Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Segui la storia  |       
Autore: were_all_dead_now    18/07/2016    3 recensioni
Quando vai a scuola, nessuno ti insegna a vivere.
Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
[...]
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Canzone triste degli Smiths e nulla da dire. 
Mi scuso per i mesi che sono passati. Non so se ci sia ancora qualcuno di voi, lì fuori. Se sì, e se vorrete recensire, grazie. 
Buona lettura a tutti. 

 
CAPITOLO DICIOTTESIMO 

This story is old, I know. But it goes on.
(
Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me)
 


Quella notte decisi di non rispondere al messaggio di Gerard.
Non so bene perché. Nei giorni seguenti vissi molti momenti che, per me, non avevano alcun senso; nonostante non facessi nulla di particolare.
Mi ritrovai più volte sul balcone della mia camera, di notte, a fumare e pensare.
Anche se poi in realtà non pensavo a nulla.
 
Perché se accadde qualcosa, in quei giorni, fu l’improvvisa fuga di ogni mio pensiero.
Come tutti i castelli di carte che avevo provato a costruire da bambino e che cadevano giù proprio quando mancava solo l’ultima.
 
Era come se a esistere potesse essere solo una forma di pre-pensiero. O di pensiero del pensiero stesso. Che, però, cadeva con un tonfo nel vuoto. Sempre.
 
E mi chiesi se forse non avessi davvero più nulla a cui pensare. Mi chiesi se quell’assenza stava lì per dirmi che era tutto risolto o semplicemente tutto finito.
 
E se così non fosse stato, mi chiesi, le cose si sarebbero davvero risolte, prima della fine?
Perché io avevo paura dell’incompletezza.
Avevo paura di tutto ciò che non avesse un suo posto nel mondo. Di tutte le cose sospese e in attesa.
E anche delle attese.
Io avevo paura delle attese perché non sapevo come viverle.
 
Forse era questa la radice dell’assenza dei miei pensieri: io non sapevo pensare a qualcosa che fosse un nulla, che non avesse un posto, una forma, una vita.
E nella mia, di vita, io non sapevo calcolare gli spazi e nemmeno i tempi.
 
E quindi a quel messaggio di Gerard non risposi mai.
A dire al verità, Gerard non lo vidi per tanto tempo.
 
Per giorni senza fine nessuno di noi parlò di lui.
Mia madre smise di conoscerlo. Mikey smise di avere un fratello.
E io smisi di pensare. Di sentire.
 
Realizzai che non c’era niente da sentire quando non ero con Gerard.
Non percepivo nemmeno il sapore del fumo a causa delle troppe sigarette.
 
--
 
Quel pomeriggio c’era un sole un po’ timido.
L’aria era fresca e ti scivolava addosso.
 
Quel pomeriggio andai al supermercato.
Perché mia madre mi aveva chiesto di farlo.
 
E quel pomeriggio, al reparto cibo, corridoio 3, tra i cereali e la pasta, io incontrai Gerard.
 
--
Quando la tua macchina si scontra con un’altra, tutto ciò a cui pensi sono le persone a casa. Quelle che ti vogliono bene.
 
E io pensai che ogni storia finisce. Anche quelle di cui non riusciamo a vedere la fine.
L’unica differenza è che alcune finiscono in un silenzio sordo. Altre hanno un’eco che va da sé.
Poi pensai che forse dipende da quanto forte sia stato il rumore della vita.
E quanto quello della morte.
 
Gerard è stato il mio incidente. Ma anche le mie persone a casa.
E io gli ho voluto bene.
 
Si è schiantato su di me all’improvviso.
Col senno di poi non so se, potendo scegliere, rimarrei comunque in quel punto, in attesa della collisione.
Perché la verità è che l’eco è insostenibile. Ed è impercettibile, inevitabile e inevitabilmente presente.
 
E i sospiri stanno lì a riempire l’aria non di tensione ma di sconfitta.
Di morbido e ineluttabile abbandono.
 
