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Autore: Arva    19/07/2016    1 recensioni
Torus, un giovane mandaloriano che "di giorno" fa l'armaiolo e il mercenario, nel tempo libero si diletta nell'esplorare asteroidi e durante una spedizione in quel del campo di Vergesso fa una scoperta che lo costringerà, molto probabilmente suo malgrado, a riallacciare legami che pensava di avere seppellito da tempo.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Se attorno a sé non avesse avuto il vuoto cosmico, relativamente parlando, Torus avrebbe sentito un sonoro schianto di granito che si spezzava sotto la pressione della piccozza idraulica. Ovviamente, dato che era immerso nel vuoto cosmico, relativamente parlando, Torus poteva osservare lo stesso frammento di roccia che se ne svolazzava placidamente con la leggerezza che sono in assenza di gravità si può possedere.

Non sapeva come mai, ma c’era qualcosa di profondamente maestoso e allo stesso tempo triste che lo aveva sempre attirato negli asteroidi: forse era il fatto che se ne stessero lì nel loro bel campo gravitazionale di qualcun altro, immobili e allo stesso tempo estremamente veloci nello spazio più o meno profondo. Si alternavano gli imperi, passavano decine di migliaia di astronavi l’anno, venivano combattute guerre che lasciavano sfregiati decine di pianeti e loro niente: c’erano sempre stati e ci sarebbero stati fino a che la Galassia non sarebbe implosa su sé stessa o chissà quale altra teoria bislacca con cui se ne erano usciti gli uomini di scienza nel corso della storia.

 

Inoltre, Torus adorava la sensazione dell’assenza di gravità, il fatto che in certi momenti potesse sentirsi completamente sganciato da terra e libero di andare dove voleva, anche lassù da quei silenziosi, anziani e serafici osservatori dello spazio, magari per capire cosa si dicevano nel corso dei secoli o vedere se effettivamente c’era della saggezza nelle loro sale silenziose e deserte.

Pur essendo un uomo di scienza a sua volta, benché a modo proprio, e una creatura di montagna, capiva che ogni tanto arrivava il momento di cambiare aria e adoperarsi per avere una prospettiva diversa sulla vita. C’era chi si faceva un giro per le foreste di Kashyyyyk in cerca di creature pelose e di Wookiee con cui giocare a dejarik e puntualmente lasciare vincere; c’era chi si dava al gioco d’azzardo nei vari casinos sparsi per la Galassia; chi ancora coltivava ogni sorta di piante, che fossero spezia o meno poco importava; lui preferiva prendere armatura, jetpack, attrezzi da scalata e nave per dare calci sempre più forti e violenti alla propria claustrofobia.

I vantaggi collegati erano gli inevitabili panorami mozzafiato che aveva visto da quando aveva cominciato, alcuni anni prima, e una discreta collezione di materiali da lavoro più o meno rari che se avesse cercato nel libero mercato o, peggio, su quello nero avrebbe pagato ben più delle tasse di trasporto mandaloriane.

Erano comunque un furto, ma sempre meglio quelle che pagare la chirurgia estetica alle concubine dei Cartelli Hutt: da bravo figlio di Manda’yaim disprezzava loro e tutto ciò che toccavano.

 

Il che riconduceva al motivo per cui aveva appena acceso un bastoncino luminoso e lo aveva lasciato a fluttuare a mezz’aria, gettando la sua flebile luce verdastra come una secchiata d’acqua su pareti che si estendevano in ogni direzione per decine di metri.
Nel proprio lavoro aveva fin troppo a che fare con il mondo della malavita: andare in giro per asteroidi era l’unico modo che aveva per disintossicarsi dalla feccia con cui trattava comunemente. Gli altri due erano la violenza indiscriminata, che pur essendo non illegale avrebbe avuto ripercussioni non indifferenti, e la meditazione.
E chi era, lui? Un Jedi? No, anche se l’aveva provata, molti anni prima, quando era ancora un ragazzino in cerca della propria identità, e aveva funzionato non male.
Peggio.

 

Il trillo di un indicatore nel visore riuscì nell’ardua impresa di riportarlo alla realtà: l’ossigeno rimasto aveva da poco passato le quattro ore, se voleva tornare nelle sue amate montagne vivo e non come una cometa doveva darsi una mossa. Anche perché, piccolo dettaglio spaziografico, non serviva una laurea in Astrografia presso l’università di Alderaan per ricordare che gli asteroidi di Vergesso erano leggermente distanti dal sistema di Mandalore.
Si trovava in una sorta di sala naturale, una caverna che doveva essere alta almeno una dozzina di metri nel punto più basso per poi perdersi nel nulla mano a mano che il soffitto saliva, ben oltre la portata di un misero bastoncino luminoso, e si estendeva in lunghezza per almeno altrettanto col pavimento liscio quasi quanto la pelle di un gungan appena uscito dall’uovo.
Se il raggio di illuminazione di quel triste ritrovato della chimica pre-iperspazio era di appena dodici, forse tredici metri, stava fresco: non riusciva a vedere la fine della caverna in alcuna direzione.

 

Altro che quattro ore di riserva d’aria, lì doveva tornarci con la Radiant! E, se ciò che aveva visto fino a quel momento era anche solo lontanamente veritiero, correva quasi il rischio che il suo caccia ci entrasse, in quella sala.
Non azzardava a sperare che fosse anche in grado di uscirne, non con lo scafo in un pezzo unico quantomeno: in genere quando si concedeva quel lusso, qualcuno di quei burloni dei Mand’alor’e del passato si divertiva a tirargli uno scherzo come un frammento di roccia a velocità terminale che gli trapassava la tanica del carburante o un improvviso quanto convenientemente bastardo aumento del campo magnetico locale che non solo friggeva l’astromech di bordo, ma anche la macchina del caff.

Che, miseria sacerrima, era anche nuova!

   
 
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