditato dalla madre.
"Cosa desideri?"
Sapevo già la risposta, ma ascoltarla sarebbe stato come uno schiaffo in
faccia.
"Voglio andare a scuola da sola. Non appiopparmi la scusa dell'età, lo
fanno tutti i miei amici." dichiarò sicura. Era incredibilmente tenace,
tale e quale a sua madre.
Ad un tratto parve dubitare delle sue parole, si rabbuiò in viso e chinò lo
sguardo sul copriletto color malva, torturandosi le mani. "C'entra...
c'entra per caso con la tua sindrome?" domandò con un filo di voce. Io
sobbalzai, colto alla sprovvista: non gliene avevo mai parlato.
Doveva essere stata Marta, la solita.
"Tesoro, non ti angustiare per una sciocchezza, è acqua passata..."
la tranquillizzai, scacciando i ricordi infantili dalla testa. Tuttavia la sua
domanda scalfì profondamente il mio orgoglio, e se Ary avesse avuto ragione?
Forse non sarei mai guarito, forse sarei sempre rimasto un po' malato. Forse lo
eravamo tutti.
"Papà, sei pensieroso. Scusa, ho sbagliato, mamma mi aveva avvisato della
tua suscettibilità riguardo a questo argomento. Scusa io--" iniziò a
parlare Ary di fretta, le guance arrossate.
"Ferma, tesoro, ferma. Ti andrebbe un compromesso? Io ti accompagno per
metà strada e il resto lo percorri da sola."
La ragazzina s'illuminò all'improvviso, dimentica dell'ultima parte della
chiaccherata e mi travolse in un abbraccio:"Affare fatto!"
Mezz'ora dopo si trascinava sul marciapiede con la cartella sulle spalle, al
mio fianco. Ancora un altro passo e l'avrei lasciata andare, non senza timore.
Mi bloccai di fronte alla strada, era arrivata l'ora, appena fosse scattato il
semaforo verde avrebbe attraversato per la prima volta senza di me.
Ary si alzò sulla punta dei piedi e mi baciò sulla guancia:"Buon lavoro
papà."
Mi attardai ancora un poco, nascosto dalle ombre di un albero. Avevo oramai
capito, che sarei sempre stato incapace di ignorare scellaratamente i pericoli.
Potevo scordamene però. Potevo scordarmi che le macchine sfrecciavano veloci in
quel tratto di strada. Potevo scordarmi che i malintenzionati si celavano
nell'oscurità con la mia stessa facilità. Potevo scordarmene, perché in fondo
l'amore era la scommessa più grande della mia vita e io, fortunatamente,
l'avevo compreso abbastanza presto per vincerla.