Quindi quando lo vidi, di pomeriggio, sospirai.
E sospirò anche lui, a qualche pacco di cibo di distanza.
 
Mi ci volle mezzo secondo per assorbire tutti i cambiamenti che Gerard si trascinava dietro senza troppa cura.
Fece male tutto. Lentamente.
I vestiti troppo larghi che però erano quelli di sempre.
I capelli sfatti e spenti, tagliati forse un po’ troppo.
Lo sguardo senza parole, senza punti di sospensione, senza più una voce. Non lo attraversava nemmeno un’esile vibrazione delle corde sonore dei suoi pensieri.
Anche il suo sospiro era troppo pesante da sostenere. Come se l’avesse trattenuto troppo a lungo, per troppe settimane. Come se non appartenesse più a un corpo che era fragile. Troppo.
 
Era tutto troppo. E troppo di più rispetto all’ultima volta che l’avevo visto.
 
E anche il supermercato, che poi alla fine era sempre lo stesso, sembrava come restringersi sui suoi metri quadri.
E mi si schiantava addosso. Come una macchina, come un incidente, come una cosa capitata per caso, che però non era affatto casuale.
Come il messaggio a cui non avevo mai risposto e le conversazioni che non avevo mai intrapreso in tutto quel tempo.
Come una vita da cui fuggi perché pensi sia alle tue spalle, e poi però ti investe in pieno volto.
 
Schiacciata contro i miei occhi era quella figura davanti a me.
E io trasalii, perché non la riconobbi. E non la riconobbi perché non combaciava più con nessun ricordo.
 
Perché la malattia intacca gli organi, il sangue, gli sguardi, ma soprattutto le certezze che credevi di avere.
 
A Gerard mi avvicinai con passi lenti, come a un animale di cui temi la fuga. E mentre mi avvicinavo non pensavo a nulla, avevo la mente completamente annebbiata.
E quando lo abbracciai fu piano: lo circondai della mia presenza come a voler dargliene un po’.
 
Fu in quel momento che ricominciai a pensare. Non ricordo bene a cosa, però pensai.
Dopo tantissimo tempo ebbi di nuovo dei pensieri e non volevo far altro che condividerli con lui.
Metterli a disposizioni di tutti, affinché tutti potessero sentirmi e vedermi e realizzare che ci si può sentire bene e provare dolore allo stesso tempo.
Perché la vita sta tutta in un’equazione e le incognite le trovi in abbracci come il nostro.
Le trovi in posti squallidi come un supermercato, perché inseguire soluzioni perfette non ha senso.
 
E perché in matematica ci sono dei numeri periodici che dopo la virgola continuano in cifre infinite e tu non hai modo di pensarli o capirli, però sai che esistono.
 
Un pomeriggio, al corridoio 3, realizzai che io e Gerard avevamo appena oltrepassato la nostra virgola.
 
--
 
«Scusa».
Tentai, con la bocca premuta contro la sua spalla.
 
«Mi sei mancato».
Lui, invece, teneva il viso poggiato sui miei capelli a causa della differenza di altezza.
 
«Come stai?»
Ed era come se nessuno di noi ascoltasse ciò che l’altro diceva.
 
«Sei scomparso Frank…» - non mi diede nemmeno il tempo di sentire una fitta dentro - « Però non ce l’ho con te. Mi sei mancato». Ribadì.
 
Io, intanto, mi ero allontanato un po’, staccandomi da lui.
E ripetei anch’io:
«Scusa.»
 
Gerard mi guardò a lungo, senza dire nulla.
Poi sbuffò un poco dal naso e questa cosa mi riportò immediatamente con la mente al nostro primo incontro. Sbuffò mentre accennava una quasi impercettibile sfumatura di sorriso triste.
E poi andò via.
Semplicemente così; mi guardò, sorrise, andò via.
 
Io lo fermai.
«Gerard!» Dissi, a voce più alta, per farmi sentire.
 
Lui si voltò con tutto il corpo, come se fosse pronto a morire per quell’ultima pallottola che stava per ricevere.
 
«Ti va di vederci al parco, stasera?»
 
Mi guardò ancora. E io mi chiesi cosa cazzo avesse da guardare con quel suo sguardo che era troppo debole, che tremava troppo, che non sopportava nemmeno la luce dei neon.
Annuì. E io sentii qualcosa partirmi da dentro.
Si voltò. Fece un passo.
 
«Gerard…» - supplicai, in modo sommesso.
 
Ma questa volta non si girò. Semplicemente si fermò lì, a qualche passo da me.
 
«Mi sei mancato anche tu».
 
Mi privò di tutto, Gerard, quel pomeriggio.
Non ricevetti risposta, non vidi l’espressione sul suo volto e non seppi mai se lui, dopo quelle poche parole, sorrise ancora o sbuffò ancora, o provò qualcosa.
 
E mi privò della vista dei suoi occhi, perché forse erano troppo più eloquenti di quanto lui non desiderasse.
 
Ciò che avevo, tornando a casa, era una busta di plastica mezza piena in una mano e l’involucro vuoto di una persona nell’altra.
E morivo dalla voglia che arrivasse sera, per poterlo riempire con qualcosa che fosse presente e non ricordo.
Difficile da sostenere, ma reale e amaro.
 
--
 
Il resto del pomeriggio procedette da sé, mentre io me ne stavo passivo in un angolo della mia camera.
Non volli uscire, non andai in cucina, non parlai con nessuno.
Per me era tutta un’attesa. Tutto un preludio. Un momento che assumeva significato solo in relazione a un dopo.
E io stesso, in quel secondo, giacevo incompleto. In potenza.
 
Provai a dormire per far passare più velocemente il tempo, ma ovviamente non riuscii a farlo. Viaggiava tutto troppo veloce: i ricordi, le immagini, i pensieri, le paure, le supposizioni.
Viaggiava, il tempo, troppo lento.
Come il caffè che non viene mai fuori dalla caffettiera se stai a fissarla. 
 
E poi esplode tutto all’improvviso. Nell’attimo in cui ti volti o ti distrai o sbatti le palpebre.
Sta tutto lì il significato delle cose.
Io pensai questo, quel pomeriggio, mentre il cielo diventava scuro.
Però poi fu un secondo. O meno.
E mi addormentai.
 

 
Ricordo che era ormai sera.
Il telefono segnava le nove e sette, e un messaggio non letto.
“Gerard”, diceva.
 
E non so se mi fece più effetto quel nome illuminato al centro dello schermo oppure la realizzazione che, una volta, vederlo scritto lì sarebbe stato del tutto normale.
 
“Sono libero, stasera.” - E nient’altro.
 
Risposi, provando a negoziare un posto e un orario che andassero bene a entrambi.
Ma Gerard non sembrava curarsene. Fu come se tutto gli scivolasse addosso, senza alcuna differenza.
 
Erano quasi le dieci di sera quando uscii di casa.
A mia madre dissi semplicemente che stavo uscendo per una passeggiata. Lei mi guardò e mi fece un cenno. Io seppi che mi capì.
 
Camminavo sul marciapiede e mi sentivo distrutto e valoroso allo stesso tempo.
 
Pensai tanto durante il tragitto. Ricordai un pomeriggio di qualche tempo prima.
Era il tramonto e io e Gerard eravamo a casa sua. Lui stava seduto coi piedi sul tavolo, un album da disegno o un taccuino poggiato sulle gambe e la schiena curva, mentre buttava giù schizzi e frasi.
Il suo viso, di fronte alla finestra con le persiane leggermente inclinate, era illuminato da una luce arancione con riflessi viola.
E io lo osservavo. Non ricordo nemmeno cosa stessi facendo, prima di quello. Ricordo però che sollevai per caso lo sguardo e vidi Gerard immerso nel silenzio e nel candore dei raggi deboli del sole, e allora si bloccò tutto.
 
Perché non c’era più niente.
Niente oltre il suo profilo. Il naso leggermente all’insù, le sopracciglia corrugate, gli occhi un poco chiusi come per concentrarsi meglio.
Non c’era altro, perché Gerard era tutto lì, in quel momento.
Sgorgava e scorreva impetuoso in ognuno dei suoi più piccoli dettagli, perché lui era le cose che amava, le passioni più pure che potesse avere, e la concentrazione e la dedizione che vi riponeva.
 
E provai come un dolore dentro, camminando. Perché di quel pomeriggio mi mancava tutto e perché Gerard non mi sembrava più lo stesso.
 
Quando arrivai al parco e lo vidi seduto su una panchina, chiusi gli occhi.
Lo capii subito che stavamo giungendo a una fine.
Però, nonostante tutto, lui mi sembrò bellissimo.
 
Rannicchiato sullo stesso verde scrostato e un po’ arrugginito su cui ci eravamo visti, guardati e parlati per la prima volta, Gerard fissava il vuoto.
I gomiti poggiati sulle ginocchia. Una giacca troppo pesante per la temperatura che faceva. Tra le dita una sigaretta fumata per tre quarti, con la cenere che correva verso il filtro, sospinta dal vento.
E i capelli troppo corti, la pelle spenta, gli occhi in fiamme, le mani che tremano, le braccia magre, le guancie vuote.
E io ero felice che lui non potesse vedermi, perché in quel momento non era necessario.
 
Quando, aprendo gli occhi, ebbi modo di osservarlo, capii che Gerard era sempre rimasto lì.
Sempre in casa sua, nel suo salotto, coi piedi sul tavolo e la penna in una mano.
Il tramonto sul viso, dentro le iridi.
 
E si girò, Gerard. Ma lo fece solo nel mio ricordo.
Si voltò e si accorse che lo stavo osservando.
Mi osservò di rimando, ma solo per una frazione di secondo. Poi gli sfuggì dalle labbra l’accenno di un sorriso. Durò pochissimo, ma io lo afferrai prima che lui potesse riprenderselo.
 
Ed è così che restammo, io e lui.
Cristallizzati.
 
Sapevo che non era giusto vivere di ricordi, ma sapevo anche che Gerard non avrebbe voluto essere ricordato come mi si presentava davanti quella sera.
 
E quindi io decisi che quel pomeriggio in casa sua sarebbe stato infinito. E che noi, nella nostra finitudine, saremmo rimasti per sempre lì.
 
Mi piacque pensare che c’erano ancora il tramonto e anche tutte le altre cose attorno a noi.
Gerard che si volta. Gerard che sorride.
Io che sono felice.
Il resto che smette di esistere, perché non è importante.
 
Gerard che si alza. Gerard che mi sfiora.
Io che lo sfioro.
Col naso, le labbra, la punta delle dita. Lo sguardo.
 
Fare l’amore nella penombra e su un letto mai rifatto. Sudati e senza ossigeno.
 
E mentre io e Gerard cavalcavamo il tramonto di un pomeriggio lontano, i nostri ‘noi’ futuri incrociavano ancora i loro sguardi. Per l’ennesima volta.
 
Ma era ormai sera. Faceva più freddo ed eravamo vestiti.
 
Io mi avvicinai piano alla panchina e pensai a quando Gerard mi aveva preso la mano, seduto a un piccolo tavolino, e mi aveva chiesto di essere ricordato in quel modo, in quell’esatto momento.
 
Quindi mi sedetti ancora accanto a lui, ma non strinsi la sua mano perché non ne ebbi il coraggio.
Solo mi sedetti, mi voltai e lo guardai a lungo, fluttuando nella profondità e sincerità delle sue pupille come fa un satellite nello spazio.
Perché infondo era ciò che ero.
 
E lì, per la prima volta, pensai di amarlo.
Però non glielo dissi.
 
Gli chiesi soltanto: «Senti, ce l’hai un accendino?».
Poi mi scappò un sorriso. 

 
 
 

 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: were_all_dead_now